Al mercato. Nuove ribellioni fra le rovine dell'università
Gigi Roggero
La ventilata trasformazione delle università in fondazioni di diritto privato non implica tanto la loro competizione su un mercato inesistente, quanto l'introduzione di criteri arbitrari per attingere ai pochi fondi pubblici rimasti
(tratto da il manifesto, 16 Luglio 2008)
L'applicazione della riforma universitaria Berlinguer-Zecchino è fallita. Questo è il dato da cui partire. Chi lamenta l'apatia degli studenti, sarebbe ora si ricredesse: non soltanto per i movimenti che si sono opposti alla riforma, ma per i comportamenti diffusi e le pratiche soggettive che hanno a lungo termine messo in crisi i dispositivi di disciplinamento e di misurazione del sapere. Comportamenti e pratiche innervati non dalla nostalgia per le belle lettere - come sarebbe piaciuto ai conservatori di una torre d'avorio in pezzi - ma dalla materialità dei processi di déclassement e di precarizzazione del lavoro cognitivo.
Nel novembre del 2005, dopo le occupazioni contro la legge Moratti, Marco Bascetta aveva sostenuto la necessità di passare dalla «guerra» alla «guerriglia» contro la riforma. Ebbene, la «guerriglia» ha - almeno in parte - vinto.Tra il 2005 e oggi Fabio Mussi, ministro senza qualità, è stato al Miur un dimenticabile intermezzo tra Letizia Moratti e Mariastella Gelmini, scelta giudicata debole e di basso profilo, perfettamente in linea con lo smantellamento bipartisan del sistema formativo.
Scartata l'ipotesi di una nuova riforma organica dell'università, la neoministra si limita a navigare in quella riforma pasticciata, permanente e inconclusa, priva di disegno strategico, che costituisce ormai da decenni la realtà dell'istruzione superiore in Italia. E nel naufragio del 3+2, propone di sfoltire i corsi di laurea e di monitorare dottorati e master, «area di parcheggio da cui pescare manodopera accademica a basso costo».
Passaggi al buio
Del resto, le sue tre «parole chiave» - autonomia, valutazione, merito - sono in piena sintonia con il think tank del «liberista di sinistra» Francesco Giavazzi, ma stridono con una università abbandonata alla sua inerziale rovina. Nella competizione globale per i talenti, dicono, i salari dei professori - regolati dal merito - vanno portati al livello europeo, non soltanto per bloccare la fuga dei cervelli, ma per attirarli. Come tutto questo possa coniugarsi con i tagli della manovra tremontiana, i progetti di ricerca sacrificati al prestito ponte per Alitalia e il blocco del turnover (traduciamo: i baroni restano al loro posto e i precari pure), è un vero mistero. Le defiscalizzazioni dovrebbero stimolare l'investimento dei privati (fondazioni bancarie, no profit, piccole e medie imprese), i quali - da sempre disinteressati a formazione e ricerca - potranno in questo modo godersi gli incentivi regalati dal governo.
Comunque, il vero nodo per Gelmini e Giavazzi è la differenziazione degli atenei, ovvero la costruzione di un mercato della formazione. Il progetto dell'Aquis, sponsorizzato dal «Corriere della sera » e guidato da un pugno di università autodefinitesi di eccellenza, sembrerebbe andare in questa direzione. Tuttavia, nell'indifferenza delle imprese, anche la possibile trasformazione delle università in fondazioni di diritto privato, ventilata nel Dpef, non implica tanto la loro competizione su un mercato inesistente, quanto piuttosto l'introduzione di criteri - arbitrari - in grado di gerarchizzare l'assegnazione dei pochi fondi statali, che restano l'unica fonte, ancorché in progressivo prosciugamento.
Anche dalla roccaforte liberal della voce.info fioccano dubbi e ironie sui provvedimenti di una manovra finanziaria approvata in ben otto minuti e mezzo. In un articolo inequivocabilmente intitolato Passaggio al buio, Bruno Dente - che già da tempo caldeggia una strategia di differenziazione competitiva delle università - osserva sconsolato la sconcertante vaghezza sui parametri che dovrebbero presiedere la scelta del regime privatistico, sulle forme di cambiamento dell'attuale stato giuridico e di piena contrattualizzazione dei docenti, su una auspicata flessibilizzazione dei meccanismi di governance che cozza con la rigidità di una struttura feudale incancrenita. Ma c'è una considerazione che precede tutte le altre: nessun potenziale partner pubblico o privato accetterà mai di investire in una fondazione a perdere, per nulla garantita economicamente da governi che già da tempo hanno deciso di abbandonare l'università. Questa a stento sopravvive e riproduce le proprie macerie succhiando le risorse di precari e studenti.
Una mossa per non cambiare
In questo quadro, attestarsi sulla difesa del valore legale del titolo di studio, o sulla semplice battaglia contro l'aumento delle tasse o sulla riaffermazione della mission pubblica dell'università, laddove è proprio il confine tra pubblico e privato a venir meno, risulta di dubbia utilità, se non dannoso, perché rischia di ributtarci nell'abbraccio mortale di quelle resistenze conservatrici, incarnate dalla Conferenza dei Rettori (Crui), che già guaiscono per i tagli dei (loro) fondi. Ad esempio, se la proposta di Giavazzi di abolire i concorsi nazionali ha l'inquietante profilo della guerra ai «fannulloni», ciò non significa proteggere quell'odioso meccanismo di riproduzione del perverso rapporto di vassallaggio tra precari e baroni.
Tra l'altro, la proposta del ministero di un doppio filtro per il reclutamento di docenti e ricercatori (nazionale e locale) è l'ennesima mossa per non cambiare nulla. Non a caso le mobilitazioni dei ricercatori precari si sono spente quando hanno barattato i claim dell'autonomia e della riappropriazione di reddito con la (poco realistica) rivendicazione di concorsi per tutti, impiccandosi alle proprie catene. Dato che il governo feudale dell'accademia è la via italiana a una aziendalizzazione fallimentare, proviamo a spiazzare il piano della sfida al think tank della Gelmini: il problema, per ora, non è quanta impresa fanno entrare all'università, ma quanto baronato non riescono a far uscire. Comincino da qui, se hanno forza e coraggio.
Pratiche di resistenza
Se la crisi è una opportunità, il suo esito è però tutt'altro che scontato. Il «governo ombra» del Pd dimostra, sulla università e non soltanto, grande coerenza con l'esperienza del «governo in chiaro», nel senso che continua a non avere neanche l'ombra di un'idea. Quanto alla ex sinistra radicale, che non ha mai brillato in materia, l'unica battaglia sulla conoscenza che interessa è quella sul numero di tessere. Il sindacato, infine, persevera nel considerare l'università come un luogo di formazione delle elite, o delle corporazioni dei knowledge workers.
Così, sono le pratiche di resistenza degli studenti a rappresentare l'unica opposizione alla dismissione. Poiché non c'è nulla da difendere, è una resistenza che non soltanto ha inceppato i dispositivi dell'università riformata ma, con le pratiche di autoformazione, ha costruito l'unica prospettiva di università e autonomia in circolazione. Adesso si tratta di passare dalla «guerriglia» alla «secessione costituente». Una secessione che, probabilmente già a partire dai prossimi mesi, tornerà a essere «guerreggiata».
La ventilata trasformazione delle università in fondazioni di diritto privato non implica tanto la loro competizione su un mercato inesistente, quanto l'introduzione di criteri arbitrari per attingere ai pochi fondi pubblici rimasti
(tratto da il manifesto, 16 Luglio 2008)
L'applicazione della riforma universitaria Berlinguer-Zecchino è fallita. Questo è il dato da cui partire. Chi lamenta l'apatia degli studenti, sarebbe ora si ricredesse: non soltanto per i movimenti che si sono opposti alla riforma, ma per i comportamenti diffusi e le pratiche soggettive che hanno a lungo termine messo in crisi i dispositivi di disciplinamento e di misurazione del sapere. Comportamenti e pratiche innervati non dalla nostalgia per le belle lettere - come sarebbe piaciuto ai conservatori di una torre d'avorio in pezzi - ma dalla materialità dei processi di déclassement e di precarizzazione del lavoro cognitivo.
Nel novembre del 2005, dopo le occupazioni contro la legge Moratti, Marco Bascetta aveva sostenuto la necessità di passare dalla «guerra» alla «guerriglia» contro la riforma. Ebbene, la «guerriglia» ha - almeno in parte - vinto.Tra il 2005 e oggi Fabio Mussi, ministro senza qualità, è stato al Miur un dimenticabile intermezzo tra Letizia Moratti e Mariastella Gelmini, scelta giudicata debole e di basso profilo, perfettamente in linea con lo smantellamento bipartisan del sistema formativo.
Scartata l'ipotesi di una nuova riforma organica dell'università, la neoministra si limita a navigare in quella riforma pasticciata, permanente e inconclusa, priva di disegno strategico, che costituisce ormai da decenni la realtà dell'istruzione superiore in Italia. E nel naufragio del 3+2, propone di sfoltire i corsi di laurea e di monitorare dottorati e master, «area di parcheggio da cui pescare manodopera accademica a basso costo».
Passaggi al buio
Del resto, le sue tre «parole chiave» - autonomia, valutazione, merito - sono in piena sintonia con il think tank del «liberista di sinistra» Francesco Giavazzi, ma stridono con una università abbandonata alla sua inerziale rovina. Nella competizione globale per i talenti, dicono, i salari dei professori - regolati dal merito - vanno portati al livello europeo, non soltanto per bloccare la fuga dei cervelli, ma per attirarli. Come tutto questo possa coniugarsi con i tagli della manovra tremontiana, i progetti di ricerca sacrificati al prestito ponte per Alitalia e il blocco del turnover (traduciamo: i baroni restano al loro posto e i precari pure), è un vero mistero. Le defiscalizzazioni dovrebbero stimolare l'investimento dei privati (fondazioni bancarie, no profit, piccole e medie imprese), i quali - da sempre disinteressati a formazione e ricerca - potranno in questo modo godersi gli incentivi regalati dal governo.
Comunque, il vero nodo per Gelmini e Giavazzi è la differenziazione degli atenei, ovvero la costruzione di un mercato della formazione. Il progetto dell'Aquis, sponsorizzato dal «Corriere della sera » e guidato da un pugno di università autodefinitesi di eccellenza, sembrerebbe andare in questa direzione. Tuttavia, nell'indifferenza delle imprese, anche la possibile trasformazione delle università in fondazioni di diritto privato, ventilata nel Dpef, non implica tanto la loro competizione su un mercato inesistente, quanto piuttosto l'introduzione di criteri - arbitrari - in grado di gerarchizzare l'assegnazione dei pochi fondi statali, che restano l'unica fonte, ancorché in progressivo prosciugamento.
Anche dalla roccaforte liberal della voce.info fioccano dubbi e ironie sui provvedimenti di una manovra finanziaria approvata in ben otto minuti e mezzo. In un articolo inequivocabilmente intitolato Passaggio al buio, Bruno Dente - che già da tempo caldeggia una strategia di differenziazione competitiva delle università - osserva sconsolato la sconcertante vaghezza sui parametri che dovrebbero presiedere la scelta del regime privatistico, sulle forme di cambiamento dell'attuale stato giuridico e di piena contrattualizzazione dei docenti, su una auspicata flessibilizzazione dei meccanismi di governance che cozza con la rigidità di una struttura feudale incancrenita. Ma c'è una considerazione che precede tutte le altre: nessun potenziale partner pubblico o privato accetterà mai di investire in una fondazione a perdere, per nulla garantita economicamente da governi che già da tempo hanno deciso di abbandonare l'università. Questa a stento sopravvive e riproduce le proprie macerie succhiando le risorse di precari e studenti.
Una mossa per non cambiare
In questo quadro, attestarsi sulla difesa del valore legale del titolo di studio, o sulla semplice battaglia contro l'aumento delle tasse o sulla riaffermazione della mission pubblica dell'università, laddove è proprio il confine tra pubblico e privato a venir meno, risulta di dubbia utilità, se non dannoso, perché rischia di ributtarci nell'abbraccio mortale di quelle resistenze conservatrici, incarnate dalla Conferenza dei Rettori (Crui), che già guaiscono per i tagli dei (loro) fondi. Ad esempio, se la proposta di Giavazzi di abolire i concorsi nazionali ha l'inquietante profilo della guerra ai «fannulloni», ciò non significa proteggere quell'odioso meccanismo di riproduzione del perverso rapporto di vassallaggio tra precari e baroni.
Tra l'altro, la proposta del ministero di un doppio filtro per il reclutamento di docenti e ricercatori (nazionale e locale) è l'ennesima mossa per non cambiare nulla. Non a caso le mobilitazioni dei ricercatori precari si sono spente quando hanno barattato i claim dell'autonomia e della riappropriazione di reddito con la (poco realistica) rivendicazione di concorsi per tutti, impiccandosi alle proprie catene. Dato che il governo feudale dell'accademia è la via italiana a una aziendalizzazione fallimentare, proviamo a spiazzare il piano della sfida al think tank della Gelmini: il problema, per ora, non è quanta impresa fanno entrare all'università, ma quanto baronato non riescono a far uscire. Comincino da qui, se hanno forza e coraggio.
Pratiche di resistenza
Se la crisi è una opportunità, il suo esito è però tutt'altro che scontato. Il «governo ombra» del Pd dimostra, sulla università e non soltanto, grande coerenza con l'esperienza del «governo in chiaro», nel senso che continua a non avere neanche l'ombra di un'idea. Quanto alla ex sinistra radicale, che non ha mai brillato in materia, l'unica battaglia sulla conoscenza che interessa è quella sul numero di tessere. Il sindacato, infine, persevera nel considerare l'università come un luogo di formazione delle elite, o delle corporazioni dei knowledge workers.
Così, sono le pratiche di resistenza degli studenti a rappresentare l'unica opposizione alla dismissione. Poiché non c'è nulla da difendere, è una resistenza che non soltanto ha inceppato i dispositivi dell'università riformata ma, con le pratiche di autoformazione, ha costruito l'unica prospettiva di università e autonomia in circolazione. Adesso si tratta di passare dalla «guerriglia» alla «secessione costituente». Una secessione che, probabilmente già a partire dai prossimi mesi, tornerà a essere «guerreggiata».
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