L'attacco all'università
di Alberto Burgio
(tratto da il manifesto del 22/07/2008)
La destra attacca a testa bassa. La sceneggiatura inventata qualche mese da Walter Veltroni per aprire la crisi di governo non lo prevedeva. Fantasticava di una destra ormai civilizzata. Come stessero in realtà le cose è oggi sotto gli occhi di tutti: razzismo di Stato; leggi ad personam come a bei vecchi tempi; attacco contro quanto resta dell’unità sociale e istituzionale del Paese; guerra senza quartiere contro il lavoro pubblico e privato, e una politica economica fatta di frodi sull’inflazione reale e di tagli alla spesa e alle retribuzioni. Come sempre. Solo che adesso si infierisce su un popolo di poveri già super-indebitati.
Difficile dire che succederà alla ripresa autunnale. C’è da augurarsi che, incalzata dalla sinistra sindacale, la Cgil dia finalmente segnali di resipiscenza, ma dovrà vedersela con le altre confederazioni, tentate da una replica in pejus del famigerato Patto per l’Italia. Per parte sua, il Partito democratico si interroga se perseverare nella ricerca del dialogo o impegnarsi nell’opposizione, naturalmente «costruttiva». Intanto vengono giù interi pezzi della Costituzione materiale e formale della Repubblica, trascinando con sé le sorti della nostra democrazia.
Un’ennesima picconata la dà in questi giorni il decreto legge 112, la «lenzuolata» scritta da Tremonti in combutta con Sacconi e Brunetta sulla quale il governo ha posto la fiducia temendo di non ottenerne, altrimenti, la conversione in legge entro il 25 agosto. Tra privatizzazioni, tagli alla spesa e agli organici pubblici, nuove misure precarizzanti e ricatti contro i «fannulloni» del pubblico impiego, il provvedimento contiene misure devastanti in materia di scuola e di università. Il manifesto ha già messo in evidenza i pericoli che incombono sul sistema scolastico, già stremato da una politica di lesina che da anni colloca l’Italia agli ultimi posti in Europa quanto a spesa per l’istruzione pubblica. Sarà ulteriormente ridotto l’organico docente e ausiliario e si ridurrà il tempo pieno. Al contempo si riprenderà il progetto morattiano del doppio binario (scelta tra istruzione e formazione professionale già a 14 anni) teso a reintrodurre la logica classista dell’«avviamento» cancellata nei primi anni Sessanta con l’istituzione della scuola media unica. Dopotutto, non aveva detto chiaramente Berlusconi che non sta né in cielo né in terra che il figlio dell’operaio possa avere le stesse ambizioni di quello dell’imprenditore o del professionista?
L’università non è messa meglio. Le Disposizioni per lo sviluppo economico (questo il titolo del dl nella beffarda neolingua governativa) prevedono tagli alle già misere retribuzioni del personale docente e amministrativo; tagli agli stanziamenti (in aggiunta ai 500 milioni già decurtati nello scorso triennio); limiti al turn over (nella misura massima del 20% dei pensionamenti per il trienno 2009-2011); massicci trasferimenti a favore di pretesi «centri di eccellenza» (a cominciare dall’Istituto Italiano di Tecnologia, guarda caso presieduto dal Direttore generale del Ministero dell’Economia) e, dulcis in fundo, la possibilità che le università pubbliche si trasformino in fondazioni, spianando anche di diritto la strada a un processo di privatizzazione dell’università italiana che da anni – grazie alle sciagurate riforme uliviste – marcia già speditamente di fatto.
Si presti molta attenzione. Quest’attacco brutale non colpisce soltanto chi lavora nell’università né solo chi vi trascorre alcuni anni della propria vita, peraltro pagando tasse sempre più salate in cambio di un sapere sempre più parcellizzato e disorganico. Il progetto del governo ha un respiro ben più complessivo, una portata in senso proprio costituente. Ridurre al minimo il reclutamento di nuovi ricercatori significa precarietà a vita per quasi tutti coloro che ancora attendono di entrare in ruolo ed esasperazione delle logiche oligarchiche e baronali. Privatizzare il patrimonio degli atenei significa consolidare le propensioni e le pratiche neofeudali di ristretti gruppi di potere, sempre più insofferenti al controllo democratico. E significa accrescere il potere di condizionamento del capitale privato (impresa e credito) sui percorsi di ricerca e sulla stessa didattica. Destinare risorse crescenti ai sedicenti centri di eccellenza significa promuovere un sistema di università di serie A (per chi potrà permettersele) e di serie B (per tutti gli altri), secondo il pessimo modello castale degli Stati Uniti.
Per l’ennesima volta la nostra «classe dirigente» conferma la propria levatura strapaesana, non esitando a sacrificare le prospettive di sviluppo del Paese all’interesse di chi gode di posizioni privilegiate. Ma in questo caso l’attacco colpisce un fondamento della cittadinanza democratica. La scuola, l’istruzione, la cultura e la critica sono strumenti essenziali di partecipazione e di mobilità sociale. Per questo la Costituzione ne preserva libertà e pubblicità. E per questo la destra al governo intende cancellarne il carattere di massa. Viene insomma al pettine uno dei nodi della primavera vissuta anche in Italia tra gli anni Sessanta e Settanta. C’è chi, per fortuna, se n’è accorto in tempo. Nelle università si moltiplicano in questi giorni agitazioni, appelli alla mobilitazione e assemblee di studenti, docenti e precari. Ma non è ancora abbastanza. Occorre saldare al più presto un fronte ampio che coinvolga massicciamente il corpo docente e tutti i dipendenti del sistema universitario pubblico. Questa controriforma non deve passare: dov’è scritto che agosto non possa essere tempo di lotta?
(tratto da il manifesto del 22/07/2008)
La destra attacca a testa bassa. La sceneggiatura inventata qualche mese da Walter Veltroni per aprire la crisi di governo non lo prevedeva. Fantasticava di una destra ormai civilizzata. Come stessero in realtà le cose è oggi sotto gli occhi di tutti: razzismo di Stato; leggi ad personam come a bei vecchi tempi; attacco contro quanto resta dell’unità sociale e istituzionale del Paese; guerra senza quartiere contro il lavoro pubblico e privato, e una politica economica fatta di frodi sull’inflazione reale e di tagli alla spesa e alle retribuzioni. Come sempre. Solo che adesso si infierisce su un popolo di poveri già super-indebitati.
Difficile dire che succederà alla ripresa autunnale. C’è da augurarsi che, incalzata dalla sinistra sindacale, la Cgil dia finalmente segnali di resipiscenza, ma dovrà vedersela con le altre confederazioni, tentate da una replica in pejus del famigerato Patto per l’Italia. Per parte sua, il Partito democratico si interroga se perseverare nella ricerca del dialogo o impegnarsi nell’opposizione, naturalmente «costruttiva». Intanto vengono giù interi pezzi della Costituzione materiale e formale della Repubblica, trascinando con sé le sorti della nostra democrazia.
Un’ennesima picconata la dà in questi giorni il decreto legge 112, la «lenzuolata» scritta da Tremonti in combutta con Sacconi e Brunetta sulla quale il governo ha posto la fiducia temendo di non ottenerne, altrimenti, la conversione in legge entro il 25 agosto. Tra privatizzazioni, tagli alla spesa e agli organici pubblici, nuove misure precarizzanti e ricatti contro i «fannulloni» del pubblico impiego, il provvedimento contiene misure devastanti in materia di scuola e di università. Il manifesto ha già messo in evidenza i pericoli che incombono sul sistema scolastico, già stremato da una politica di lesina che da anni colloca l’Italia agli ultimi posti in Europa quanto a spesa per l’istruzione pubblica. Sarà ulteriormente ridotto l’organico docente e ausiliario e si ridurrà il tempo pieno. Al contempo si riprenderà il progetto morattiano del doppio binario (scelta tra istruzione e formazione professionale già a 14 anni) teso a reintrodurre la logica classista dell’«avviamento» cancellata nei primi anni Sessanta con l’istituzione della scuola media unica. Dopotutto, non aveva detto chiaramente Berlusconi che non sta né in cielo né in terra che il figlio dell’operaio possa avere le stesse ambizioni di quello dell’imprenditore o del professionista?
L’università non è messa meglio. Le Disposizioni per lo sviluppo economico (questo il titolo del dl nella beffarda neolingua governativa) prevedono tagli alle già misere retribuzioni del personale docente e amministrativo; tagli agli stanziamenti (in aggiunta ai 500 milioni già decurtati nello scorso triennio); limiti al turn over (nella misura massima del 20% dei pensionamenti per il trienno 2009-2011); massicci trasferimenti a favore di pretesi «centri di eccellenza» (a cominciare dall’Istituto Italiano di Tecnologia, guarda caso presieduto dal Direttore generale del Ministero dell’Economia) e, dulcis in fundo, la possibilità che le università pubbliche si trasformino in fondazioni, spianando anche di diritto la strada a un processo di privatizzazione dell’università italiana che da anni – grazie alle sciagurate riforme uliviste – marcia già speditamente di fatto.
Si presti molta attenzione. Quest’attacco brutale non colpisce soltanto chi lavora nell’università né solo chi vi trascorre alcuni anni della propria vita, peraltro pagando tasse sempre più salate in cambio di un sapere sempre più parcellizzato e disorganico. Il progetto del governo ha un respiro ben più complessivo, una portata in senso proprio costituente. Ridurre al minimo il reclutamento di nuovi ricercatori significa precarietà a vita per quasi tutti coloro che ancora attendono di entrare in ruolo ed esasperazione delle logiche oligarchiche e baronali. Privatizzare il patrimonio degli atenei significa consolidare le propensioni e le pratiche neofeudali di ristretti gruppi di potere, sempre più insofferenti al controllo democratico. E significa accrescere il potere di condizionamento del capitale privato (impresa e credito) sui percorsi di ricerca e sulla stessa didattica. Destinare risorse crescenti ai sedicenti centri di eccellenza significa promuovere un sistema di università di serie A (per chi potrà permettersele) e di serie B (per tutti gli altri), secondo il pessimo modello castale degli Stati Uniti.
Per l’ennesima volta la nostra «classe dirigente» conferma la propria levatura strapaesana, non esitando a sacrificare le prospettive di sviluppo del Paese all’interesse di chi gode di posizioni privilegiate. Ma in questo caso l’attacco colpisce un fondamento della cittadinanza democratica. La scuola, l’istruzione, la cultura e la critica sono strumenti essenziali di partecipazione e di mobilità sociale. Per questo la Costituzione ne preserva libertà e pubblicità. E per questo la destra al governo intende cancellarne il carattere di massa. Viene insomma al pettine uno dei nodi della primavera vissuta anche in Italia tra gli anni Sessanta e Settanta. C’è chi, per fortuna, se n’è accorto in tempo. Nelle università si moltiplicano in questi giorni agitazioni, appelli alla mobilitazione e assemblee di studenti, docenti e precari. Ma non è ancora abbastanza. Occorre saldare al più presto un fronte ampio che coinvolga massicciamente il corpo docente e tutti i dipendenti del sistema universitario pubblico. Questa controriforma non deve passare: dov’è scritto che agosto non possa essere tempo di lotta?
Etichette: politica universitaria
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