1.8.08

Borsa di Studio Angelo Frammartino

È difficile trovare le parole per ricordare Angelo, un giovane ragazzo di 24 anni, un compagno che come tanti/e aveva deciso di rinunciare alle vacanze estive per lavorare come volontario in un campo estivo per bambini palestinesi, per portare un sorriso sui volti di chi non ha conosciuto altro che la guerra.
Poi, la sera del 10 agosto 2006, a Gerusalemme, la tragica fine di una vita ancora tutta da vivere; una vita spesa ad aiutare i meno fortunati, gli oppressi, quelli dimenticati dalle tv e dai giornali.
Angelo era uno di noi; uno di quelli che non ci stanno a rimanere a guardare mentre la gente muore di fame; che si rifiutano di essere spettatori passivi di una guerra permanente e globale; che ripudiano il neo-liberismo come unico modello di sviluppo; che credono che un altro mondo non solo sia possibile, ma sia diventato necessario.
Abbiamo conosciuto Angelo e la sua grande passione per la politica, una politica fatta di valori e ideali, di ricerca intellettuale e passione. Una politica a servizio degli altri. La sua riflessione sulla non violenza. È per queste ragioni che come Dipartimento Esteri del Partito della Rifondazione Comunista, con il contributo dei giovani comunisti di Monterotondo, e in accordo con la famiglia di Angelo, abbiamo deciso di istituire una borsa di studio in suo nome, di dare una possibilità – seppur piccola – a chi raramente ne ha. Abbiamo stanziato 3.000 euro, da assegnare a chi presenterà un progetto o esperienze di cooperazione, di interposizione non violenta nelle zone di conflitto, di solidarietà a popolazioni vittime di conflitti. I lavori saranno esaminati da un apposito comitato scientifico, composto da sette rappresentanti della politica, della cultura, del mondo della cooperazione, da sempre impegnati nel movimento per la pace.
Questa borsa di studio vuole essere anche uno strumento simbolico contro la precarietà e l’attuale mondo del lavoro; ecco perché non ci sono limiti di età e possono presentarsi studenti neo-diplomati, laureandi e neo-laureati, lavoratori atipici. Il bando è scaricabile dal sito www.premioangeloframmartino.org. La domanda, a cui va allegato il progetto di formazione, va presentata entro e non oltre il 10 maggio 2008.
La nostra speranza è che tramite questa borsa di studio possano nascere nuovi partigiani della pace, come lo era Angelo. La guerra globale ed il dominio dell’amministrazione statunitense mostrano tutti i loro limiti e sono oramai traballanti; tocca a noi, al movimento della pace e contro la globalizzazione, farli tracollare.
Perché anche un piccolo sasso può contribuire a bloccare l’ingranaggio capitalista e neo-liberista della guerra.

27.7.08

Il mondo universitario non può tacere

(tratto da il manifesto del 26/07/2008)

Il recente Decreto Legge 112/2008 è un documento inquietante, che può assestare il colpo di grazia al sistema universitario nazionale. Non ci soffermiamo su una serie di prescrizioni pur di estrema gravità (ulteriore riduzione, in tre anni, del Ffo per 500 milioni di euro; trasformazione in triennali degli scatti retributivi con conseguente riduzione delle già umilianti retribuzioni del personale universitario; drastica riduzione del turnover; regole inique per la determinazione degli accessi, ecc.) che, tuttavia, non raggiungono il livello di insensatezza dei principi che dovrebbero configurare il nuovo modello di sistema.
Il decreto, prevedendo ipocritamente la «possibilità» della trasformazione delle università in fondazioni di diritto privato e, dunque, la privatizzazione del sistema nelle sue espressioni più consolidate, configura una formazione sicuramente incostituzionale ed anticostituzionale. È, infatti, incostituzionale una configurazione sistematica che contrasti il dettato esplicito della Carta, lì dove prevede il carattere pubblico dell'istruzione, anche di quella superiore. È anticostituzionale una formazione che di fatto determina una triplice discriminazione.
Da un lato sono discriminate quelle sedi che, impossibilitate a trasformarsi in fondazioni di diritto privato, andrebbero a configurare, in un sistema a doppio livello di qualità, sedi di serie «b»; dall'altro lato, anche le sedi maggiori e potenzialmente trasformabili in fondazioni verrebbero discriminate in ragione della diversità strutturale delle zone in cui operano: zone ricche e zone povere. Infine una odiosa discriminazione riguarderebbe i giovani, a seconda delle loro condizioni economiche e sociali.
In altre parole, viene ipotizzata un'effettiva, pur se surrettizia spaccatura del paese nell'ottusa previsione di una costellazione di sedi capaci di realizzare un sottosistema di «isole felici», intorno alle quali, in un mare melmoso, vivacchierebbero le sedi di serie «b», nelle quali si spera che andrebbe scaricata ogni possibile contestazione, tra pochi fondi e scarsa qualità di formazione culturale e di preparazione professionale.
Il decreto è un esempio dell'inguaribile provincialismo capovolto italiano, che ritiene di accedere ai processi di modernizzazione e sviluppo, raccattando, con incultura, senza cognizioni approfondite, sistemi o parti di sistema operanti altrove, in paesi di diversa strutturazione sociale, economica e culturale, dei quali, per altro, si ignorano le pur esistenti incongruenze e tensioni, coll'arrestarsi alla impalcatura formale di essi.
In conclusione, il citato decreto rappresenta un consapevole o inconsapevole contributo alla definitiva dissoluzione della identità culturale nazionale, già, purtroppo, ridotta in condizioni precarie, esponendo ad ulteriori rischi la nostra identità statale.
Riteniamo che il mondo universitario non possa più tacere e invitiamo quanti hanno a cuore il destino delle nostre università e, con esse, del nostro paese, a reagire con forza e determinazione, respingendo strumentali ed ipocriti ideologismi da qualsiasi parte provengano e di qualsiasi colore, nell'interesse dei nostri giovani, cui è affidato, senza retorica, l'avvenire della nostra comunità nazionale.

Fulvio Tessitore, Michele Ciliberto, Edoardo Vesentini, Nicola Cabibbo, Giorgio Salvini, Margherita Hack, Giorgio Parisi, Cesare Segre, Annibale Mottana, Giancarlo Setti, Alessandro Pizzorusso, Cesare Vasoli, Giuseppe Giarrizzo, Salvatore Califano, Luigi Radicati di Brozolo, Natalino Irti, Girolamo Arnaldi, Luciano Canfora, Giovanni Chieffi, Fausto Zevi, Arnaldo Bagnasco, Stefano Poggi, Luigi Ruggiu, Alfonso Iacono, Giorgio Melchiori, Walter Tega, Andrea Tagliapietra, Maria Bonghi Iovino, Eva Cantarella, Fabrizio Lomonaco,Edoardo Massimilla, Domenico Conte, Beatrice Centi, Davide Bigalli,Germana Ernst, Federico Vercellone, Pasquale Smiraglia, Alberto Burgio, Giovanni Busino.
Seguono altre 142 firme

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25.7.08

Difendiamo l'Università pubblica

Il documento L'Assemblea nazionale, tenutasi il 22 luglio a La Sapienza di Roma, delle Organizzazioni e Associazioni della Docenza e degli Studenti, ha discusso il D.L. 112 e i provvedimenti governativi in materia finanziaria e di pubblico impiego che strangolano il settore. Lanciato l'allarme e la mobilitazione

(tratto da AprileOnLine.info, 24 luglio 2008, 12:12)


L'Assemblea nazionale, tenutasi il 22 luglio 2008 nell'Aula Magna dell'Università La Sapienza di Roma, indetta dalle Organizzazioni e Associazioni della Docenza e degli Studenti, ha discusso la gravissima situazione venutasi a determinare a seguito dell'emanazione del D.L. 112 e dei provvedimenti governativi in materia finanziaria e di pubblico impiego.

L'Assemblea nazionale assume il documento di denuncia e di protesta delle Organizzazioni sindacali e delle Associazioni del 10 luglio 2008 e condivide i contenuti delle numerosissime prese di posizione degli Organi
accademici, che in questi giorni si sono espressi duramente, protestando contro la linea governativa di strangolamento dell'Università pubblica.

L'opinione pubblica deve sapere che, attraverso la riduzione dei finanziamenti, il blocco del turn over, gli espliciti intenti di privatizzazione, l'attacco ai diritti degli studenti, dei docenti e dei tecnico-amministrativi (senza contratto da oltre 31 mesi e con retribuzioni insufficienti), produrrà il progressivo svuotamento degli Atenei, l'impossibilità per un'intera generazione di giovani e di precari di entrare nei ruoli dell'Università, difficoltà per gli studenti di accedere alla formazione universitaria a causa dell'aumento delle tasse e delle crescenti barriere formali e sostanziali, la possibile alienazione del patrimonio delle Università come scelta imposta per far fronte alla mancanza di finanziamenti, la diminuzione dei servizi agli studenti e il rischio della perdita dell'autonomia, la penalizzazione, in particolare, degli Atenei del Mezzogiorno, già oggetto di pesanti tagli.

In una parola, scomparirà l'Università italiana come luogo pubblico di ricerca, di creazione e di trasmissione della conoscenza come bene comune.
Sarà cancellato il ruolo dello Stato nell'alta formazione, sancito e garantito dal titolo V della Costituzione.

Gli interventi governativi non sono un fatto casuale e congiunturale: essi disegnano un modello che si dispiegherà nel lungo periodo attraverso ulteriori interventi legislativi destinati a colpire e a ridimensionare lo Stato sociale nel suo complesso.

Inoltre, un ulteriore impoverimento del sistema-paese deriverebbe dal fatto che, mancando i concorsi per i giovani, gli aspiranti ricercatori saranno costretti a migrare verso altri Paesi più ricettivi, contribuendo così paradossalmente a renderli più competitivi rispetto al nostro.
Contro questo disegno l'Assemblea nazionale protesta decisamente, denunciando i guasti che deriverebbero all'intera comunità nazionale dalla sua attuazione.

La classe politica deve ascoltare la nostra protesta e prendere atto che essa e' fortemente congiunta alla volontà di cambiamento delle Università.
Occorre offrire soluzioni credibili per far crescere e migliorare il sistema pubblico della formazione.

Pertanto, l'Assemblea nazionale:

-chiede al Governo l'immediato stralcio di tutte le norme sull'Università contenute nei provvedimenti governativi;

-chiede al Governo che si inverta la manovra economica, destinando alle Università nuove risorse economiche anche al fine di bandire concorsi per giovani, avviando così la soluzione del grave problema del precariato;

-invita gli Atenei a sospendere l'avvio del prossimo anno accademico, informando e discutendo con gli studenti e con il personale tutto adeguate forme di mobilitazione;

-invita le Università a non approvare i propri bilanci preventivi in mancanza delle adeguate risorse economiche;

-chiede alla CRUI, al CUN, al CNAM e al Consiglio nazionale degli studenti una presa di posizione forte ed esplicita per l'apertura di un confronto inteso a promuovere i veri interessi della comunità universitaria;

- preannuncia, a partire da settembre, un calendario di iniziative di mobilitazione nazionali e locali, per preparare una seconda manifestazione nazionale e arrivare, se necessario, allo sciopero di tutte le componenti universitarie e alla sospensione di ogni attività didattica;

-invita tutti i lavoratori e gli studenti delle Università a mobilitarsi congiuntamente, nella consapevolezza della gravità della situazione attuale e delle prospettive future.

DOCUMENTO DELL'ASSEMBLEA NAZIONALE DELL'UNIVERSITA'
indetta da ADI, ADU, ANDU, APU, CISAL-UNIVERSITA', CNRU, CNU, CONFSAL FED. SNALS-CISAPUNI, FEDERAZIONE CISL-UNIVERSITA', FLC-CGIL, RNRP, SUN, UDU e UILPA-URAFAM

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22.7.08

L'attacco all'università

di Alberto Burgio

(tratto da il manifesto del 22/07/2008)

La destra attacca a testa bassa. La sceneggiatura inventata qualche mese da Walter Veltroni per aprire la crisi di governo non lo prevedeva. Fantasticava di una destra ormai civilizzata. Come stessero in realtà le cose è oggi sotto gli occhi di tutti: razzismo di Stato; leggi ad personam come a bei vecchi tempi; attacco contro quanto resta dell’unità sociale e istituzionale del Paese; guerra senza quartiere contro il lavoro pubblico e privato, e una politica economica fatta di frodi sull’inflazione reale e di tagli alla spesa e alle retribuzioni. Come sempre. Solo che adesso si infierisce su un popolo di poveri già super-indebitati.
Difficile dire che succederà alla ripresa autunnale. C’è da augurarsi che, incalzata dalla sinistra sindacale, la Cgil dia finalmente segnali di resipiscenza, ma dovrà vedersela con le altre confederazioni, tentate da una replica in pejus del famigerato Patto per l’Italia. Per parte sua, il Partito democratico si interroga se perseverare nella ricerca del dialogo o impegnarsi nell’opposizione, naturalmente «costruttiva». Intanto vengono giù interi pezzi della Costituzione materiale e formale della Repubblica, trascinando con sé le sorti della nostra democrazia.
Un’ennesima picconata la dà in questi giorni il decreto legge 112, la «lenzuolata» scritta da Tremonti in combutta con Sacconi e Brunetta sulla quale il governo ha posto la fiducia temendo di non ottenerne, altrimenti, la conversione in legge entro il 25 agosto. Tra privatizzazioni, tagli alla spesa e agli organici pubblici, nuove misure precarizzanti e ricatti contro i «fannulloni» del pubblico impiego, il provvedimento contiene misure devastanti in materia di scuola e di università. Il manifesto ha già messo in evidenza i pericoli che incombono sul sistema scolastico, già stremato da una politica di lesina che da anni colloca l’Italia agli ultimi posti in Europa quanto a spesa per l’istruzione pubblica. Sarà ulteriormente ridotto l’organico docente e ausiliario e si ridurrà il tempo pieno. Al contempo si riprenderà il progetto morattiano del doppio binario (scelta tra istruzione e formazione professionale già a 14 anni) teso a reintrodurre la logica classista dell’«avviamento» cancellata nei primi anni Sessanta con l’istituzione della scuola media unica. Dopotutto, non aveva detto chiaramente Berlusconi che non sta né in cielo né in terra che il figlio dell’operaio possa avere le stesse ambizioni di quello dell’imprenditore o del professionista?
L’università non è messa meglio. Le Disposizioni per lo sviluppo economico (questo il titolo del dl nella beffarda neolingua governativa) prevedono tagli alle già misere retribuzioni del personale docente e amministrativo; tagli agli stanziamenti (in aggiunta ai 500 milioni già decurtati nello scorso triennio); limiti al turn over (nella misura massima del 20% dei pensionamenti per il trienno 2009-2011); massicci trasferimenti a favore di pretesi «centri di eccellenza» (a cominciare dall’Istituto Italiano di Tecnologia, guarda caso presieduto dal Direttore generale del Ministero dell’Economia) e, dulcis in fundo, la possibilità che le università pubbliche si trasformino in fondazioni, spianando anche di diritto la strada a un processo di privatizzazione dell’università italiana che da anni – grazie alle sciagurate riforme uliviste – marcia già speditamente di fatto.
Si presti molta attenzione. Quest’attacco brutale non colpisce soltanto chi lavora nell’università né solo chi vi trascorre alcuni anni della propria vita, peraltro pagando tasse sempre più salate in cambio di un sapere sempre più parcellizzato e disorganico. Il progetto del governo ha un respiro ben più complessivo, una portata in senso proprio costituente. Ridurre al minimo il reclutamento di nuovi ricercatori significa precarietà a vita per quasi tutti coloro che ancora attendono di entrare in ruolo ed esasperazione delle logiche oligarchiche e baronali. Privatizzare il patrimonio degli atenei significa consolidare le propensioni e le pratiche neofeudali di ristretti gruppi di potere, sempre più insofferenti al controllo democratico. E significa accrescere il potere di condizionamento del capitale privato (impresa e credito) sui percorsi di ricerca e sulla stessa didattica. Destinare risorse crescenti ai sedicenti centri di eccellenza significa promuovere un sistema di università di serie A (per chi potrà permettersele) e di serie B (per tutti gli altri), secondo il pessimo modello castale degli Stati Uniti.
Per l’ennesima volta la nostra «classe dirigente» conferma la propria levatura strapaesana, non esitando a sacrificare le prospettive di sviluppo del Paese all’interesse di chi gode di posizioni privilegiate. Ma in questo caso l’attacco colpisce un fondamento della cittadinanza democratica. La scuola, l’istruzione, la cultura e la critica sono strumenti essenziali di partecipazione e di mobilità sociale. Per questo la Costituzione ne preserva libertà e pubblicità. E per questo la destra al governo intende cancellarne il carattere di massa. Viene insomma al pettine uno dei nodi della primavera vissuta anche in Italia tra gli anni Sessanta e Settanta. C’è chi, per fortuna, se n’è accorto in tempo. Nelle università si moltiplicano in questi giorni agitazioni, appelli alla mobilitazione e assemblee di studenti, docenti e precari. Ma non è ancora abbastanza. Occorre saldare al più presto un fronte ampio che coinvolga massicciamente il corpo docente e tutti i dipendenti del sistema universitario pubblico. Questa controriforma non deve passare: dov’è scritto che agosto non possa essere tempo di lotta?

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18.7.08

Al mercato. Nuove ribellioni fra le rovine dell'università

Gigi Roggero

La ventilata trasformazione delle università in fondazioni di diritto privato non implica tanto la loro competizione su un mercato inesistente, quanto l'introduzione di criteri arbitrari per attingere ai pochi fondi pubblici rimasti

(tratto da il manifesto, 16 Luglio 2008)

L'applicazione della riforma universitaria Berlinguer-Zecchino è fallita. Questo è il dato da cui partire. Chi lamenta l'apatia degli studenti, sarebbe ora si ricredesse: non soltanto per i movimenti che si sono opposti alla riforma, ma per i comportamenti diffusi e le pratiche soggettive che hanno a lungo termine messo in crisi i dispositivi di disciplinamento e di misurazione del sapere. Comportamenti e pratiche innervati non dalla nostalgia per le belle lettere - come sarebbe piaciuto ai conservatori di una torre d'avorio in pezzi - ma dalla materialità dei processi di déclassement e di precarizzazione del lavoro cognitivo.
Nel novembre del 2005, dopo le occupazioni contro la legge Moratti, Marco Bascetta aveva sostenuto la necessità di passare dalla «guerra» alla «guerriglia» contro la riforma. Ebbene, la «guerriglia» ha - almeno in parte - vinto.Tra il 2005 e oggi Fabio Mussi, ministro senza qualità, è stato al Miur un dimenticabile intermezzo tra Letizia Moratti e Mariastella Gelmini, scelta giudicata debole e di basso profilo, perfettamente in linea con lo smantellamento bipartisan del sistema formativo.
Scartata l'ipotesi di una nuova riforma organica dell'università, la neoministra si limita a navigare in quella riforma pasticciata, permanente e inconclusa, priva di disegno strategico, che costituisce ormai da decenni la realtà dell'istruzione superiore in Italia. E nel naufragio del 3+2, propone di sfoltire i corsi di laurea e di monitorare dottorati e master, «area di parcheggio da cui pescare manodopera accademica a basso costo».

Passaggi al buio
Del resto, le sue tre «parole chiave» - autonomia, valutazione, merito - sono in piena sintonia con il think tank del «liberista di sinistra» Francesco Giavazzi, ma stridono con una università abbandonata alla sua inerziale rovina. Nella competizione globale per i talenti, dicono, i salari dei professori - regolati dal merito - vanno portati al livello europeo, non soltanto per bloccare la fuga dei cervelli, ma per attirarli. Come tutto questo possa coniugarsi con i tagli della manovra tremontiana, i progetti di ricerca sacrificati al prestito ponte per Alitalia e il blocco del turnover (traduciamo: i baroni restano al loro posto e i precari pure), è un vero mistero. Le defiscalizzazioni dovrebbero stimolare l'investimento dei privati (fondazioni bancarie, no profit, piccole e medie imprese), i quali - da sempre disinteressati a formazione e ricerca - potranno in questo modo godersi gli incentivi regalati dal governo.
Comunque, il vero nodo per Gelmini e Giavazzi è la differenziazione degli atenei, ovvero la costruzione di un mercato della formazione. Il progetto dell'Aquis, sponsorizzato dal «Corriere della sera » e guidato da un pugno di università autodefinitesi di eccellenza, sembrerebbe andare in questa direzione. Tuttavia, nell'indifferenza delle imprese, anche la possibile trasformazione delle università in fondazioni di diritto privato, ventilata nel Dpef, non implica tanto la loro competizione su un mercato inesistente, quanto piuttosto l'introduzione di criteri - arbitrari - in grado di gerarchizzare l'assegnazione dei pochi fondi statali, che restano l'unica fonte, ancorché in progressivo prosciugamento.
Anche dalla roccaforte liberal della voce.info fioccano dubbi e ironie sui provvedimenti di una manovra finanziaria approvata in ben otto minuti e mezzo. In un articolo inequivocabilmente intitolato Passaggio al buio, Bruno Dente - che già da tempo caldeggia una strategia di differenziazione competitiva delle università - osserva sconsolato la sconcertante vaghezza sui parametri che dovrebbero presiedere la scelta del regime privatistico, sulle forme di cambiamento dell'attuale stato giuridico e di piena contrattualizzazione dei docenti, su una auspicata flessibilizzazione dei meccanismi di governance che cozza con la rigidità di una struttura feudale incancrenita. Ma c'è una considerazione che precede tutte le altre: nessun potenziale partner pubblico o privato accetterà mai di investire in una fondazione a perdere, per nulla garantita economicamente da governi che già da tempo hanno deciso di abbandonare l'università. Questa a stento sopravvive e riproduce le proprie macerie succhiando le risorse di precari e studenti.

Una mossa per non cambiare
In questo quadro, attestarsi sulla difesa del valore legale del titolo di studio, o sulla semplice battaglia contro l'aumento delle tasse o sulla riaffermazione della mission pubblica dell'università, laddove è proprio il confine tra pubblico e privato a venir meno, risulta di dubbia utilità, se non dannoso, perché rischia di ributtarci nell'abbraccio mortale di quelle resistenze conservatrici, incarnate dalla Conferenza dei Rettori (Crui), che già guaiscono per i tagli dei (loro) fondi. Ad esempio, se la proposta di Giavazzi di abolire i concorsi nazionali ha l'inquietante profilo della guerra ai «fannulloni», ciò non significa proteggere quell'odioso meccanismo di riproduzione del perverso rapporto di vassallaggio tra precari e baroni.
Tra l'altro, la proposta del ministero di un doppio filtro per il reclutamento di docenti e ricercatori (nazionale e locale) è l'ennesima mossa per non cambiare nulla. Non a caso le mobilitazioni dei ricercatori precari si sono spente quando hanno barattato i claim dell'autonomia e della riappropriazione di reddito con la (poco realistica) rivendicazione di concorsi per tutti, impiccandosi alle proprie catene. Dato che il governo feudale dell'accademia è la via italiana a una aziendalizzazione fallimentare, proviamo a spiazzare il piano della sfida al think tank della Gelmini: il problema, per ora, non è quanta impresa fanno entrare all'università, ma quanto baronato non riescono a far uscire. Comincino da qui, se hanno forza e coraggio.

Pratiche di resistenza
Se la crisi è una opportunità, il suo esito è però tutt'altro che scontato. Il «governo ombra» del Pd dimostra, sulla università e non soltanto, grande coerenza con l'esperienza del «governo in chiaro», nel senso che continua a non avere neanche l'ombra di un'idea. Quanto alla ex sinistra radicale, che non ha mai brillato in materia, l'unica battaglia sulla conoscenza che interessa è quella sul numero di tessere. Il sindacato, infine, persevera nel considerare l'università come un luogo di formazione delle elite, o delle corporazioni dei knowledge workers.
Così, sono le pratiche di resistenza degli studenti a rappresentare l'unica opposizione alla dismissione. Poiché non c'è nulla da difendere, è una resistenza che non soltanto ha inceppato i dispositivi dell'università riformata ma, con le pratiche di autoformazione, ha costruito l'unica prospettiva di università e autonomia in circolazione. Adesso si tratta di passare dalla «guerriglia» alla «secessione costituente». Una secessione che, probabilmente già a partire dai prossimi mesi, tornerà a essere «guerreggiata».

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15.7.08

Università, la protesta dilaga. "Via i tagli o stop alle lezioni"

Si moltiplicano le critiche alle misure inserite nel dl che anticipa la Finanziaria
Chieste modifiche immediate, mentre c'è chi minaccia drastiche contestazioni

di ANDREA BETTINI

ROMA - Contestazioni, minacce di bloccare lezioni, esami e sessioni di laurea, allusioni nemmeno troppo velate allo stop del prossimo anno accademico. Chi si attendeva un'estate di transizione ed un eventuale autunno di proteste, a quanto pare, era troppo ottimista. In molte università italiane è già iniziata la mobilitazione contro i tagli decisi dal governo il 25 giugno con il decreto che anticipa la manovra Finanziaria. Una protesta che sta dilagando e che, con toni e modalità diverse, coinvolge rettori, docenti, ricercatori e personale amministrativo.

Le spiegazioni e le rassicurazioni del ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini, che di fronte alle prime polemiche ha parlato di "scelte dolorose ma indispensabili" e di "tagli sulla base di indicatori di merito", sembrano non essere riuscite a fermare le critiche. Mentre si moltiplicano le assemblee e gli allarmi per il futuro dell'università, la richiesta dei contestatori è sostanzialmente unanime: stralciare dal decreto alcune delle principali novità oppure modificarle durante l'iter parlamentare per la conversione in legge. Una posizione che sarà probabilmente ribadita il 22 luglio a Roma, quando alla Sapienza si svolgerà un'assemblea nazionale dei rappresentanti di tutte le componenti universitarie.

I punti contestati. A preoccupare il mondo accademico sono diversi provvedimenti. Il più criticato è la graduale riduzione, collegata ad una forte stretta sulle assunzioni, del Fondo di finanziamento ordinario, con risparmi di circa 1,5 miliardi di euro fino al 2013. Contestate anche le misure sugli stipendi, con scatti di anzianità dei docenti che da biennali diventeranno triennali ed una riduzione del Fondo di contrattazione integrativa del personale amministrativo. Molta perplessità, infine, anche sulla possibilità per gli atenei di trasformarsi in Fondazioni di diritto privato.

"Interventi inaccettabili". Dopo la bocciatura unanime da parte della Conferenza dei rettori, secondo la quale i tagli porteranno inevitabilmente il sistema al dissesto, dai vertici delle università continuano a piovere critiche nei confronti del decreto legge. Una mozione approvata ieri dai Senati accademici degli atenei toscani definisce interventi gravi e "inaccettabili" la riduzione dei trasferimenti statali e la limitazione "improvvisa, indiscriminata e pesante" del turnover dei dipendenti e chiede lo stralcio dal decreto delle norme che si riferiscono all'università. Venerdì scorso, invece, i quattro rettori delle università dell'Emilia-Romagna hanno denunciato che la "riduzione drastica delle risorse finanziarie e umane, oltre a mortificare l'intero insieme di professionalità e competenze all'università, mette a serio rischio la funzione didattica e nel contempo la sostenibilità delle attività di ricerca" e hanno convocato per il 21 luglio una riunione straordinaria congiunta dei quattro Senati accademici e dei consigli di amministrazione.

La mobilitazione. In molte università si stanno già mettendo a punto forme concrete di lotta. Ieri un'assemblea generale dei lavoratori e degli studenti degli atenei napoletani, indetta da Flc Cgil, Cisl Università e Uil Pa-Ur, ha deciso, tra l'altro, l'astensione "a tempo indeterminato dei docenti e ricercatori dalla partecipazione a organi collegiali" ed il ritiro della "disponibilità a ricoprire incarichi didattici per il prossimo anno accademico". Il 9 luglio, invece, l'assemblea del personale delle università "Cà Foscari" e Iuav di Venezia ha ipotizzato "il rifiuto di svolgere carichi didattici superiori alle richieste di legge, il blocco degli esami, delle sessioni di laurea e delle lezioni". Lo stesso giorno, all'università di Sassari, l'assemblea dei docenti ha invece dichiarato lo stato di agitazione dell'ateneo e non ha escluso "per quanto con doverose riserve ed a fronte di un ulteriore irrigidimento della controparte, il ricorso ad azioni più eclatanti quali la possibilità del blocco degli esami di profitto e di laurea".

"A rischio il prossimo anno accademico". Una delle prese di posizione più nette nei confronti delle decisioni del governo è quella del Senato accademico dell'università "La Sapienza" di Roma. Martedì 8 luglio, prospettando un "danno grave per l'avvenire dei giovani e per lo sviluppo del Paese", ha chiesto lo stralcio della parte del decreto relativa all'università e ha indetto una giornata nazionale di protesta dicendosi consapevole "che in queste condizioni non sarà possibile dare inizio al prossimo anno accademico".

La petizione online. Il Coordinamento Giovani Accademici, intanto, ha pubblicato sul proprio sito internet una petizione in cui denuncia tra l'altro che la stretta sugli stipendi ridurrebbe i compensi annui lordi a fine carriera di 16mila euro per i professori ordinari, di 11mila euro per gli associati e di 7mila per i ricercatori. Il documento, che chiede un nuovo approccio nei confronti dell'università italiana, è già stato sottoscritto da più di 3.100 tra docenti, ricercatori e studenti preoccupati per il proprio futuro e per quello degli atenei.

(Repubblica.it, 15 luglio 2008)

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3.6.08

Scienza e università povere e allo sbando

(tratto da il manifesto, 29 Maggio 2008)

Presentato un documento dell'Accademia dei Lincei sulla ricerca in Italia. Pochi i fondi pubblici, assente una visione progettuale. Mentre dilaga il precariato e continua la «fuga dei cervelli»

Lo stato di salute della ricerca scientifica italiana è pessimo. Nonostante la firma al trattato di Lisbona sulla costruzione della «società della conoscenza», i finanziamenti pubblici sono la metà da quanto stabilito nella capitale portoghese oltre otto anni fa. Inoltre è assente una visione progettuale sia di breve che di lungo periodo. Infine, il precariato è diventata la norma nelle politiche di reclutamento dei ricercatori, che non prevedono neanche una verifica del lavoro svolto, né la qualità scientifica del progetti di ricerca.
È questo il fosco affresco che la «Commissione ricerca» dell'Accademia dei Lincei ha delineato in un documento sulla ricerca biologica e medica in Italia reso pubblico ieri. Un affresco che trova conferma in un'inchiesta condotta dal Cnr su come i giovani considerano sulla scienza: campi del sapere certo interessanti (80 per cento degli intervistati), ma difficili da apprendere (52 per cento) e che non aiutano certo a trovare lavoro (per il 70 per cento del campione).
Per tornare al documento dell'Accademia dei Lincei, c'è la conferma che i finanziamenti pubblici alla ricerca scientifica è l'un per cento del prodotto interno lordo, cioè la metà di quanto i paesi dell'Unione europea, Italia compresa, avevano preso come impegno a Lisbona. Inoltre, il disinteresse verso la riesca scientifica è stato bipartisan: da dieci anni a questa parte tutti i governi non hanno considerato l'università e la ricerca scientifica come obiettivi strategici della propria azione. Anzi, la riduzione dei finanziamenti è stata una costante delle finanziarie approvate dai parlamenti che si sono succediti. Eccezione per l'ultimo governo Prodi, che ha mantenuto gli stessi finanziamenti del precedente di centro-destra: una conferma che non ha certo invertito la tendenza nell'emorragia di «cervelli» dal nostro paese.
Da qui l'emorragia di «cervelli» del nostro paese. Una conferma della scelta di molti laureati di cercare lavoro nella ricerca al di fuori dal nostro paese viene anche dai dati contenuti nel documento dell'Accademia dei Lincei. Nel 2007 ci sono state 1700 proposte di progetti di ricerca presentate da laureati italiani all'European Research Council rispetto alle 1000 presentate da «colleghi» tedeschi o inglesi. Di queste sono state accolte solo settanta, ma il dato più allarmante è che oltre la metà dei laureati pensava l'inserimento lavorativo in un paese diverso dall'Italia. Altro dato sconfortante è che al bando sul tema «Salute» del VII Programma quadro dell'Unione europea la percentuale di successo di progetti di ricerca italiani non supera il 15 per cento, contro il 25 per cento degli altri paesi europei.
L'Accademia dei Lincei affronta anche il tema della valutazione di qualità dei progetti di ricerca, riportando i dati di uno studio del National Institute of Health statunitense. È noto che negli usa la valutazione del lavoro di ricerca avviene all'interno delle peer review, cioè che dei «pari» che esprimono giudizi sulla qualità scientifica del lavoro svolto. Per i National Insitutes of Health solo il dieci per cento delle ricerche italiane è valutato secondo il metodo delle peer review. Da qui il giudizio impietoso dell'Accademia dei Lincei su come si accede ai finanziamenti. Rapporti preferenziali con la pubblica amministrazione, costruzione di «cordate» accademiche: si fa di tutto pur di riuscire ad avere i pochi finanziamenti a disposizione, con un conseguente abbassamento della qualità.
Per l'Accademia dei Lincei non esiste nessuna politica del «merito», chi riflette anche nel reclutamento dei ricercatori. Il precariato è infatti la norma, anche se nel documento non si parla ovviamente che molto del lavoro di ricerca è svolto proprio da ricercatori precari dell'Università. L'Accademia dei Lincei tuttavia non esclude che i primi anni di inserimento nel lavoro di ricerca possano essere legati a contratti di lavoro temporanei, ma questo non può essere protratto all'infinito, come spesso accade.
Nel documento ci sono anche alcune proposte per migliorare la qualità del lavoro di ricerca. In primo luogo, la costituzione di centri scientifici interdisciplinari sul modello dei Clinical Research Centers delle Scuole di medicina statunitensi.. Per quanto riguarda l'accesso ai finanziamenti, che va da sé dovrebbero essere aumentati, i fondi pubblici dovrebbero essere annunciati da bandi pubblici. L'assegnazione vera e propria dovrebbe essere gestita da un'Agenzia nazionale, che dovrà inoltre stabilire le linee guida progettuali.

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