27.7.08

Il mondo universitario non può tacere

(tratto da il manifesto del 26/07/2008)

Il recente Decreto Legge 112/2008 è un documento inquietante, che può assestare il colpo di grazia al sistema universitario nazionale. Non ci soffermiamo su una serie di prescrizioni pur di estrema gravità (ulteriore riduzione, in tre anni, del Ffo per 500 milioni di euro; trasformazione in triennali degli scatti retributivi con conseguente riduzione delle già umilianti retribuzioni del personale universitario; drastica riduzione del turnover; regole inique per la determinazione degli accessi, ecc.) che, tuttavia, non raggiungono il livello di insensatezza dei principi che dovrebbero configurare il nuovo modello di sistema.
Il decreto, prevedendo ipocritamente la «possibilità» della trasformazione delle università in fondazioni di diritto privato e, dunque, la privatizzazione del sistema nelle sue espressioni più consolidate, configura una formazione sicuramente incostituzionale ed anticostituzionale. È, infatti, incostituzionale una configurazione sistematica che contrasti il dettato esplicito della Carta, lì dove prevede il carattere pubblico dell'istruzione, anche di quella superiore. È anticostituzionale una formazione che di fatto determina una triplice discriminazione.
Da un lato sono discriminate quelle sedi che, impossibilitate a trasformarsi in fondazioni di diritto privato, andrebbero a configurare, in un sistema a doppio livello di qualità, sedi di serie «b»; dall'altro lato, anche le sedi maggiori e potenzialmente trasformabili in fondazioni verrebbero discriminate in ragione della diversità strutturale delle zone in cui operano: zone ricche e zone povere. Infine una odiosa discriminazione riguarderebbe i giovani, a seconda delle loro condizioni economiche e sociali.
In altre parole, viene ipotizzata un'effettiva, pur se surrettizia spaccatura del paese nell'ottusa previsione di una costellazione di sedi capaci di realizzare un sottosistema di «isole felici», intorno alle quali, in un mare melmoso, vivacchierebbero le sedi di serie «b», nelle quali si spera che andrebbe scaricata ogni possibile contestazione, tra pochi fondi e scarsa qualità di formazione culturale e di preparazione professionale.
Il decreto è un esempio dell'inguaribile provincialismo capovolto italiano, che ritiene di accedere ai processi di modernizzazione e sviluppo, raccattando, con incultura, senza cognizioni approfondite, sistemi o parti di sistema operanti altrove, in paesi di diversa strutturazione sociale, economica e culturale, dei quali, per altro, si ignorano le pur esistenti incongruenze e tensioni, coll'arrestarsi alla impalcatura formale di essi.
In conclusione, il citato decreto rappresenta un consapevole o inconsapevole contributo alla definitiva dissoluzione della identità culturale nazionale, già, purtroppo, ridotta in condizioni precarie, esponendo ad ulteriori rischi la nostra identità statale.
Riteniamo che il mondo universitario non possa più tacere e invitiamo quanti hanno a cuore il destino delle nostre università e, con esse, del nostro paese, a reagire con forza e determinazione, respingendo strumentali ed ipocriti ideologismi da qualsiasi parte provengano e di qualsiasi colore, nell'interesse dei nostri giovani, cui è affidato, senza retorica, l'avvenire della nostra comunità nazionale.

Fulvio Tessitore, Michele Ciliberto, Edoardo Vesentini, Nicola Cabibbo, Giorgio Salvini, Margherita Hack, Giorgio Parisi, Cesare Segre, Annibale Mottana, Giancarlo Setti, Alessandro Pizzorusso, Cesare Vasoli, Giuseppe Giarrizzo, Salvatore Califano, Luigi Radicati di Brozolo, Natalino Irti, Girolamo Arnaldi, Luciano Canfora, Giovanni Chieffi, Fausto Zevi, Arnaldo Bagnasco, Stefano Poggi, Luigi Ruggiu, Alfonso Iacono, Giorgio Melchiori, Walter Tega, Andrea Tagliapietra, Maria Bonghi Iovino, Eva Cantarella, Fabrizio Lomonaco,Edoardo Massimilla, Domenico Conte, Beatrice Centi, Davide Bigalli,Germana Ernst, Federico Vercellone, Pasquale Smiraglia, Alberto Burgio, Giovanni Busino.
Seguono altre 142 firme

Etichette:

25.7.08

Difendiamo l'Università pubblica

Il documento L'Assemblea nazionale, tenutasi il 22 luglio a La Sapienza di Roma, delle Organizzazioni e Associazioni della Docenza e degli Studenti, ha discusso il D.L. 112 e i provvedimenti governativi in materia finanziaria e di pubblico impiego che strangolano il settore. Lanciato l'allarme e la mobilitazione

(tratto da AprileOnLine.info, 24 luglio 2008, 12:12)


L'Assemblea nazionale, tenutasi il 22 luglio 2008 nell'Aula Magna dell'Università La Sapienza di Roma, indetta dalle Organizzazioni e Associazioni della Docenza e degli Studenti, ha discusso la gravissima situazione venutasi a determinare a seguito dell'emanazione del D.L. 112 e dei provvedimenti governativi in materia finanziaria e di pubblico impiego.

L'Assemblea nazionale assume il documento di denuncia e di protesta delle Organizzazioni sindacali e delle Associazioni del 10 luglio 2008 e condivide i contenuti delle numerosissime prese di posizione degli Organi
accademici, che in questi giorni si sono espressi duramente, protestando contro la linea governativa di strangolamento dell'Università pubblica.

L'opinione pubblica deve sapere che, attraverso la riduzione dei finanziamenti, il blocco del turn over, gli espliciti intenti di privatizzazione, l'attacco ai diritti degli studenti, dei docenti e dei tecnico-amministrativi (senza contratto da oltre 31 mesi e con retribuzioni insufficienti), produrrà il progressivo svuotamento degli Atenei, l'impossibilità per un'intera generazione di giovani e di precari di entrare nei ruoli dell'Università, difficoltà per gli studenti di accedere alla formazione universitaria a causa dell'aumento delle tasse e delle crescenti barriere formali e sostanziali, la possibile alienazione del patrimonio delle Università come scelta imposta per far fronte alla mancanza di finanziamenti, la diminuzione dei servizi agli studenti e il rischio della perdita dell'autonomia, la penalizzazione, in particolare, degli Atenei del Mezzogiorno, già oggetto di pesanti tagli.

In una parola, scomparirà l'Università italiana come luogo pubblico di ricerca, di creazione e di trasmissione della conoscenza come bene comune.
Sarà cancellato il ruolo dello Stato nell'alta formazione, sancito e garantito dal titolo V della Costituzione.

Gli interventi governativi non sono un fatto casuale e congiunturale: essi disegnano un modello che si dispiegherà nel lungo periodo attraverso ulteriori interventi legislativi destinati a colpire e a ridimensionare lo Stato sociale nel suo complesso.

Inoltre, un ulteriore impoverimento del sistema-paese deriverebbe dal fatto che, mancando i concorsi per i giovani, gli aspiranti ricercatori saranno costretti a migrare verso altri Paesi più ricettivi, contribuendo così paradossalmente a renderli più competitivi rispetto al nostro.
Contro questo disegno l'Assemblea nazionale protesta decisamente, denunciando i guasti che deriverebbero all'intera comunità nazionale dalla sua attuazione.

La classe politica deve ascoltare la nostra protesta e prendere atto che essa e' fortemente congiunta alla volontà di cambiamento delle Università.
Occorre offrire soluzioni credibili per far crescere e migliorare il sistema pubblico della formazione.

Pertanto, l'Assemblea nazionale:

-chiede al Governo l'immediato stralcio di tutte le norme sull'Università contenute nei provvedimenti governativi;

-chiede al Governo che si inverta la manovra economica, destinando alle Università nuove risorse economiche anche al fine di bandire concorsi per giovani, avviando così la soluzione del grave problema del precariato;

-invita gli Atenei a sospendere l'avvio del prossimo anno accademico, informando e discutendo con gli studenti e con il personale tutto adeguate forme di mobilitazione;

-invita le Università a non approvare i propri bilanci preventivi in mancanza delle adeguate risorse economiche;

-chiede alla CRUI, al CUN, al CNAM e al Consiglio nazionale degli studenti una presa di posizione forte ed esplicita per l'apertura di un confronto inteso a promuovere i veri interessi della comunità universitaria;

- preannuncia, a partire da settembre, un calendario di iniziative di mobilitazione nazionali e locali, per preparare una seconda manifestazione nazionale e arrivare, se necessario, allo sciopero di tutte le componenti universitarie e alla sospensione di ogni attività didattica;

-invita tutti i lavoratori e gli studenti delle Università a mobilitarsi congiuntamente, nella consapevolezza della gravità della situazione attuale e delle prospettive future.

DOCUMENTO DELL'ASSEMBLEA NAZIONALE DELL'UNIVERSITA'
indetta da ADI, ADU, ANDU, APU, CISAL-UNIVERSITA', CNRU, CNU, CONFSAL FED. SNALS-CISAPUNI, FEDERAZIONE CISL-UNIVERSITA', FLC-CGIL, RNRP, SUN, UDU e UILPA-URAFAM

Etichette:

22.7.08

L'attacco all'università

di Alberto Burgio

(tratto da il manifesto del 22/07/2008)

La destra attacca a testa bassa. La sceneggiatura inventata qualche mese da Walter Veltroni per aprire la crisi di governo non lo prevedeva. Fantasticava di una destra ormai civilizzata. Come stessero in realtà le cose è oggi sotto gli occhi di tutti: razzismo di Stato; leggi ad personam come a bei vecchi tempi; attacco contro quanto resta dell’unità sociale e istituzionale del Paese; guerra senza quartiere contro il lavoro pubblico e privato, e una politica economica fatta di frodi sull’inflazione reale e di tagli alla spesa e alle retribuzioni. Come sempre. Solo che adesso si infierisce su un popolo di poveri già super-indebitati.
Difficile dire che succederà alla ripresa autunnale. C’è da augurarsi che, incalzata dalla sinistra sindacale, la Cgil dia finalmente segnali di resipiscenza, ma dovrà vedersela con le altre confederazioni, tentate da una replica in pejus del famigerato Patto per l’Italia. Per parte sua, il Partito democratico si interroga se perseverare nella ricerca del dialogo o impegnarsi nell’opposizione, naturalmente «costruttiva». Intanto vengono giù interi pezzi della Costituzione materiale e formale della Repubblica, trascinando con sé le sorti della nostra democrazia.
Un’ennesima picconata la dà in questi giorni il decreto legge 112, la «lenzuolata» scritta da Tremonti in combutta con Sacconi e Brunetta sulla quale il governo ha posto la fiducia temendo di non ottenerne, altrimenti, la conversione in legge entro il 25 agosto. Tra privatizzazioni, tagli alla spesa e agli organici pubblici, nuove misure precarizzanti e ricatti contro i «fannulloni» del pubblico impiego, il provvedimento contiene misure devastanti in materia di scuola e di università. Il manifesto ha già messo in evidenza i pericoli che incombono sul sistema scolastico, già stremato da una politica di lesina che da anni colloca l’Italia agli ultimi posti in Europa quanto a spesa per l’istruzione pubblica. Sarà ulteriormente ridotto l’organico docente e ausiliario e si ridurrà il tempo pieno. Al contempo si riprenderà il progetto morattiano del doppio binario (scelta tra istruzione e formazione professionale già a 14 anni) teso a reintrodurre la logica classista dell’«avviamento» cancellata nei primi anni Sessanta con l’istituzione della scuola media unica. Dopotutto, non aveva detto chiaramente Berlusconi che non sta né in cielo né in terra che il figlio dell’operaio possa avere le stesse ambizioni di quello dell’imprenditore o del professionista?
L’università non è messa meglio. Le Disposizioni per lo sviluppo economico (questo il titolo del dl nella beffarda neolingua governativa) prevedono tagli alle già misere retribuzioni del personale docente e amministrativo; tagli agli stanziamenti (in aggiunta ai 500 milioni già decurtati nello scorso triennio); limiti al turn over (nella misura massima del 20% dei pensionamenti per il trienno 2009-2011); massicci trasferimenti a favore di pretesi «centri di eccellenza» (a cominciare dall’Istituto Italiano di Tecnologia, guarda caso presieduto dal Direttore generale del Ministero dell’Economia) e, dulcis in fundo, la possibilità che le università pubbliche si trasformino in fondazioni, spianando anche di diritto la strada a un processo di privatizzazione dell’università italiana che da anni – grazie alle sciagurate riforme uliviste – marcia già speditamente di fatto.
Si presti molta attenzione. Quest’attacco brutale non colpisce soltanto chi lavora nell’università né solo chi vi trascorre alcuni anni della propria vita, peraltro pagando tasse sempre più salate in cambio di un sapere sempre più parcellizzato e disorganico. Il progetto del governo ha un respiro ben più complessivo, una portata in senso proprio costituente. Ridurre al minimo il reclutamento di nuovi ricercatori significa precarietà a vita per quasi tutti coloro che ancora attendono di entrare in ruolo ed esasperazione delle logiche oligarchiche e baronali. Privatizzare il patrimonio degli atenei significa consolidare le propensioni e le pratiche neofeudali di ristretti gruppi di potere, sempre più insofferenti al controllo democratico. E significa accrescere il potere di condizionamento del capitale privato (impresa e credito) sui percorsi di ricerca e sulla stessa didattica. Destinare risorse crescenti ai sedicenti centri di eccellenza significa promuovere un sistema di università di serie A (per chi potrà permettersele) e di serie B (per tutti gli altri), secondo il pessimo modello castale degli Stati Uniti.
Per l’ennesima volta la nostra «classe dirigente» conferma la propria levatura strapaesana, non esitando a sacrificare le prospettive di sviluppo del Paese all’interesse di chi gode di posizioni privilegiate. Ma in questo caso l’attacco colpisce un fondamento della cittadinanza democratica. La scuola, l’istruzione, la cultura e la critica sono strumenti essenziali di partecipazione e di mobilità sociale. Per questo la Costituzione ne preserva libertà e pubblicità. E per questo la destra al governo intende cancellarne il carattere di massa. Viene insomma al pettine uno dei nodi della primavera vissuta anche in Italia tra gli anni Sessanta e Settanta. C’è chi, per fortuna, se n’è accorto in tempo. Nelle università si moltiplicano in questi giorni agitazioni, appelli alla mobilitazione e assemblee di studenti, docenti e precari. Ma non è ancora abbastanza. Occorre saldare al più presto un fronte ampio che coinvolga massicciamente il corpo docente e tutti i dipendenti del sistema universitario pubblico. Questa controriforma non deve passare: dov’è scritto che agosto non possa essere tempo di lotta?

Etichette:

18.7.08

Al mercato. Nuove ribellioni fra le rovine dell'università

Gigi Roggero

La ventilata trasformazione delle università in fondazioni di diritto privato non implica tanto la loro competizione su un mercato inesistente, quanto l'introduzione di criteri arbitrari per attingere ai pochi fondi pubblici rimasti

(tratto da il manifesto, 16 Luglio 2008)

L'applicazione della riforma universitaria Berlinguer-Zecchino è fallita. Questo è il dato da cui partire. Chi lamenta l'apatia degli studenti, sarebbe ora si ricredesse: non soltanto per i movimenti che si sono opposti alla riforma, ma per i comportamenti diffusi e le pratiche soggettive che hanno a lungo termine messo in crisi i dispositivi di disciplinamento e di misurazione del sapere. Comportamenti e pratiche innervati non dalla nostalgia per le belle lettere - come sarebbe piaciuto ai conservatori di una torre d'avorio in pezzi - ma dalla materialità dei processi di déclassement e di precarizzazione del lavoro cognitivo.
Nel novembre del 2005, dopo le occupazioni contro la legge Moratti, Marco Bascetta aveva sostenuto la necessità di passare dalla «guerra» alla «guerriglia» contro la riforma. Ebbene, la «guerriglia» ha - almeno in parte - vinto.Tra il 2005 e oggi Fabio Mussi, ministro senza qualità, è stato al Miur un dimenticabile intermezzo tra Letizia Moratti e Mariastella Gelmini, scelta giudicata debole e di basso profilo, perfettamente in linea con lo smantellamento bipartisan del sistema formativo.
Scartata l'ipotesi di una nuova riforma organica dell'università, la neoministra si limita a navigare in quella riforma pasticciata, permanente e inconclusa, priva di disegno strategico, che costituisce ormai da decenni la realtà dell'istruzione superiore in Italia. E nel naufragio del 3+2, propone di sfoltire i corsi di laurea e di monitorare dottorati e master, «area di parcheggio da cui pescare manodopera accademica a basso costo».

Passaggi al buio
Del resto, le sue tre «parole chiave» - autonomia, valutazione, merito - sono in piena sintonia con il think tank del «liberista di sinistra» Francesco Giavazzi, ma stridono con una università abbandonata alla sua inerziale rovina. Nella competizione globale per i talenti, dicono, i salari dei professori - regolati dal merito - vanno portati al livello europeo, non soltanto per bloccare la fuga dei cervelli, ma per attirarli. Come tutto questo possa coniugarsi con i tagli della manovra tremontiana, i progetti di ricerca sacrificati al prestito ponte per Alitalia e il blocco del turnover (traduciamo: i baroni restano al loro posto e i precari pure), è un vero mistero. Le defiscalizzazioni dovrebbero stimolare l'investimento dei privati (fondazioni bancarie, no profit, piccole e medie imprese), i quali - da sempre disinteressati a formazione e ricerca - potranno in questo modo godersi gli incentivi regalati dal governo.
Comunque, il vero nodo per Gelmini e Giavazzi è la differenziazione degli atenei, ovvero la costruzione di un mercato della formazione. Il progetto dell'Aquis, sponsorizzato dal «Corriere della sera » e guidato da un pugno di università autodefinitesi di eccellenza, sembrerebbe andare in questa direzione. Tuttavia, nell'indifferenza delle imprese, anche la possibile trasformazione delle università in fondazioni di diritto privato, ventilata nel Dpef, non implica tanto la loro competizione su un mercato inesistente, quanto piuttosto l'introduzione di criteri - arbitrari - in grado di gerarchizzare l'assegnazione dei pochi fondi statali, che restano l'unica fonte, ancorché in progressivo prosciugamento.
Anche dalla roccaforte liberal della voce.info fioccano dubbi e ironie sui provvedimenti di una manovra finanziaria approvata in ben otto minuti e mezzo. In un articolo inequivocabilmente intitolato Passaggio al buio, Bruno Dente - che già da tempo caldeggia una strategia di differenziazione competitiva delle università - osserva sconsolato la sconcertante vaghezza sui parametri che dovrebbero presiedere la scelta del regime privatistico, sulle forme di cambiamento dell'attuale stato giuridico e di piena contrattualizzazione dei docenti, su una auspicata flessibilizzazione dei meccanismi di governance che cozza con la rigidità di una struttura feudale incancrenita. Ma c'è una considerazione che precede tutte le altre: nessun potenziale partner pubblico o privato accetterà mai di investire in una fondazione a perdere, per nulla garantita economicamente da governi che già da tempo hanno deciso di abbandonare l'università. Questa a stento sopravvive e riproduce le proprie macerie succhiando le risorse di precari e studenti.

Una mossa per non cambiare
In questo quadro, attestarsi sulla difesa del valore legale del titolo di studio, o sulla semplice battaglia contro l'aumento delle tasse o sulla riaffermazione della mission pubblica dell'università, laddove è proprio il confine tra pubblico e privato a venir meno, risulta di dubbia utilità, se non dannoso, perché rischia di ributtarci nell'abbraccio mortale di quelle resistenze conservatrici, incarnate dalla Conferenza dei Rettori (Crui), che già guaiscono per i tagli dei (loro) fondi. Ad esempio, se la proposta di Giavazzi di abolire i concorsi nazionali ha l'inquietante profilo della guerra ai «fannulloni», ciò non significa proteggere quell'odioso meccanismo di riproduzione del perverso rapporto di vassallaggio tra precari e baroni.
Tra l'altro, la proposta del ministero di un doppio filtro per il reclutamento di docenti e ricercatori (nazionale e locale) è l'ennesima mossa per non cambiare nulla. Non a caso le mobilitazioni dei ricercatori precari si sono spente quando hanno barattato i claim dell'autonomia e della riappropriazione di reddito con la (poco realistica) rivendicazione di concorsi per tutti, impiccandosi alle proprie catene. Dato che il governo feudale dell'accademia è la via italiana a una aziendalizzazione fallimentare, proviamo a spiazzare il piano della sfida al think tank della Gelmini: il problema, per ora, non è quanta impresa fanno entrare all'università, ma quanto baronato non riescono a far uscire. Comincino da qui, se hanno forza e coraggio.

Pratiche di resistenza
Se la crisi è una opportunità, il suo esito è però tutt'altro che scontato. Il «governo ombra» del Pd dimostra, sulla università e non soltanto, grande coerenza con l'esperienza del «governo in chiaro», nel senso che continua a non avere neanche l'ombra di un'idea. Quanto alla ex sinistra radicale, che non ha mai brillato in materia, l'unica battaglia sulla conoscenza che interessa è quella sul numero di tessere. Il sindacato, infine, persevera nel considerare l'università come un luogo di formazione delle elite, o delle corporazioni dei knowledge workers.
Così, sono le pratiche di resistenza degli studenti a rappresentare l'unica opposizione alla dismissione. Poiché non c'è nulla da difendere, è una resistenza che non soltanto ha inceppato i dispositivi dell'università riformata ma, con le pratiche di autoformazione, ha costruito l'unica prospettiva di università e autonomia in circolazione. Adesso si tratta di passare dalla «guerriglia» alla «secessione costituente». Una secessione che, probabilmente già a partire dai prossimi mesi, tornerà a essere «guerreggiata».

Etichette:

15.7.08

Università, la protesta dilaga. "Via i tagli o stop alle lezioni"

Si moltiplicano le critiche alle misure inserite nel dl che anticipa la Finanziaria
Chieste modifiche immediate, mentre c'è chi minaccia drastiche contestazioni

di ANDREA BETTINI

ROMA - Contestazioni, minacce di bloccare lezioni, esami e sessioni di laurea, allusioni nemmeno troppo velate allo stop del prossimo anno accademico. Chi si attendeva un'estate di transizione ed un eventuale autunno di proteste, a quanto pare, era troppo ottimista. In molte università italiane è già iniziata la mobilitazione contro i tagli decisi dal governo il 25 giugno con il decreto che anticipa la manovra Finanziaria. Una protesta che sta dilagando e che, con toni e modalità diverse, coinvolge rettori, docenti, ricercatori e personale amministrativo.

Le spiegazioni e le rassicurazioni del ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini, che di fronte alle prime polemiche ha parlato di "scelte dolorose ma indispensabili" e di "tagli sulla base di indicatori di merito", sembrano non essere riuscite a fermare le critiche. Mentre si moltiplicano le assemblee e gli allarmi per il futuro dell'università, la richiesta dei contestatori è sostanzialmente unanime: stralciare dal decreto alcune delle principali novità oppure modificarle durante l'iter parlamentare per la conversione in legge. Una posizione che sarà probabilmente ribadita il 22 luglio a Roma, quando alla Sapienza si svolgerà un'assemblea nazionale dei rappresentanti di tutte le componenti universitarie.

I punti contestati. A preoccupare il mondo accademico sono diversi provvedimenti. Il più criticato è la graduale riduzione, collegata ad una forte stretta sulle assunzioni, del Fondo di finanziamento ordinario, con risparmi di circa 1,5 miliardi di euro fino al 2013. Contestate anche le misure sugli stipendi, con scatti di anzianità dei docenti che da biennali diventeranno triennali ed una riduzione del Fondo di contrattazione integrativa del personale amministrativo. Molta perplessità, infine, anche sulla possibilità per gli atenei di trasformarsi in Fondazioni di diritto privato.

"Interventi inaccettabili". Dopo la bocciatura unanime da parte della Conferenza dei rettori, secondo la quale i tagli porteranno inevitabilmente il sistema al dissesto, dai vertici delle università continuano a piovere critiche nei confronti del decreto legge. Una mozione approvata ieri dai Senati accademici degli atenei toscani definisce interventi gravi e "inaccettabili" la riduzione dei trasferimenti statali e la limitazione "improvvisa, indiscriminata e pesante" del turnover dei dipendenti e chiede lo stralcio dal decreto delle norme che si riferiscono all'università. Venerdì scorso, invece, i quattro rettori delle università dell'Emilia-Romagna hanno denunciato che la "riduzione drastica delle risorse finanziarie e umane, oltre a mortificare l'intero insieme di professionalità e competenze all'università, mette a serio rischio la funzione didattica e nel contempo la sostenibilità delle attività di ricerca" e hanno convocato per il 21 luglio una riunione straordinaria congiunta dei quattro Senati accademici e dei consigli di amministrazione.

La mobilitazione. In molte università si stanno già mettendo a punto forme concrete di lotta. Ieri un'assemblea generale dei lavoratori e degli studenti degli atenei napoletani, indetta da Flc Cgil, Cisl Università e Uil Pa-Ur, ha deciso, tra l'altro, l'astensione "a tempo indeterminato dei docenti e ricercatori dalla partecipazione a organi collegiali" ed il ritiro della "disponibilità a ricoprire incarichi didattici per il prossimo anno accademico". Il 9 luglio, invece, l'assemblea del personale delle università "Cà Foscari" e Iuav di Venezia ha ipotizzato "il rifiuto di svolgere carichi didattici superiori alle richieste di legge, il blocco degli esami, delle sessioni di laurea e delle lezioni". Lo stesso giorno, all'università di Sassari, l'assemblea dei docenti ha invece dichiarato lo stato di agitazione dell'ateneo e non ha escluso "per quanto con doverose riserve ed a fronte di un ulteriore irrigidimento della controparte, il ricorso ad azioni più eclatanti quali la possibilità del blocco degli esami di profitto e di laurea".

"A rischio il prossimo anno accademico". Una delle prese di posizione più nette nei confronti delle decisioni del governo è quella del Senato accademico dell'università "La Sapienza" di Roma. Martedì 8 luglio, prospettando un "danno grave per l'avvenire dei giovani e per lo sviluppo del Paese", ha chiesto lo stralcio della parte del decreto relativa all'università e ha indetto una giornata nazionale di protesta dicendosi consapevole "che in queste condizioni non sarà possibile dare inizio al prossimo anno accademico".

La petizione online. Il Coordinamento Giovani Accademici, intanto, ha pubblicato sul proprio sito internet una petizione in cui denuncia tra l'altro che la stretta sugli stipendi ridurrebbe i compensi annui lordi a fine carriera di 16mila euro per i professori ordinari, di 11mila euro per gli associati e di 7mila per i ricercatori. Il documento, che chiede un nuovo approccio nei confronti dell'università italiana, è già stato sottoscritto da più di 3.100 tra docenti, ricercatori e studenti preoccupati per il proprio futuro e per quello degli atenei.

(Repubblica.it, 15 luglio 2008)

Etichette:

3.6.08

Scienza e università povere e allo sbando

(tratto da il manifesto, 29 Maggio 2008)

Presentato un documento dell'Accademia dei Lincei sulla ricerca in Italia. Pochi i fondi pubblici, assente una visione progettuale. Mentre dilaga il precariato e continua la «fuga dei cervelli»

Lo stato di salute della ricerca scientifica italiana è pessimo. Nonostante la firma al trattato di Lisbona sulla costruzione della «società della conoscenza», i finanziamenti pubblici sono la metà da quanto stabilito nella capitale portoghese oltre otto anni fa. Inoltre è assente una visione progettuale sia di breve che di lungo periodo. Infine, il precariato è diventata la norma nelle politiche di reclutamento dei ricercatori, che non prevedono neanche una verifica del lavoro svolto, né la qualità scientifica del progetti di ricerca.
È questo il fosco affresco che la «Commissione ricerca» dell'Accademia dei Lincei ha delineato in un documento sulla ricerca biologica e medica in Italia reso pubblico ieri. Un affresco che trova conferma in un'inchiesta condotta dal Cnr su come i giovani considerano sulla scienza: campi del sapere certo interessanti (80 per cento degli intervistati), ma difficili da apprendere (52 per cento) e che non aiutano certo a trovare lavoro (per il 70 per cento del campione).
Per tornare al documento dell'Accademia dei Lincei, c'è la conferma che i finanziamenti pubblici alla ricerca scientifica è l'un per cento del prodotto interno lordo, cioè la metà di quanto i paesi dell'Unione europea, Italia compresa, avevano preso come impegno a Lisbona. Inoltre, il disinteresse verso la riesca scientifica è stato bipartisan: da dieci anni a questa parte tutti i governi non hanno considerato l'università e la ricerca scientifica come obiettivi strategici della propria azione. Anzi, la riduzione dei finanziamenti è stata una costante delle finanziarie approvate dai parlamenti che si sono succediti. Eccezione per l'ultimo governo Prodi, che ha mantenuto gli stessi finanziamenti del precedente di centro-destra: una conferma che non ha certo invertito la tendenza nell'emorragia di «cervelli» dal nostro paese.
Da qui l'emorragia di «cervelli» del nostro paese. Una conferma della scelta di molti laureati di cercare lavoro nella ricerca al di fuori dal nostro paese viene anche dai dati contenuti nel documento dell'Accademia dei Lincei. Nel 2007 ci sono state 1700 proposte di progetti di ricerca presentate da laureati italiani all'European Research Council rispetto alle 1000 presentate da «colleghi» tedeschi o inglesi. Di queste sono state accolte solo settanta, ma il dato più allarmante è che oltre la metà dei laureati pensava l'inserimento lavorativo in un paese diverso dall'Italia. Altro dato sconfortante è che al bando sul tema «Salute» del VII Programma quadro dell'Unione europea la percentuale di successo di progetti di ricerca italiani non supera il 15 per cento, contro il 25 per cento degli altri paesi europei.
L'Accademia dei Lincei affronta anche il tema della valutazione di qualità dei progetti di ricerca, riportando i dati di uno studio del National Institute of Health statunitense. È noto che negli usa la valutazione del lavoro di ricerca avviene all'interno delle peer review, cioè che dei «pari» che esprimono giudizi sulla qualità scientifica del lavoro svolto. Per i National Insitutes of Health solo il dieci per cento delle ricerche italiane è valutato secondo il metodo delle peer review. Da qui il giudizio impietoso dell'Accademia dei Lincei su come si accede ai finanziamenti. Rapporti preferenziali con la pubblica amministrazione, costruzione di «cordate» accademiche: si fa di tutto pur di riuscire ad avere i pochi finanziamenti a disposizione, con un conseguente abbassamento della qualità.
Per l'Accademia dei Lincei non esiste nessuna politica del «merito», chi riflette anche nel reclutamento dei ricercatori. Il precariato è infatti la norma, anche se nel documento non si parla ovviamente che molto del lavoro di ricerca è svolto proprio da ricercatori precari dell'Università. L'Accademia dei Lincei tuttavia non esclude che i primi anni di inserimento nel lavoro di ricerca possano essere legati a contratti di lavoro temporanei, ma questo non può essere protratto all'infinito, come spesso accade.
Nel documento ci sono anche alcune proposte per migliorare la qualità del lavoro di ricerca. In primo luogo, la costituzione di centri scientifici interdisciplinari sul modello dei Clinical Research Centers delle Scuole di medicina statunitensi.. Per quanto riguarda l'accesso ai finanziamenti, che va da sé dovrebbero essere aumentati, i fondi pubblici dovrebbero essere annunciati da bandi pubblici. L'assegnazione vera e propria dovrebbe essere gestita da un'Agenzia nazionale, che dovrà inoltre stabilire le linee guida progettuali.

Etichette:

7.9.07

Università: Il Bongiorno si vede dal mattino

La Stampa, 29/8/2007
Laurea ad honorem per Mike
La proposta del riconoscimento è stata approvata dal ministro dell’Università e della Ricerca Fabio Mussi
ROMA
Laurea ad honorem sul filo di lana per Mike Bongiorno. La proposta del riconoscimento è stata approvata dal ministro dell’Università e della Ricerca Fabio Mussi, in quanto rientrante in un gruppo di 12 per le quali la proposta da parte delle università era arrivata prima dello stop deciso dallo stesso Mussi alle lauree ad honorem.

La laurea ad honorem in Televisione, Cinema e Produzione multimediale attribuita dall’Università Iulm di Milano a Mike Bongiorno, è una ciliegina sulla torta per la carriera del presentatore e «la realizzazione di un sogno nel cassetto», come lui stesso ha più volte dichiarato.

Il riconoscimento gli arriva per «premiare l’intuito, le capacità innovative, la creatività, la carriera di uno dei principali protagonisti della storia della televisione italiana - aveva spiegato a maggio, annunciando la decisione, il rettore dello Iulm Giovanni Puglisi - colui che ha saputo creare format e modelli che hanno ispirato e continuano ad ispirare gli autori di quella stessa televisione, anche se rinnovata oggi nei suoi contenuti».

Per Bongiorno, 83 anni, caposaldo della tv italiana, sempre pronto a mettersi in gioco e rinnovarsi, anche grazie al recente sodalizio con Fiorello, negli ultimi anni si era parlato anche di una possibile nomina come senatore a vita. Una candidatura rilanciata più volte dal settimanale Tv Sorrisi e Canzoni, da gruppi di parlamentari e da vari sondaggi, suscitando anche qualche polemica. Fra le voci a favore c’era stata, nel 2002, quella dell’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi: «Mike Bongiorno è sempre straordinario. Credo che sia un pezzo della storia della tv - aveva detto intervenendo a una puntata del Maurizio Costanzo Show dedicata al presentatore -. Per questo può aspirare ad essere senatore a vita».
Meno possibilisti sulla sua nomina si sono espressi qualche mese fa sia l’ex segretario dell’Udc Marco Follini che il presidente della Camera Fausto Bertinotti, proprio rispondendo a Fiorello nel corso di Viva Radio2!: «Può accontentarsi del saggio che gli ha dedicato Umberto Eco», ha detto Bertinotti.
Meno complicato è stato il conferimento al presentatore della laurea ad honorem, che comunque sarà una delle ultime attribuita nel 2007 dagli atenei italiani, vista la decisione del ministero di bloccare tutte le richieste di onorificenza deliberate dagli atenei dopo il primo agosto.

Rientrato dalle vacanze alle Maldive, Mike Bongiorno ha commentato così la notizia «Ho appena parlato con il rettore dello Iulm e mi ha comunicato che la consegna avverrà a novembre. La data è da definire: il giorno di apertura della facoltà o qualche giorno prima. Sicuramente sarà una grossa manifestazione e avrò un’oretta a disposizione per parlare della storia della mia vita».
Un racconto che Bongiorno sta mettendo nero su bianco per Mondadori: «È un lavoro pazzesco: sono cinquant’anni che faccio questo lavoro. Sono a pagina 250, ci ho lavorato anche in vacanza. Il libro uscirà tra le strenne natalizie. Il titolo? Mi piacerebbe chiamarlo Allegria!».


ANSA, 6/9/2007
Bongiorno, Iulm laurea ad Honorem. Sarà consegnata all'inizio dell'anno accademico

(ANSA) - MILANO, 6 SET - Mike Bongiorno ha annunciato che gli verrà consegnata all'inizio dell'anno accademico una laurea ad honorem concessa dalla Iulm di Milano. 'Mi ha telefonato direttamente il ministro sia per darmi la notizia che per dirmi quando mi sarà consegnata' ha detto Bongiorno oggi. La laurea è stata conferita dalla Iulm per la Televisione, Cinema e Produzione multimediale.

Etichette:

30.6.07

One Student Does the Incredible: Gets Law Passed for State to Pay Off College Debts

By Joshua Holland, AlterNet
AlterNet. Posted on June 30, 2007


When nonvoters are asked why they don't participate in politics, the most common answer they give is that they don't think they can have any impact. The system's gamed, they say, broken, and lawmakers are only concerned about the interests of their cronies.

Thankfully, Andrew Bossie, a young grass-roots organizer, never came to believe that ordinary people are powerless. In 2005, Bossie, then a student at the University of Southern Maine, looked around and noticed that a generation of young people was having real problems affording the kind of education that most people see as vital to having a shot at the American dream. "The skyrocketing costs of tuition, books and living expenses was taking its toll not only on me, but also on my siblings, friends and peers," Bossie wrote in an e-mail exchange. "It was not uncommon to see a college dorm vacated mid-semester because a tuition bill couldn't be paid, or to find a seat once occupied by an eager student empty, because they simply could not afford to continue."

Nobody told Andrew Bossie that he couldn't do anything about the bleak post-graduation prospects so many of his fellow students faced, so he decided he would. "I had a crazy, hare-brained idea," Bossie told me in a phone interview. "And I started to have conversations with people who were politically active, and when I did that I saw that it generated a lot of excitement."

The idea was fairly simple: help students pay off their debts if they stay in Maine. Last week, two years later, Bossie's work, along with those of other activists and groups, including the League of Independent Voters, bore fruit when Maine legislators passed the Opportunity Maine Initiative. The measure will give tax credits to help Maine residents pay off their student debt as long as they stay in the state. "Nontraditional" students returning to get their degrees would also be eligible for the credits, as would employers who pay off their workers' student loans as a benefit.

After a two-year campaign, the measure had been on its way to voters in the form of a statewide referendum this November when Maine's legislature stepped in and passed the bill by wide margins -- 142-0 in the State House and 27-8 in the Senate.

It's a small example of good governance in an era when an increasing number of Americans have learned the hard way how rare that is -- it's an example of legislating in the public interest; the antithesis of deals cut in Congress during the dark of night or the federal efforts to clean up after hurricane Katrina.

Young Bossie had been involved in student politics and had gotten a taste of grass-roots organizing when he worked on a campaign to beat back a referendum that would have repealed a state law outlawing discrimination on the basis of sexual preference. "I realized, as we worked against a referendum process that would have allowed businesses to fire employees just for being gay -- something I considered very negative -- that it would be just as easy to use the referendum process to do something positive."

Soon, Bossie found himself heading up a coalition of activists called Opportunity Maine. "The greatest challenge," Bossie wrote last week, "was that the group that formed to spearhead this issue was made up almost entirely of novices, with little to no campaign experience, and, for the most part, young people -- we were building the plane and flying it at the same time ... None of us had really ever done anything like this, especially on this level before."

The problem they set out to address is one faced by communities all across America. Maine's once-thriving economy has taken hard hits as towns that relied on textiles, small manufactures and mills became hollowed out by the vaunted New Economy and its relentless pursuit of cheaper labor and ever-greater efficiencies.

With a shrinking number of decent-paying jobs, Maine's college graduates faced daunting prospects. Writing in the Bangor Daily News, Rob Brown, Opportunity Maine's Campaign Director, laid out the problem like this:

A generation ago, student debt was minimal or nonexistent. Today, the average graduate in Maine is starting off, or starting again, with $25,000 in debt, a mortgage on their future that has perverse effects on life and career choices. Rising education costs have dramatically outpaced inflation and, with mounting student debt and continued cuts in federal support, have effectively become a regressive tax for many.
Maine's problems are cyclical: Young graduates have to leave the state in order to find jobs that offer salaries that will allow them to pay off their debts, and, in turn, firms aren't beating down the doors to create new jobs in Maine because it's hard to find educated workers. According to a report by the Brookings Institution, roughly half of Maine's recent college graduates leave the state to find work. According to Brown, the state has one of the highest high school graduation rates in the country, but its workers are a third less likely to have post-secondary degrees than workers in the rest of New England. John Fitzsimmons, president of the Maine Community College System told the New York Times that his office had identified more than 4,000 recent jobs that had gone unfilled or were taken by out-of-state recruits because Maine didn't have enough workers with the required skills.

In stepped Bossie and the coalition he'd helped put together. "The biggest challenge that I personally faced," he told me, "was the hours of standing out in the cold asking for signatures in December and January. Remember, we had to collect more than 70,000 of them in the middle of winter on the streets of Maine to ensure that we would be successful. I could barely hold a pen and clipboard."

I asked Bossie where he got the nerve to think he could pull off something like this, and he paused before answering. "I feel like everyone complains about these systems we have," he said, "but I try to reform them instead. I own them, as a citizen -- they're my systems in the end."

This is a small story about a group of young people in one small state who are trying to sustain good local jobs in a rudderless global economy. It's also a story of grass-roots activism and good governance; of ordinary citizens -- not big-time campaign donors -- who believed that it was possible to address the kinds of problems that causes most career politicians to throw up their hands and say it's impossible for government to smooth the edges of the New Economy.

Joshua Holland is an AlterNet staff writer.

© 2007 Independent Media Institute. All rights reserved.

Etichette:

17.6.07

Così rinasce l'università per i ricchi

di Pietro Citati

Qualche giorno fa, i giornali hanno pubblicato una notizia: pochissimi giovani d'origine straniera vengono a studiare nelle università italiane; mentre le università inglesi o francesi o tedesche sono sempre più gremite di studenti di origine mediorientale, o orientale, o di altri paesi europei. I giornali offrivano una spiegazione: complicazioni d'ordine burocratico allontanano dall'Italia qualsiasi volonteroso. Non ho ragioni di dubitarne. L'immensa fantasia, che l'Italia possedeva nel quindicesimo e nel sedicesimo secolo, quando Orlando, Astolfo, Rinaldo, Tancredi, Angelica, Clorinda, Armida cavalcavano liberamente nei cieli del racconto, si è trasformata nel secolo scorso nella più tortuosa e avvilente immaginazione burocratica. Per qualche misteriosa ragione, nessuno riesce a sradicare questa flora parassitaria, che continua ogni giorno a rinascere dalle proprie ceneri.

Purtroppo, esiste anche un'altra spiegazione: le università italiane sono pessime, se ne escludiamo qualcuna e la Scuola Normale Superiore di Pisa (che non è, propriamente, un'università). Il disastro è cominciato (molti dicono: continuato) con la Riforma Berlinguer, entrata in vigore sei anni fa. A partire da allora, le leggi ministeriali hanno costretto gli studenti a non studiare, o a studiare il meno possibile, e sopratutto a non leggere libri o solo fascicoletti di poche pagine. Lo Stato italiano ha il perverso piacere di laureare ignoranti e incompetenti.
Il paradosso è che, nelle università italiane, esistono eccellenti professori ed eccellenti studenti, non meno bravi che in qualsiasi paese europeo.
Ogni volta che vado a insegnare o a tenere seminari nelle università italiane, trovo giovani che stanno svegli la notte pur di conoscere tutto su Aristofane, Leopardi o Ricardo. Leggono libri col disinteressato piacere della giovinezza. Cinquant'anni fa, noi avevamo l'ossessione di scoprire il "giusto metodo critico": mentre i ventenni di oggi dimostrano un'agilità mentale, una freschezza di sensazioni, una esattezza di osservazioni, un dono analogico, un'assenza di pregiudizi, che noi non possedevamo. Ma eccellenza di professori e di studenti vengono drammaticamente sconfitti da un sistema che impone di non insegnare e di non studiare.
Vorrei dare una buona notizia, anche se forse prematura: il nuovo Ministro ha deciso di trasformare l'insegnamento universitario, cercando di imporre di nuovo la serietà degli studi. Tutta la Riforma Berlinguer-Moratti va rifondata. Oggi il Ministero incoraggia, attraverso i finanziamenti, quelle università che in tre (o cinque) anni gettano sul mercato del lavoro giovani che non sanno nulla. La laurea specialistica sembra fallita. E non si vede perché la parte migliore dei nostri studenti, coloro che compiono in otto anni il dottorato di ricerca, non possa insegnare nei licei a meno di seguire altri quattro semestri di insegnamento di carattere pedagogico.
Non c'è molto tempo. Se il ministro non interviene subito, l'Italia perderà del tutto la propria classe dirigente: fatto immensamente più grave dello scandalo Parmalat, o dei costi della nostra classe politica, o del problema delle pensioni, o del cattivo funzionamento della burocrazia, o della riforma elettorale. Fra poco non sapremo a chi affidare l'insegnamento nei licei o all'università, o la direzione delle nostre imprese o il governo dell'economia. Intanto, i figli delle famiglie ricche vanno a studiare negli Stati Uniti o in Inghilterra. Così assisteremo (ancora una volta) a questa insensatezza: la Riforma Berlinguer, che pretendeva di essere democratica, farà in modo che tutta la nostra classe dirigente sarà formata da ricchi.

(la Repubblica, 13 aprile 2007)

Etichette:

5.6.07

Quel luogo singolare formattato per la rovina

La recente riforma per il reclutamento dei ricercatori è un ulteriore segnale della crisi degli atenei italiani. Da qui la necessità di un movimento che si riappropri dell'università e salvaguardi l'unità della conoscenza

Franco Piperno



Qualche settimana fa, in base ai poteri conferitigli, quasi di sfuggita, da un codicillo annegato nell'ultima legge finanziaria, il ministro Fabio Mussi ha decretato l'ennesima riforma della università. Si tratta del quarto intervento legislativo di «innovazione» della struttura universitaria italiana in meno di dieci anni: un primato senza precedenti non solo rispetto a quel che accade nel mondo contemporaneo, ma soprattutto se rapportato alla storia millenaria dell'Università come pubblica istituzione. Un primato che ha qualcosa di grottesco, se si pensa all'«inerzia» insita nella trasmissione dei saperi. Gli effetti sulla formazione culturale delle modifiche nell'organizzazione degli studi richiedono infatti, per rivelarsi, almeno quattro o cinque generazioni di studenti (grosso modo un trentennio). Dunque, se si procede a una nuova riforma ogni due anni e mezzo, l'innovazione procede alla cieca, senza alcun riscontro con l'esperienza.
Vero è che questa volta il ministro non si spinge a disegnare lo scenario di una nuova riforma nella sua interezza, ma si limita a decretare le nuove norme per il reclutamento dei ricercatori: una figura di docenza, si badi, che solo poco più di un anno fa la riforma del precedente ministro aveva condannato ad una estinzione certa. Tuttavia, il decreto, nell'argomentare quelle norme, dichiara più volte che esse vanno collocate all'interno di una generale modificazione del reclutamento della docenza; si tratta quindi di disposizioni che prefigurano, per similitudine, i criteri d'assunzione che verranno successivamente decretati anche per professori ordinari ed associati. E' lecito dunque considerare il decreto Mussi non tanto una misura emergenziale quanto un annuncio di strategia riformatrice.
Un autogoverno da cancellare
D'ora in poi i concorsi per il ruolo di ricercatore comporteranno un giudizio preventivo nazionale da parte di un giurì di esperti. Questo giurì sarà nominato dal ministro con un complicato sistema di sorteggio tra tutti coloro che, sulla base delle «parole-chiave» presenti nelle pubblicazioni dei candidati, posseggono riconosciute competenze nei campi disciplinari interessati. Una volta dichiarato idoneo, il candidato si sottoporrà al concorso organizzato dalle singole università; questa volta verrà giudicato da sette membri - di cui quattro d'ateneo con funzioni istituzionali e tre per la parte disciplinare - nominati dal senato accademico, cioè di fatto dal rettore. Scompare così dall'università uno dei semi di democrazia introdotti dal movimento del Sessantotto: il meccanismo elettivo come forma di autogoverno. Inoltre le nomine, sia a livello nazionale sia a livello locale, sono esplicitamente riservate solo ad una delle tre caste di docenza: i professori di prima fascia, cioè giusto coloro che spartiscono con i ministri la maggiore responsabilità dell'estenuazione culturale, per non dire etica, dell'università.
A differenza che in altri sistemi, dove l'idoneità è indipendente dal numero dei posti di docenza disponibili, il dispositivo «Mussi» subordina la prima ai secondi. Gli esperti stilano una lista di idonei, dei quali però solo il primo quarto sarà effettivamente ammesso ai concorsi. Può accadere così che una «buona annata» di giovani studiosi venga indebitamente penalizzata, vedendosi negare il riconoscimento formale di una idoneità alla docenza universitaria pur tecnicamente accertata. Infine, gli esperti ministeriali redigono la lista degli idonei sulla base dei soli titoli, senza formulare alcun giudizio sulla capacità espositiva e comunicativa del candidato. Capacità tuttavia cruciale nell'attività di formalizzazione della conoscenza e trasmissione pubblica dei saperi, ovvero nel ruolo specifico dell'università italiana: che non è, occorre ricordarlo, né una scuola professionale né un centro di ricerca.
Un'impropria mistura di modelli
Dalla lettura del decreto, l'impressione è che il ministro e i suoi collaboratori abbiano proceduto a confezionare una mistura di modelli accademici diversi, dalla «docenza nazionale» d'origine franco-tedesca alla tradizione informale anglosassone, per approdare alla figura del researcher-professor partorita dalla Big-Science: ma, non avendo mescolato abbastanza, la maionese non è venuta. Si vede qui all'opera un'accidiosità tipicamente italiana, quell'autodisprezzo che ci fa sentire sempre in ritardo rispetto alle altre tradizioni nazionali, quell'affanarsi a rubare le soluzioni altrui proprio nei settori dell'attività collettiva in cui il nostro paese ha giocato un ruolo creativo e vanta una esperienza quasi millenaria. E' la stessa accidia, per intenderci, di quando Walter Veltroni si dichiara seguace del pensiero politico di Bill Clinton, il quale non sapeva d'averne uno prima che il sindaco di Roma glielo attribuisse.
Gli adoratori della American way of life, specie intellettuale in via di rapida moltiplicazione qui da noi, dimenticano forse alcune cose, peraltro comunemente note, sul sistema formativo di quel paese. In primo luogo, le dimensioni di ignoranza individuale che esso comporta: secondo un'inchiesta realizzata, per il periodo 2000-05, dalla Aps (American Physical Society), la metà degli allievi della scuola secondaria non sa localizzare l'Europa o il Giappone sulla carta geografica; e nel 2000, il 20% della forza-lavoro era del tutto illetterata: in grado di riconoscere le singole lettere e riprodurne il suono, ma incapace di leggere persino una sola frase. In secondo luogo, la penalizzazione degli strati sociali più poveri che deriva dalla pessima qualità dell'insegnamento pubblico: solo l'8% degli adolescenti neri, il 20% degli ispanici e la metà dei bianchi sa calcolare il resto che gli è dovuto per una cena con due pietanze, cioè effettuare una addizione e una sottrazione consecutivamente.
Tutto questo contrasta nettamente con la formidabile vitalità dell'economia americana; che, in principio almeno, sembra esigere gente istruita piuttosto che analfabeta. In realtà, quel principio è solo un pregiudizio liberale, giacché molti ruoli del lavoro subordinato sono resi facili, per non dire stupidi, dallo tecno-scienza; infatti, non occorre capire, basta eseguire i gesti nella sequenza programmata.
Arrivano i migranti
In verità, una nazione può essere ricca e tecnicamente avanzata senza che i suoi cittadini sudditi debbano comunemente possedere i saperi dai quali quella ricchezza e quella tecnica hanno tratto origine - il che rivela, per inciso, quanto falsa sia la pretesa del nostro ceto politico di subordinare la formazione culturale alle necessità della competizione economica globale. Va detto, tuttavia, che le debolezze più gravi del sistema educativo americano sono parzialmente temperate da alcune istituzioni private, ad alto costo ma di ottima qualità. E che per quanto riguarda la forza-lavoro tecno-scientifica, l'inefficienza pubblica è mascherata dalla contribuzione nascosta degli immigrati. Le università accolgono infatti ogni anno un gran numero di studenti stranieri, spesso assai brillanti, e finanziati per i loro studi dalle famiglie o dalle istituzioni dei paesi d'origine: in alcune università prestigiose oltre il 70% dei dottorandi in fisica sono in questa situazione, mentre per le scuole d'ingegneria si tratta della metà degli studenti. I laboratori americani accolgono, dopo il dottorato, i migliori ricercatori stranieri, offrendo loro lavori incomparabilmente migliori di quelli nei loro paesi. Il costo iniziale della formazione di questi studiosi grava perciò sui paesi d'origine; e questo permette agli Usa d'aver accesso a un vivaio gratuito di qualità che contribuisce in modo determinante alla loro prosperità.
Malgrado tutto ciò, sarebbe disonesto non riconoscere che nella decisione del ministro di procedere per decreti v'è la presa d'atto dell'emergenza universitaria così come realmente è: lo svilimento della qualità della docenza, dovuta in primo luogo alla gerarchia senza autorità e alle pratiche lobbistiche per non dire mafiose dell'autopromozione collettiva; la frammentazione centesimale dei saperi attraverso l'inflazione dei corsi di laurea e l'aumento esponenziale dei moduli formativi; la tentazione propria delle corporazioni asfittiche di praticare modi perfino offensivi di «familismo amorale»: tendenze queste già presenti nelle università italiane sin dal dopoguerra, ma esaltate da quelle forme di autonomia degli atenei introdotte dalle riforme Zecchino-Berlinguer-De Mauro-Moratti.
La soluzione prospettata da Mussi, però, è un po' come buttare il bambino insieme all'acqua sporca. L'autonomia degli atenei, non solo amministrativa e finanziaria ma anche ordinamentale (quella che riguarda cioè le forme e i contenuti della trasmissione del sapere) è l'anima delle università: privati di questa potenza, gli atenei degradano a luoghi di addestramento per la forza lavoro qualificata. Era facile prevedere che la realizzazione dell'autonomia dovesse scontare più di una rovinosa caduta iniziale: solo dopo qualche lustro e a regime l'autonomia universitaria comincia a dare i suoi frutti. Ma il punto cruciale è che non si può riformare l'università snaturandola. Senza il concetto di autonomia del sapere, che vuol dire libertà del lavoro intellettuale, del suo accumularsi criticandosi pubblicamente, la specificità sociale dell'università, l'università come luogo singolare, va perduta.
Ritorno al futuro
La visione che il ceto politico ha dell'università è quella di una scuola professionale che, in funzione del mercato del lavoro, sforni giovani «formattati», più che formati, per ipotetici lavori qualificati. Si tratta di una visione senza concetto, che ha già mandato in rovina l'università nel nostro come in altri paesi. Bisogna invertire la rotta, e per farlo non c'è nessuna via elaborata in luoghi lontani che possa essere riprodotta da noi. Per salvare l'università, per serbarne l'autenticità cioè l'autonomia e la pubblicità del sapere, occorre ricostruirla daccapo sulle sue stesse rovine. Più che guardare altrove, giova ricominciare di nuovo, tornare all'origine, all'università medievale; e solo chi è prigioniero del tempo lineare potrebbe giudicarlo un ritorno indietro.
Del resto, non era stato il movimento del Sessantotto, nella prassi più che nella teoria, ad abbozzare una università strutturata attorno ad una sola figura di docente, sottoposto a un periodico e vincolante giudizio collettivo da parte degli studenti che ne hanno seguito le prestazioni magistrali? Questa maniera di garantire la qualità della docenza, che è propria dell'università delle origini, riproposta oggi suonerebbe, nel lingua di legno dei sindacati, come precarizzazione dell'intero corpo docente, come temporaneità del ruolo magistrale.
Bisogna invertire la rotta, ma non si vede chi possa farlo. Non i politici o i sindacati che non sono neanche in grado di porre la questione in tutta la sua complessità; ma neppure i docenti ingessati come sono in una gerarchia che premia la servitù volontaria, e afflitti quindi, come gli impiegati di banca, dal «timore della fame e del freddo e che gli rubino la legittima consorte». L'unico soggetto potenzialmente in grado di dare quel colpo di maglio atto a polverizzare le attuali rovine per ricostruirci sopra è lo studente, o meglio un movimento sovversivo di studenti, nuovo perché antico, che nutra la passione di preservare l'autonomia e l'unità della conoscenza; e per questo desiderio si batta costruendo fin da subito, nell'ateneo così com'è, alternative alle forme ed alla trasmissione del sapere; e si riappropri così molecolarmente dell'università, occupandola e difendendola in quanto luogo singolare, allo stesso modo di come si difende tutto ciò che è costruito in comune, ovvero mettendo in campo il proprio corpo.
È tutto così semplice da essere del tutto improbabile. Ma per fortuna, tra cielo e terra, non accade sempre ciò che è più probabile.

(il manifesto, 3 giugno 2007)

Etichette:

1.6.07

A che diavolo serve il settore pubblico?

il manifesto, 25 Maggio 2007

Fabrizio Tonello

Ma devono essere 101 euro o 96? Forse il problema del settore pubblico non sta in quei 5 euro, che non compenseranno gli statali di anni di vacche magre e neppure faranno affondare l'opera di «risanamento» dei conti intrapresa dal governo Prodi l'anno scorso. Il problema sembra piuttosto: «A cosa serve il settore pubblico?» A questa domanda sembra che tutti i ministri del Tesoro, almeno da Amato nel 1987 in poi, abbiano pronta la risposta: «A nulla».
Se non lo pensano, certo agiscono come se avessero introiettato l'idea che l'unica strategia per affrontare il costo della macchina governativa sia quella Starving the Beast come dicono i repubblicani negli Stati uniti. Non potendo «ammazzare» la bestia-governo, la si fa «morire di fame» riducendo, o quanto meno comprimendo, gli stanziamenti al livello minimo fino a ottenere, nel lungo periodo, l'effetto voluto. Grover Norquist, un celebre lobbista antifiscale americano, usa ripetere che lui non vuole eliminare il governo, solo «ridurlo di dimensioni fino a farlo entrare nella mia vasca da bagno» (e lì affogarlo).
Il problema di affamare il governo è che questa mitica entità, più che Palazzo Chigi, Montecitorio, Palazzo Madama e il Quirinale corrisponde in realtà ai servizi da cui dipendiamo per poter condurre una vita normale: le scuole, la polizia, i treni. Tutte cose di cui c'è oggi più richiesta di quanta ce ne fosse vent'anni fa: più sicurezza, più istruzione, più mobilità.
Le organizzazioni che erogano questi beni comuni sono, quasi tutte, labour-intensive, cioè spendono il grosso dei loro stanziamenti per pagare il personale: la «polizia» significa essenzialmente stipendi di poliziotti, così come scuola e università significano sostanzialmente stipendi di insegnanti e le biblioteche stipendi di bibliotecari.
Queste organizzazioni in primo luogo pagano gli affitti e gli stipendi e soltanto poi, con ciò che resta del loro bilancio, assicurano i servizi per i quali sono state istituite. A questa «legge bronzea» non c'è rimedio: non si possono assistere i malati senza infermieri, né fare lezione agli studenti senza persone fisiche che salgano in cattedra. Per di più, l'invenzione della garanzia del posto di lavoro (salvo il licenziamento per veri e propri crimini e non per «semplice» incompetenza professionale) significa che i dipendenti del settore pubblico rimarrebbero in organico anche se le loro organizzazioni non facessero assolutamente nulla.
Questa è ovviamente un'ipotesi estrema ma è invece una verità lapalissiana il fatto che se questi enti non vengono dotati di risorse sufficienti si limitano a «tenere aperta la bottega» in attesa di tempi migliori, fingendo di raccogliere la spazzatura, insegnare le tabelline, prestare i libri agli utenti. Certo, un po' di spazzatura sarà sempre raccolta, un minimo di istruzione sarà impartita, qualche ora di apertura le biblioteche saranno sempre in grado di assicurarla ma si tratta di pura finzione, dell'opera di volonterosi che non possono tollerare l'idea di sprecare la giornata e rubare lo stipendio. Dal punto di vista delle necessità sociali, il problema non è tenere aperte le scuole, è fare in modo che esse insegnino, così come la polizia serve per acchiappare i criminali, non per alleviare il problema della disoccupazione.
Al contrario, da una quindicina d'anni l'unica strategia per affrontare i problemi del settore pubblico italiano è stata quella di garantire i fondi necessari a pagare gli stipendi e tagliare su tutto il resto. Finanziaria dopo finanziaria, i musei hanno avuto giusto i soldi necessari per pagare i custodi, l'università quelli per tenere aperte le aule, i comuni quelli per tenere accesa la luce in municipio. Il risultato è stato che la crescita del fabbisogno pubblico è stata contenuta ma l'utilità sociale di ciascun pezzo del «sistema Italia» è diminuita vistosamente. Quando si parla di «crisi» della scuola o dell'università si ignora un dato molto semplice: sono sempre più macchine celibi, istituzioni che possono riprodursi ma non svolgere le funzioni per le quali erano state originariamente pensate.
Facciamo qualche esempio: in alcune città italiane, come Bologna o Pesaro, esistono biblioteche di pubblica lettura molto efficienti, enormemente frequentate, di grande successo presso la popolazione. Logica vorrebbe che queste biblioteche ricevessero finanziamenti sufficienti per fare ancora meglio ciò che già fanno bene e cioè acquistare libri, film, cd musicali e metterli a disposizione degli utenti. Quando un servizio funziona, se ne ha cura come della pupilla dei propri occhi, o no? Al contrario, la riduzione dei trasferimenti agli enti locali (e la miopia di alcuni assessori) ha fatto sì che gli acquisti di nuovi documenti siano stati ridotti al lumicino, il che significa che la collettività paga per tenere aperti dei servizi la cui qualità diminuisce anno dopo anno.
Università: prendiamo un dipartimento di storia o di filosofia in una grande università del Nord, ben gestita (precisazione utile perché non si dia la colpa all'autonomia degli atenei). Ebbene: i fondi di ricerca per l'anno 2007 ammontano a meno di 1.500 euro per docente di ruolo. Forse nelle facoltà scientifiche le cose andranno un po' meglio, ma tutti i professori delle facoltà umanistiche sono nella stessa situazione e, anche se gli economisti tendono a pensare che la stessa esistenza delle humanities è inutile e ingiustificabile, resta il fatto che lo stipendio lo prendono anche i colleghi di Lettere e Scienze politiche. Forse metterli in grado di fare qualcosa di ciò che il paese potrebbe chiedere all'università (se essa fosse considerata una risorsa e non un parcheggio di adolescenti) sarebbe un'idea innovativa.
Certo, il settore pubblico ospita al suo interno non pochi dipendenti assunti per ragioni clientelari, o comunque poco inclini a sacrificare la famiglia sull'altare dei doveri d'ufficio. Però ne ospita molti di più che invece considerano davvero il loro lavoro come una missione e mandano avanti la baracca anche nelle peggiori condizioni. Dare loro i mezzi di soddisfare le richieste di servizi dei cittadini sarebbe anche un modo per contenere l'impopolarità della politica di cui in questi giorni si parla tanto.

Etichette:

29.5.07

Università e scuola: il colpo di grazia

di Alberto Giovanni Biuso

(tratto da Giro di vite del 28/05/2007)

Da un’intervista a Luciano Canfora

Sul sito della Treccani è apparsa un’interessante e ampia intervista a Luciano Canfora a proposito della scuola e dell’università. Ne riporto alcuni brani.

Aggiungo in anteprima la notizia di una decisione che costituirà finalmente il colpo di grazia sia per la scuola che per l’università: negli ambienti ministeriali si sta proponendo l’ipotesi di permettere ai “laureati” triennalisti di insegnare nelle scuole di ogni ordine e grado, aggiungendo due anni di specializzazione psico-pedagogica invece che i due anni di laurea specialistica.

Chi -come me- constata a ogni sessione di laurea e di esami quale sia il livello medio dei laureati con diploma triennale, non può che ricordare le parole di Desmoulins secondo cui il legislatore Licurgo avrebbe reso gli spartani «uguali come la tempesta rende uguali tutti i naufraghi». Quel Licurgo non a caso amatissimo da Rousseau, e cioè dal remoto ma non per questo meno influente iniziatore della demagogia pedagogica e del quale anche un don Lorenzo Milani è stato fedele nipotino.

La vita e la storia umane sono a volte geometriche e -come dichiara Canfora- si sta abbattendo «una nemesi storica sulla demagogia di sinistra, di cui la sinistra è stata la vittima; si paga tutto nella politica, la politica è verità, quindi si paga tutto, gli sbagli in primis.».

====================================

(…)

Quanto alla domanda ulteriore, al fatto cioè che i nostri ragazzi non sembrano proprio «oberati», ma sembra piuttosto che il tentativo sia quello di eliminare ogni riferimento all’assunzione di responsabilità, io questo pensiero lo condivido, perché credo che la traduzione banale dell’idea del cittadino libero di esplicare la sua spiritualità sia diventato il culto del tempo libero e del non lavoro; a questo punto gli antichi, nel loro aspetto più faticoso per noi, quello dell’approfondimento, della conoscenza di una lingua non più vivente, di lingue non più viventi, tornano di grande utilità.

Mi riferisco a un pensiero non molto popolare, anzi dimenticato perché impopolare, di Antonio Gramsci, il quale era un pedagogista piuttosto severo, quindi non adatto all’attuale centrosinistra e neanche all’attuale centrodestra, molto fuori della demagogia vigente. Gramsci in una delle pagine dei Quaderni in cui si occupa della Riforma Gentile, del senso della riforma della scuola pensata e realizzata dall’Idealismo italiano (perché la Riforma Gentile poi è stata ideata insieme con Croce, e viene definita fascista, ma in realtà era stata pensata prima), riflettendo su tutto questo insieme, sul riordino del liceo classico, sulla sua funzione e così via, riflettendo anche sulla limitazione dello spazio riservato allo studio linguistico che in quella riforma si verificava nello spirito di quella tedesca di pochi anni prima di cui abbiamo letto all’inizio, fa un po’ controcorrente l’elogio dello studio linguistico, come la cosa faticosa alla quale non ci si può non sottoporre, perché lo studio deve essere doloroso, faticoso e solo allora produce una crescita.

Lui dice che lo studio del latino e del greco, del latino in particolare in quel caso, ha questo importante vantaggio: è come vivisezionare un cadavere, che non ha nulla a che fare con lo studio di una lingua moderna, è un lavoro duro, complicato, che esige ore di applicazione e in quanto tale è vantaggioso Questa formulazione è stata dimenticata, direi anche dai gramsciani più devoti. Non perché tutto quello che ha scritto Gramsci sia di per sé la verità, ma è interessante il fatto che si sia formata nella sua mente questa idea perché probabilmente ha visto un elemento che di solito si lascia in ombra. Lui dice in modo implicito quello che si potrebbe dire, a mio giudizio, in modo ancora più fecondo: proprio perché lingue non praticate, non viventi, inquadrate in una realtà che noi faticosamente conquistiamo, una realtà che dobbiamo recuperare per pezzetti e che in gran parte ci sfugge, tanto più sono per noi difficili. La difficoltà in cosa consiste? Nella necessità intuitiva. Tradurre da una lingua come il greco, come il latino, esige un salto intuitivo dalla successione delle parole al senso complessivo di ogni periodo ed è quello l’esercizio più importante, per lo meno pari a quello che si determina nello studio della matematica, assolutamente unico e insostituibile e sicuramente complicato anche per i docenti, i quali non è detto che siano allenati necessariamente a questa ginnastica straordinaria che si ripropone per l’interprete dinanzi a ogni pagina: ogni pagina nuova, in quelle lingue, richiede da chi le affronta questa elasticità; crearsi nella mente il senso generale che dà un senso a tutti i pezzi, che presi ciascuno per sé non significano nulla.

(…)

Ecco, questo è un procedimento mentale secondo me entusiasmante, di grandissima utilità, rispetto al quale il problema del «a che mi serve?» perde qualunque significato, perché se io l’ho fatto per alcuni anni della mia carriera scolastica e poi farò il medico, o l’ingegnere o farò l’artista di teatro, quell’esercizio mi sarà stato preziosissimo, quale che sia il mio abituale impiego di quella elasticità mentale che avrò conquistato. Ecco perché credo che la questione si ponga in termini non di banale, di empirica, utilitaria riscossione di vantaggi, ma in termini di addestramento mentale, che è forse la cosa più importante cui la scuola può sperare di giungere. Ecco perché ho detto che la dolcezza pedagogica rallenta, perché la dolcezza pedagogica ritarda lo sviluppo delle persone, in quanto lo sviluppo è uno sviluppo attraverso un tirocinio, una disciplina, un’autolimitazione, una capacità di proporsi degli obiettivi e raggiungerli, l’esatto contrario della dolcezza; la dolcezza è in fondo l’utopia, la pura utopia.

L’utopia è quella di Giambulo, in Diodoro Siculo, in cui si immaginano persone ferme sotto alberi da cui i frutti cadono spontaneamente e vengono colti senza fatica. È un sogno dell’umanità, l’età dell’oro, ma l’età dell’oro è soltanto un’idea utopistico-letteraria, non è un programma politico e neanche un obiettivo. Quindi la dolcezza è veramente il contrario di ciò che forma e fa maturare le persone.

(…)

Noi abbiamo alle spalle decenni di storia della scuola e di pratica scolastica e ci siamo, credo, tutti resi conto dell’impoverimento contenutistico, dell’aver realizzato un prodotto alla fine meno valido, più povero, che sa meno cose, che sa meno bene muoversi nel mondo, che non ha parametri mentali, fra i quali c’è l’autolimitazione, la capacità di autolimitarsi e, quindi, di avere un rapporto corretto con gli altri. Decenni di esperienza ci fanno vedere che il risultato è stato scadentissimo. Allora, tornare indietro è sempre una ginnastica mal vista, ma certamente battere strade completamente diverse da quelle che si sono rivelate perdenti è saggia politica.

(…)

Rispetto alle materie umanistiche, alla sua materia per esempio, nell’attuale organizzazione universitaria qual è il senso della laurea in tre anni (ed eventuali altri due)? In cosa differisce dalla precedente in quattro anni?

Il veleno di questi pseudoconcetti è penetrato negli ordinamenti universitari: mi riferisco, appunto, alla riforma infausta denominata tre + due, che sembra una formula pitagorica, ma ormai per intenderci la chiamiamo così. Anche qui il discorso da farsi è forse un po’ più lungo e accidentato. Poiché io mi considero una persona che ha sempre scelto politicamente sul versante della sinistra, e, ad esempio, penso che annullare l’esperienza storica del comunismo sia una follia eccetera, mi concedo il diritto di dire che la sinistra italiana, ma non solo italiana, ha colpe spaventose nella demolizione dell’istituzione scolastica e universitaria, e che ciò è accaduto per un male inteso concetto di democrazia.

E purtroppo è l’esperienza ormai semisecolare che abbiamo alle spalle che dimostra ciò. L’operazione è stata duplice, ancora una volta sono state le élites privilegiate a dare il colpo di grazia, perché le élites privilegiate erano quelle che nelle università dei tardi anni Sessanta avevano fruito al meglio di quello che quel sistema poteva dare e hanno cominciato a sdottrinare che lo si dovesse demolire in omaggio a una male intesa idea d’uguaglianza, che non era uguaglianza, era un regalo avvelenato. Non era uguaglianza, perché l’uguaglianza dell’ignoranza è una pugnalata alle spalle, non è un dono e neanche un diritto. Questo appare un po’ polemico detto in questa maniera, ma secondo me rende bene il concetto.

Su due piani si è svolta la cosa: parte dall’università, investe naturalmente la scuola (scuola media, licei eccetera) e innesca un circuito per cui dopo un po’ di generazioni l’università si riempie di soggetti completamente diversi da quelli che avevano messo in moto questa pseudorivoluzione culturale, di modo che questo circuito perverso si autoalimenta in maniera esponenziale. A questo punto sorge nel legislatore insensato (mi riferisco a Luigi Berlinguer) il desiderio di trasformare questa realtà, via via deteriore, in normativa e con un procedimento abbastanza scorretto (mi riferisco agli anni 1997, 1998, gli anni in cui rapidamente furono stabilite queste nuove normative), cioè sul falso presupposto che già in Europa le cose stessero in quei termini, il che non era affatto vero; fu creata di colpo (cosa mai successa prima, i processi sono sempre stati lenti, graduali, inevitabilmente, le persone non si evolvono a colpi di cannone) una dicotomia, una divisione in due del percorso universitario. Perdente in tutti e due i casi, perché quello triennale è meno che un post liceo, programmaticamente tale, con programmi in cui si misura persino il numero di pagine la cui conoscenza si può richiedere agli allievi; e quello biennale è troppo corto per essere veramente specialistico. Quindi, è una dissipazione complessiva di cinque anni, rispetto ad un ordinato e razionale percorso: parlo, per esempio, di facoltà di carattere umanistico di quattro anni in cui la gradualità era scaglionata su un arco di tempo sufficiente per giungere alla fine ad una frequentazione dello specialismo che è il momento più alto nella carriera di una persona che ha la buona occasione di frequentare l’università: il momento più alto da laureato in attesa di posto nella scuola, quei mesi passati a concludere la propria carriera universitaria rimanevano come un ricordo importante e metodicamente utile quale che fosse poi la scelta più o meno obbligata, scuola media inferiore, ginnasio, quello che sia. Aver fatto una vera tesi di laurea dopo un percorso che si è fatto via via sempre più acuminato e coerente era un’esperienza unica, un grande privilegio. Ora questo è scomparso, nel senso che sia la prima che la seconda fase sono degli arrangiamenti frettolosi: la prima quasi un parcheggio e la seconda una corsa disperata nell’illusione di colmare un ritardo che diventa a quel punto incolmabile.

Ma direi che il disastro (che si è misurato facilmente, adesso è quasi ovvio sentire parlare criticamente e solo criticamente di questa esperienza) non dico che sia in via di risanamento, sarei troppo ottimista, ma certamente è nell’occhio critico di quasi tutte le istituzioni universitarie. Le più forti, la medicina e la giurisprudenza, ne sono rimaste fuori e questo forse è sintomatico. Medicina per ovvie ragioni, nel senso che uno che fa la laurea triennale non ha neanche le caratteristiche del paramedico o infermiere: è un nulla e basta. Nel caso della giurisprudenza c’è stato, come sempre da quelle parti, un veicolo fortissimo di difesa e cioè gli ordini professionali e gli sbocchi: avvocato, procuratore, giudice comportano concorsi per i quali il percorso triennale non serve a nulla, non è neanche riconosciuto.

E quindi fatalmente tutte le facoltà di giurisprudenza hanno ripristinato, prima de facto poi de iure, l’ordinamento precedente. Sarà un caso? Certamente no, vuol dire che dove il problema aveva un risvolto pratico allarmante, lo si è fermato in tempo. Nel caso nostro, nelle facoltà di Lettere, credo che il risultato sarà che il cursus universitario diverrà di cinque anni. Così l’illusione puerile secondo cui il mercato del lavoro aspettava ansioso i triennalisti perché altrimenti ci sarebbe stato un gaspillage delle forze, delle risorse umane del Paese si è trasformato in un allungamento del percorso, e quindi in un ritardo. E questo direi che è stata una nemesi storica sulla demagogia di sinistra, di cui la sinistra è stata la vittima; si paga tutto nella politica, la politica è verità, quindi si paga tutto, gli sbagli in primis.

Etichette:

21.4.07

Università, ma la meritocrazia serve?

di Alberto Burgio e Armando Petrini

Liberazione, 19/04/2007

Qualche giorno fa il Messaggero ha fornito alcuni dati di fonte ministeriale riguardanti il personale universitario dai quali viene fuori un quadro molto simile a quello dell’Università francese: la polveriera che lo scorso anno si incendiò nella lotta contro il contratto di primo impiego. Vediamoli rapidamente: l’Università italiana conta su poco più di 60 mila unità a tempo indeterminato (fra docenti e ricercatori), e su quasi 88 mila precari (sempre fra docenza e ricerca). Di questi 88 mila, quasi 50 mila sono docenti “a contratto”, e cioè docenti pagati pochissimo (qualche migliaio di euro all’anno, quando va bene) senza alcuna garanzia per il futuro perché assunti con contratti rinnovati o disdetti di anno in anno. Numeri che la dicono lunga circa la supposta “rigidità” del sistema universitario italiano.
E’ ben vero che all’interno della categoria dei docenti a contratto si possono annoverare almeno due figure molto diverse. Quella del libero professionista, che ha già un suo stipendio, a volte anche cospicuo, e che ha tutto l’interesse a ottenere un insegnamento “a contratto” per pochi soldi pur di potersi fregiare nel proprio ambito professionale del titolo aggiuntivo di “Professore Universitario”. Ma c’è poi soprattutto la selva dei veri e propri precari, e cioè di chi invece preme legittimamente per entrare di ruolo all’Università ed è costretto, in attesa che venga bandito un concorso abbordabile, a insegnare con un compenso da fame (quando non nullo), spesso senza poter godere di altri guadagni aggiuntivi.
In ogni caso, il dato numerico di 50 mila docenti a contratto (che sale a 88 mila se teniamo conto di varie altre figure, dagli assegnisti ai collaboratori, che consentono il normale funzionamento degli Atenei) non lascia dubbi circa il livello di precarizzazione del sistema universitario italiano. Il che peraltro conferma i dati allarmanti resi noti pochi giorni fa dall’Istat sulla generale precarizzazione del lavoro in Italia: gli occupati nel 2006 salgono dell’1,9% ma il 46% delle assunzioni è a tempo determinato. Stando così le cose, appare inevitabile osservare che l’azione del Governo sul versante delle politiche universitarie è stata finora alquanto carente.
E’ vero che la Finanziaria ha previsto un bando straordinario di posti di ricercatore, proprio allo scopo di regolarizzare una parte degli attuali precari. Ma si tratta di numeri decisamente al di sotto delle aspettative: circa duemila bandi a fronte dei 20 mila chiesti dalla Flc-Cgil. E comunque la questione è più complessa. Non sarebbe una soluzione adeguata nemmeno l’immissione in ruolo di 20 mila nuovi ricercatori. Al di là del fatto che si correrebbe il rischio di avviare una sorta di ope legis (a meno di introdurre procedure concorsuali molto serie e rigorose), il vero problema è che in realtà la precarizzazione della docenza e della ricerca universitaria non sono altro che lo specchio di un processo di “precarizzazione” del concetto e della funzione stessi dell’Università pubblica. Questo è l’aspetto su cui occorre appuntare l’attenzione.
Nel corso degli anni Novanta una politica universitaria dissennata (ma lucidamente indirizzata verso obiettivi ben precisi) ha progressivamente sfibrato l’Università, sottraendole il ruolo “forte” di veicolo di un sapere critico e complesso elaborato nella sintesi di didattica e ricerca.
L’abnorme proliferazione dei docenti a contratto non è che uno dei precipitati più evidenti di questo processo. La docenza a contratto è infatti il sedimento, e allo stesso tempo l’alimento, di un sistema prossimo al collasso. Un sistema che dà sempre meno spazio (e soldi) alla ricerca; che si mostra spesso incapace di una programmazione didattica e scientifica meditata e discussa sulla base di un progetto culturale; che tende infine a muoversi sempre più spesso al traino delle tendenze dell’industria culturale del momento o delle esigenze più o meno pressanti dell’impresa e del mercato del lavoro. Un sistema che perde sempre più autorevolezza, culturale e scientifica, non solo agli occhi di chi lavora all’interno degli Atenei ma anche agli occhi degli studenti. La precarizzazione della docenza universitaria è insomma una questione molto complessa, e sintomo di un generale stato di crisi. Per fortuna, a dispetto di questo panorama desolato, sembra di cogliere qualche timido segnale di una inversione di tendenza. A una Università “leggera”, destrutturata e privata di un centro solido, si torna finalmente da parte di alcuni a contrapporre un’Università “forte”, dalla proposta formativa e culturale organica e consapevole. E si parla molto in queste settimane della volontà del legislatore di premiare il “merito” all’interno delle Università.
Su questo punto bisogna essere molto chiari. Se attraverso la parola d’ordine del “merito” si vuole far valere le ragioni del mercato, o affermare un sistema di giudizio ancor più saldamente controllato dalle cordate accademiche; oppure ancora se il richiamo al merito dovesse celare la volontà di precarizzare ulteriormente la docenza universitaria e di limitare la libertà di insegnamento: ebbene, se la formula del “merito” dovesse coprire simili intenti, allora naturalmente la proposta andrebbe respinta con fermezza. Se, invece, si hanno a cuore la serietà e il rigore culturale e scientifico, allora il discorso sarebbe del tutto condivisibile.
Siamo infatti convinti che la valutazione dei docenti e dei ricercatori, per non fare che un esempio, debba essere condotta secondo criteri rigorosi. E cioè con una cadenza accettabile (la Proposta di Legge sulla docenza del Prc prescrive giustamente una cadenza quadriennale) ma prevedendo sanzioni e conseguenze di un qualche rilievo in caso di un reiterato esito negativo. La messa a punto di quest’ultimo nodo, certamente delicato, deve essere discussa a fondo, per evitare che le sanzioni possano trasformarsi in una sorta di minaccia alla libertà di ricerca e di insegnamento. Ma quel che va ribadito è che o l’Università torna a essere culturalmente e scientificamente rigorosa oppure è destinata ad avvitarsi in una crisi irreversibile. Tornare a un’Università forte, che rispetti cioè fino in fondo sia il lavoro di chi produce e trasmette conoscenza, sia il bisogno formativo degli studenti è, per questo, un’esigenza inderogabile.

Etichette:

3.3.07

Università, l'allarme di Mussi: "E' una mattanza"

A Bologna presentata la ricerca di AlmaLaurea sui studio e occupazione
Università, pochi laureati e poco lavoro
Il ministro: "Le imprese cercano analfabeti". Prodi: "Scissione tra domanda e offerta"
Damiano: "Non vogliamo abrogare la legge Biagi ma solo modificarla"



BOLOGNA - "E' la mattanza dei laureati". A Bologna per una tavola rotonda su università e mondo del lavoro il ministro Fabio Mussi non usa mezzi termini per commentare i numeri di una ricerca di Almalaurea sui livelli occupazionali dei laureati in Italia e in Europa. "Il paese si deve dare una mossa serve una scossa o altrimenti l'Italia non si riprenderà mai stabilmente". Parole che confermano cifre davvero allarmanti. "Abbiamo 12,5 laureati su 100, nella fascia tra i 24 e i 35 anni: la metà della media europea".

Stesso deficit anche per quanto riguarda gli universitari "che sono 1,8 milioni di studenti rappresentano meno della media europea", mentre crescono i "fuori corso" con "21,5 studenti persi tra il primo e il secondo anno di università". Le colpe di un sistema che arranca? Secondo Mussi vanno cercate nella bassa composizione intellettuale del mercato del lavoro: "Le imprese cercano analfabeti". Del resto le statistiche confermano "la bassa propensione ad investire in ricerca e sviluppo". "Fa spavento il 2,3% di investimenti italiani sul valore aggiunto, cioè sulla ricchezza nuova prodotta - spiega Mussi - Mentre la media europea è del 5,5, la Germania è al 7,5, gli Stati Uniti all'8,7 e il Giappone al 9,6".

Prodi: "Scissione tra domanda e offerta". "L'analisi di Mussi trova sponda nelle parole di Romano Prodi, anche lui presente al convegno bolognese. "Vedo un problema enorme di mancanza di incontro tra domanda e offerta, flessibilità e adattamento - dice il premier -. Non è consolante vedere la scissione tra il tipo di preparazione e il mercato del lavoro che è un fenomeno generale in Europa e non solo in Italia". Prodi torna poi ad insistere sull'importanza dello sviluppo delle scuole tecniche per un paese manifatturiero come l'Italia: "Serve una legge e una rete nazionale".

Damiano: "Modificheremo la Biagi". "Le forme di lavoro estremamente precarie prodotte dalla legge 30 a mio avviso possono essere cancellate, come del resto abbiamo scritto nel programma dell'Unione. Penso ad esempio al lavoro a chiamata". Il ministro del Lavoro Cesare Damiano conferma così quello che è uno dei punti su cui il governo si è impegnato ad agire. Il punto di partenza è circoscrivere la precarità: "C'è da correggere il tempo determinato, non possiamo consentire una ripetizione all'infinito dell'utilizzo di lavoro a termine e poi c'è il problema del part-time".

(Repubblica.it, 3 marzo 2007)

Etichette:

Mussi e il tunnel della ricerca

Il ministro Confronto con i rettori al convegno degli ambientalisti socialisti

Guglielmo Ragozzino

Torino
Il convegno degli ambientalisti-socialisti si svolge a Torino nella sala Kyoto dell'Environment Park (Parco tecnologico per l'ambiente). La sala è dedicata al grande ecologo Nicholas Georgesku Roegen. L'area è dell'antica Fiat. Qualcuno ricorda l'esondazione della Dora che scorreva sotto le Ferriere (l'acqua serviva per il raffreddamento industriale). La città rischiò grosso. Fu nel 2000 e la struttura abbandonata delle Ferriere resistette ma si decise di demolire tutto. Così nacque il parco tecnologico, dovuto agli sforzi comuni di comune e regione e ai finanziamenti europei. I centri di ricerca sono di apparenza modesta e funzionano. Due ragazzi in camice bianco offrono un motorino come tanti altri; però è a idrogeno. Il primo prototipo, assicurano: si tratta di un motorino spagnolo, Monty e 80, costruito interamente in Cina, cui hanno sostituito l'apparato motore con due bombole di idrogeno, un sistema di celle, una batteria. Il vano previsto per il casco è tutto riempito da grosse schede elettroniche che rendono agibile il sistema. L'ingegnerizzazione è ancora carente, dicono. Velocità massima 25 km orari, autonomia di 5 ore.
L'atteso clou del convegno è l'intervento di Fabio Mussi, ministro dell'Università e della Ricerca. Mussi è però strappato ai compagni ecologisti e socialisti da un'altra esondazione: quella dei magnifici rettori che vogliono confrontarsi con lui. Così avviene il fatale incontro. Mussi esordisce: «In Italia ci sono 365 sedi universitarie contro 105 province. Non abbiamo esagerato?». E racconta del capo gabinetto che, tutte le sere, arriva con centinaia di fascicoli da firmare. Spesso si tratta solo di spostare un bidello ... Ma la firma è indispensabile. Poi parla delle cifre per la ricerca: non sono così terribili, spiega, sono solo ottuse: non tengono conto soprattutto della qualità, notevole, dei ricercatori italiani. Poi inserisce due temi interessanti: dottori di ricerca e valutazioni. Quello dei dottori di ricerca - afferma - è un titolo importante nel mondo, nelle società e nelle amministrazioni pubbliche. «Anche qui da noi bisogna aprire le uscite per i dottori di ricerca» ma non è un titolo da spendere dentro l'Università, come si è fatto qui sempre. Una legge in proposito esiste, ma manca, come al solito, il decreto attuativo. Sarà mia cura, conclude il ministro, affrontarlo subito e cambiare le cose. Poi vi è la delicata questione dell'Anvur, il comitato preposto alle valutazioni. Quando sono arrivato - aggiunge il ministro - l'Anvur, nominato da Moratti, ha presentato le dimissioni; ma si trattava di buoni elementi e così ho detto al prof. Provasoli, il presidente, di continuare «per me che sono uomo di partito, essere di un partito non è un titolo scientifico, mai».
Per primo parla in replica Francesco Profumo del Politecnico, informa il ministro che il Poli ormai fa da sé, in rete con Losanna, Ginevra, Grenoble, Barcellona. Gli studenti sono 26mila; la ricerca è sostenuta dallo stato solo per il 42%, mentre «il resto lo troviamo noi». Poi parla Ezio Pelizzetti dell'Università di Torino. Informa che i suoi studenti sono 74mila, quasi quanti operai aveva la Fiat un tempo a Torino. Chiede la defiscalizzazione dell'Irap «almeno quella» ripete. Terzo, tra cotanto senno, Paolo Garbarino, rettore dell'Università del Piemonte orientale. «Possiamo - chiede - forzare un po' i limiti regionali e fare corpo con gli atenei lombardi e liguri?». Mussi replica ma il consenso è diffuso. Per buon peso il ministro racconta del Cipe, dove è entrato un po' di straforo. Lì i soldi ci sono, solo che «loro» credono che le infrastrutture siano solo ponti e strade ferrate; invece ho lanciato l'idea che anche i luoghi di eccellenza scientifica, i laboratori di alta fisica e di genetica, le grandi biblioteche sono infrastrutture decisive, non meno dei tunnel. Staremo a vedere».

(il manifesto, 2 Marzo 2007)

Etichette:

2.3.07

Radiografia dell'Università nei suoi punti critici

Dalle lotte studentesche al rapporto tra atenei e mercato del lavoro: per le edizioni Alegre, «Studiare con lentezza», un volume scritto a più mani

Anna Carola Freschi

Dedicato a una lettura delle proteste studentesche che si sono svolte durante l'anno 2005, e articolato in almeno quattro passaggi cruciali, il libro titolato Studiare con lentezza (scritto da Aringoli, Calella, Corradi, Giardullo, Gori, Montefusco, Montella) per le edizioni Alegre, porta nutrimento al dibattito sulle trasformazioni del rapporto fra precarietà e sapere nel capitalismo odierno. Il primo dei passaggi affrontati può essere sintetizzato in chiave simbolico-linguistica: una ricostruzione della vicenda dei movimenti studenteschi che privilegi gli elementi di continuità, evidenzia, infatti, come alle esigenze di un capitalismo in trasformazione abbia corrisposto, nel corso degli anni '90, l'autentico stravolgimento di alcune parole d'ordine: autonomia, anti-statalismo, flessibilità, a esemplificare quel rovesciamento di significato tipico della retorica neoliberista, che si è attuato a cominciare dall'uso della stessa parola libertà. Sono infatti la subordinazione della ricerca al mercato, la frantumazione dei saperi, la precarizzazione della vita e del lavoro di studenti e ricercatori, i frutti più avvelenati della traduzione aziendalistica di quegli imperativi applicati a una università impastata di residui feudali, nel governo delle carriere, dell'offerta didattica, dello sviluppo della ricerca.
In questo scenario simbolico e pratico prende forma la figura dello studente come precario in formazione, preparato a inserirsi nel mercato flessibile non in base alle competenze acquisite, bensì in virtù del training cognitivo e comportamentale azionato dal potente dispositivo della didattica «veloce». Si impara il ritmo, l'essere misurati e misurare, l'acquisire ciò che è appena sufficiente: la riduzione del sapere in quantità discrete agisce su studenti, docenti, ricercatori, limitando i loro percorsi, livellando i tempi, ponendo l'accento sul momento della verifica piuttosto che sul processo di apprendimento. Funzioni cruciali nel nuovo capitalismo, l'apprendere e l'insegnare sono posti, attraverso il meccanismo dei crediti, sotto l'ombrello disciplinare della calcolabilità e della standardizzazione, pronti ad essere automatizzati. Così, forma e contenuto, processo e prodotto arrivano a coincedere. Gli autori, inoltre, mostrano come la frantumazione del processo di apprendimento conduca anche alla frammentazione del soggetto studentesco: «non c'è un generico intellettuale massa. Non c'è un'indistinta moltitudine. La precarietà si traduce in una pluralità di soggetti sociali sfruttati». In più, guardando alla diffusione e alla dispersione sociale dei precari, è evidente che questi fenomeni non possono essere letti come capaci «di produrre spontaneamente conflitto e trasformazione sociale». Non ci sono avanguardie su questo fronte dei precari, non ci sono maestri, ma solo una capacità di «riflessione concreta» da coltivare collettivamente: vanno ricostruiti, perciò, tempi e spazi adeguati a un apprendimento critico, a un rapporto nuovo fra il dentro e il fuori dalle università, che oggi non trova nessuna soluzione di continuità semplicemente perché il mercato è dappertutto e il resto sistematicamente cancellato, sebbene continuamente riemerga, in una pluralità di reazioni impreviste. Nonostante questa incombente presenza del mercato, infatti, la razionalità aziendale assume, nell'università, i connotati di una burocratizzazione senza precedenti, e paradossalmente anche priva di certezze.
Non solo, ma il successo della domanda di lauree specialistiche sembra essere risuonato alle orecchie dei soliti riformatori come un allarme, piuttosto che come un segnale positivo, a fronte del problema relativo allo sfoltimento dell'offerta di lavoro qualificato. In questo quadro, i richiami alla meritocrazia diventano via via sempre più sinistri, e d'altronde - sottolineano gli autori - le riforme non hanno affatto messo in discussione il finanziamento pubblico dell'Università. Ne hanno favorito, piuttosto, «l'uso privato» immediatamente funzionale a un orizzonte in cui è sempre più ridotta tanto l'autonomia dei saperi quanto l'obiettivo di estendere a tutti le opportunità di emancipazione sociale.

(il manifesto, 1 Marzo 2007)

Etichette:

Laureati, colti e disperati: è l'esercito dei senza lavoro

di FEDERICO PACE

Solo la metà trova impiego a un anno dalla laurea. E' il peggior risultato dal 1999 a oggi
Nel 2006 hanno guadagnato, in termini reali, meno di 5 anni fa. L'indagine di AlmaLaurea



Iperqualificati, con qualche sogno in testa e sempre meno pagati. Destinati a emigrare, pur di evitare la disfatta. I laureati mostrano sul loro volto i segni delle sempre più acute contraddizioni di un intero paese dove il merito e le qualifiche non vanno quasi mai di pari passo con le opportunità e i compensi. Sul loro volto sono sempre più evidenti i segni del disagio provato di fronte a quella porta, quasi sempre socchiusa, che dovrebbe portarli al lavoro e alla maturità.

Quando una ragazza o un ragazzo con in tasca la laurea cerca un posto, pare di vedere un gigante che prova ad entrare attraverso la piccola porticina di una minuscola casa di lillipuziani. Loro sono tanti mentre sembrano sempre più inadeguati i posti di lavoro che il sistema economico e il mondo delle aziende italiane mette a disposizione. Addetti per i call center o cassieri di negozio che siano. Con il paradosso, che a questo punto pare quasi logico, che sono proprio i più preparati, quelli che prendono i voti più alti di tutti a ritrovarsi con il più basso tasso di occupazione. Tanto che a un anno dalla laurea, trovano lavoro solo quattro su dieci di quelli che hanno preso 110 e lode. Con la triste constatazione che nel 2006 un laureato guadagna al mese, in termini reali, meno di quanto percepiva cinque anni fa il fratello maggiore.

Fenomeni conosciuti si dirà, ma il fatto è che quest'anno le cose sono andate ancora peggio. Tanto che per trovare un impiego non è neppure sufficiente aspettare un anno. I dati del triste record dicono che dopo la fatidica laurea, a un anno dal giorno della discussione della tesi, dai festeggiamenti e dai sorrisi e dalle congratulazioni, trova lavoro solo il 45 per cento dei laureati "triennali" (erano il 52 per cento l'anno scorso) e il 52,4 per cento dei laureati pre-riforma, ovvero il dato più basso dal 1999 (vedi tabella). I dati sono quelli della nona indagine sulla "Condizione Occupazionale dei laureati italiani" presentata (vedi la diretta) a Bologna da AlmaLaurea, il consorzio interuniversitario a cui aderiscono 49 università italiane. Ed è forse utile sapere che il convegno prevede per la mattina di sabato (3 marzo) anche una tavola rotonda (la presentazione e la tavola rotonda possono essere seguite in diretta sul sito di Almalaurea) che dibatterà su questi temi e a cui parteciperanno anche Fabio Mussi, il ministro dell'Università, e Cesare Damiano, il ministro del Lavoro, insieme ad Andrea Cammelli, il direttore di Almalaurea, e il presidente Crui Guido Trombetti.

Secondo l'indagine, l'instabilità che caratterizzava già molti degli impieghi degli anni scorsi si è fatta ancora più acuta. Sia per i laureati "triennali" che per quegli ultimi che stanno uscendo dal percorso previsto dal vecchio ordinamento. Solo un giovane su tre che ha conseguito una laurea breve - e ha trovato un impiego - è riuscito a siglare un contratto a tempo indeterminato. L'anno scorso l'impresa era riuscita al 40 per cento di loro. Stessa storia per i giovani che hanno ultimato il percorso di laurea del "vecchio ordinamento", la quota di chi è riuscito ad avere un contratto stabile è scesa al 38,4 per cento. Il lavoro atipico dal 2001 a oggi è cresciuto di ben dieci punti percentuali.

C'è poi lo stipendio. Quel sostegno che dovrebbe permettere alle nuove generazioni di prendere iniziative e decisioni, di mettere su famiglia, di provare a superare la sindrome di Peter Pan. Quel sostegno, è sempre più esile. I giovani laureati del post-riforma si ritrovano in tasca a fine mese solo 969 euro. Meno di quanto non fosse l'anno scorso (vedi tabella). Prendono qualcosa in più i laureati pre-riforma che a fine mese arrivano fino a 1.042 euro. Poco più dell'anno scorso ma, al netto del costo della vita, ancora meno di quanto un neolaureato guadagnava cinque anni fa.

Senza dire che l'Italia vanta il minor numero di laureati che lavora a cinque anni dalla laurea (l'86,4 per cento contro una media europea pari all'89 per cento). Scorrendo i dati dell'indagine di AlmaLaurea si ricava la triste conferma che nel cuore delle nuove generazioni, anche lì dove è opportuno che l'Italia sia più moderna e vicina all'Europa, covano e crescono le stesse antiche contraddizioni e disparità che gravano da tempo infinito sul corpo del malato Italia.

Le donne sono meno favorite rispetto agli uomini, hanno un tasso di occupazione più basso, sono più precarie e guadagnano meno dei loro colleghi uomini (vedi tabella). A un anno dalla laurea lavora il 49,2 per cento delle laureate pre-riforma contro il 57,1 per cento degli uomini. E il gap salariale nel tempo non fa che crescere, tanto che a cinque anni dalla laurea le donne guadagnano un terzo meno di quanto non prendono gli uomini. Quanto alla precarietà a un anno dalla laurea il 52 per cento delle donne ha un contratto atipico contro il 41,5 per cento degli uomini. E la disparità è ancora più acuta per le laureate "triennali", visto che solo il 34 per cento delle donne ha un impiego stabile contro il 48 per cento dei loro colleghi uomini.

Stesso discorso per le disparità territoriali. Nel 2006 sei laureati del Nord su dieci trova lavoro dopo un anno mentre per le regioni del Sud le cifre si fermano al 40 per cento. Ovvero le stesse quote nel lontano 1999. Senza dire che a cinque anni dalla laurea, i giovani del Mezzogiorno prendono 1.167 euro al mese mentre i ragazzi del Nord arrivano a 1.355 euro al mese.

Non c'è da stupirsi se allora molti di loro non si sentono valorizzati per quello che valgono e, seppure a malincuore, decidono di muoversi oltre confine per trovare migliori occasioni. All'estero, lì dove sembrano trovare rifugio e compenso. I laureati italiani che lavorano fuori dai confini nazionali, a cinque anni dalla laurea, arrivano a guadagnare quasi 2 mila euro, ovvero il 50 per cento in più di quanto non accada alla media complessiva dei laureati. Se non si mette mano a questo problema, se non si trova un articolato piano per valorizzare i talenti che escono dalle nostre facoltà, poco si potrà fare per dare slancio al nostro paese.

(Repubblica.it, 2 marzo 2007)

Etichette: