26.6.06

Prenotazioni per il 3 luglio


Scienza Politica e Politica Comparata:

-


Altri insegnamenti di v.o., triennale e specialistica:

Mennella Giacomo RPI/55
Grauso Lisa RPI/72
Girasole Luisa RPI/78

Razzino Rossella PS/43
Sepe Irene PS/7

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Spostato il ricevimento di mercoledi' 28 giugno

Si terra' invece GIOVEDI' 29, dalle 14 alle 15.

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25.6.06

Un appello del Crs per votare No al referendum del 25 e del 26 giugno sulla riforma della Costituzione


Questione costituzionale e questione democratica

Il 25 e il 26 giugno prossimi gli italiani sono chiamati a votare per approvare definitivamente o respingere la riforma costituzionale varata nella scorsa legislatura dal centrodestra. Noi siamo a favore del no. E lo siamo per quattro ragioni fondamentali.

La prima: la riforma e' tecnicamente sgangherata e malscritta, getta lo scompiglio tra i poteri dello Stato, configura un bicameralismo asimmetrico che rischia di creare un pericoloso contenzioso tra le due camere, disegna non un meccanismo di "checks and balances", ma un sistema di ricatti reciproci, prevede un federalismo centrifugo che metterebbe a repentaglio l'unita' della Repubblica e i vincoli di solidarieta' tra le sue parti.

La seconda ragione e' che si tratta di una riforma sbagliata politicamente. E' saggio che le norme fondamentali che regolano la vita collettiva siano condivise da larghe maggioranze, non imposte dall'una all'altra parte. Bocciare questa riforma significa rimettere in discussione anche lo strappo costituzionale perpetrato a suo tempo dal centrosinistra con la cosiddetta riforma federalista.

La terza ragione e' che la riforma ripropone quella preminenza personale del capo dell'esecutivo che l'Italia ha gia' conosciuto al tempo del fascismo e che i Costituenti avrebbero voluto scongiurare per sempre. Questa riforma dunque segna la rivincita sulla tradizione e sulle forze antifasciste che scrissero la Carta del '48 degli epigoni del fascismo, che tali rimangono pur dissimulati sotto spoglie diverse.

La quarta ragione e' che la riforma e' democraticamente rischiosa: figlia di una cultura agli antipodi di quella da cui scaturi' la Costituzione, essa predispone una minacciosa concentrazione di potere nelle mani del capo dell'esecutivo, zittisce definitivamente il parlamento, rende il capo dello Stato una figura decorativa, indebolisce le istituzioni di garanzia.

Ecco le ragioni per cui riteniamo che questa riforma vada bocciata: senza "se" e senza "ma".

Sennonche', ammesso che cio' avvenga, tutto lascia presumere che una nuova riforma verra' subito dopo messa in cantiere al suo posto. Gia' si avverte un intenso tramestio in questo senso e i primi segnali di cambiamento di metodo sono stati lanciati : non una riforma imposta dalla maggioranza alla minoranza, bensi' una riforma concordata. C'e' da rallegrarsene, pur con l'avvertenza che l'adozione di un metodo politicamente meno discutibile costituisce una rassicurazione molto debole. Specie in presenza di interventi dalle parti del centrosinistra che hanno ravvisato nella riforma pecche piu' estetiche, e metodologiche, che non di sostanza: la riforma del centrodestra sarebbe brutta, e delegittimata dal metodo con cui la si e' introdotta, ma la direzione che indica sarebbe quella giusta.

Questa linea di pensiero non stupisce affatto. Trova conferma nelle riforme introdotte nell'ultimo quindicennio, con maggioranze molto larghe, negli assetti del governo locale, ove al capo dell'esecutivo e' stata assicurata una preminenza assoluta, emarginando le assemblee rappresentative, incentivando l'involuzione dei partiti a mere agenzie elettorali e abbattendo il sistema dei controlli, tra l'altro con la conseguenza di favorire una crescita incontrollata della spesa pubblica. Tra il riformismo costituzionale del centrodestra e quello di una parte del centrosinistra c'e' un'inquietante contiguita' culturale, che promette frutti avvelenati qualora, bocciata questa riforma, subito si avviasse quella successiva.

Nel sottoscrivere questo appello noi vorremmo invitare le forze politiche repubblicane ad una pausa e uno sforzo di ripensamento. Le costituzioni, e le regole in genere, si possono benissimo aggiornare. Vanno tuttavia riscritte non solo tutti insieme, ma anche con consapevolezza e prudenza. A partire dalla riforma elettorale del 1993, l'Italia ha conosciuto una lunga e tormentata stagione di riforme d'ogni sorta, che hanno ridisegnato il volto delle istituzioni, a livello nazionale e locale, trasformandola in democrazia maggioritaria. Il fatto stesso che si chiedano riforme ulteriori per perfezionare la cosiddetta transizione dovrebbe tuttavia dimostrare non solo quanto insoddisfacente sia il percorso compiuto, ma come non necessariamente le riforme conseguano gli esiti promessi. Prima di accanirsi in interventi ulteriori, in nuove leggi elettorali e nuovi aggiustamenti, magari incisivi, del testo costituzionale, occorrerebbe dunque ben sapere quali esiti si vogliano conseguire, anzitutto ragionando sull'attuale stato della democrazia italiana. Una legislatura e' un tempo sufficientemente lungo per concedersi una pausa di riflessione ed avviare un dibattito costruttivo, che eluda i luoghi comuni accumulatisi nell'ultimo quindicennio.

Non e' fra l'altro eccessivo sostenere che al momento poco meno di meta' degli elettori si sono pronunciati a favore di partiti che disconoscono la democrazia repubblicana: secessionisti, eredi del fascismo e neopopulisti hanno piu' volte manifestato il loro profondo disprezzo per regole e principi democratici, per le minoranze, per i diritti fondamentali della persona. Cio' non significa che gli elettori condividano tutti gesti e sentimenti di coloro per cui hanno deciso di votare. Ma sono fatti democraticamente devastanti sia la furibonda contestazione dell'esito delle elezioni del 9-10 aprile scorso, sia il comportamento incivile tenuto in Parlamento in occasione dell'elezione del nuovo capo dello Stato, sia la minaccia di mobilitare le piazze e di farle marciare verso Roma, sia quella di ricorrere a mezzi non democratici se il referendum bocciasse la riforma. Qualora ulteriormente ripetuti, tali gesti rischiano d'inquinare irreversibilmente la cultura democratica e, per intanto, stanno a indicare un problema che prim'ancora di essere istituzionale e' politico e democratico.

Come si fa a ricondurre entro la legalita' repubblicana una parte cosi' cospicua del sistema politico? Ed e' immaginabile di sancire istituzionalmente la preminenza del capo dell'esecutivo con la prospettiva di consegnare tale preminenza a forze politiche la cui affidabilita' democratica e' a dir poco dubbia? Prima ancora che la stabilita' e l'efficacia dell'esecutivo e la compattezza delle maggioranze di governo, il problema italiano e' l'agibilita' della democrazia. Non sara' il caso di ragionare approfonditamente della bonifica democratica della politica italiana, prima d'immaginare nuove manomissioni della Costituzione?


Umberto Allegretti, Stefano Anastasia, Gaetano Azzariti, Pietro Barrera, Francesco Bilancia, Gabriella Bonacchi, Roberto Ciccarelli, Franco Corleone, Claudio De Fiores, Alfonso Di Giovine, Mattia Diletti, Mario Dogliani, Angelo D'Orsi, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Maurizio Franzini, Giovanna Indiretto, Laura Lanzillo, Salvatore Lupo, Giacomo Marramao, Paola Masi, Alfio Mastropaolo, Enrico Melchionda, Maria Serena Piretti, Tamar Pitch, Eligio Resta, Claudio Riolo, Gianpasquale Santomassimo, Mario Tronti, Danilo Zolo, Grazia Zuffa

24.6.06

Mezzogiorno centro di equilibrio tra i Poli

di Camilla Formisano

denaro.it
24-06-2006

Mezzogiorno: si riparte. Con lo sviluppo ma anche con il dibattito accademico, che attorno a questo tema negli ultimi anni e' stato messo da parte. Occasione per riaprirlo e' il libro "Ricominciare: il Mezzogiorno, le politiche, lo sviluppo" che la sociologa Paola De Vivo ha recentemente pubblicato per i tipi di Franco Angeli. Un volume che tenta un approccio multidisciplinare. La stessa ottica con cui si e' presentato il volume nel corso di un dibattito ieri a Palazzo Mediteranno, presso l'Universita' degli Studi l'Orientale. A confrontarsi sul tema insieme all'autrice ci sono il preside della facolta' di Scienze Politiche Amedeo Di Maio, lo storico Paolo Frascani, l'economista Antonio Lopes, il politologo Enrico Melchionda, il sociologo Raffaele Sibilio e il consulente economico del presidente della Regione Campania Isaia Sales.

- vai al testo dell'articolo.

23.6.06

Ricominciare: oggi si presenta il volume

"Ricominciare: Il Mezzogiorno, le politiche, lo sviluppo" e' il titolo del volume di Paola De Vivo che viene presentato oggi (ore 10) a Palazzo del Mediterraneo, in via Nuova Marina 59 a Napoli.
L'incontro e' promosso dalla Facolta' di Scienze Politiche dell'Universita' degli Studi di Napoli "L'Orientale". A coordinare il dibattito e' Amedeo Di Maio, preside della Facolta'.
Intervengono, oltre all'autrice, Paolo Frascani, Adriano Giannola, Antonio Lopes, Enrico Melchionda, Isaia Sales e Raffaele Sibilio.


Il monito di Paola De Vivo: Sud, non e' tutto da rifare

"Per far ripartire il Sud non bisogna inventarsi nulla di nuovo. Le politiche pubbliche intraprese negli ultimi dieci anni vanno messe a sistema, dobbiamo smetterla con il vizio di non portare mai a termine nulla a causa dei cambiamenti politici o della burocrazia". E' uno dei concetti chiave contenuti del libro "Ricominciare. Il Mezzogiorno, le politiche, lo sviluppo", scritto per i tipi di Franco Angeli da Paola De Vivo, sociologa, docente di Azione pubblica e Sviluppo economico presso l'Universita' degli Studi di Napoli Federico II. "Il Meridione ultimamente e' stato trascurato - afferma - e anche in questa legislatura esiste questo rischio, visto che dalle urne e' uscito un Paese spaccato in due. E il Centrosinistra vuole riconquistare la parte del Nord che ha votato per la Cdl".
di Giovanni Brancaccio

Domanda. "Ricominciare" e' la parola chiave del suo libro. Professoressa De Vivo, per l'intervento pubblico nel Mezzogiorno serve un nuovo inizio?
Risposta. Al contrario. Nel volume ho usato l'espressione "ricominciare" con una doppia valenza. Sul piano politico il Sud, trascurato negli ultimi anni, deve tornare a essere parte integrante del progetto di sviluppo di cui l'Italia ha bisogno nei prossimi anni per rilanciare la sua competitivita'. Il Meridione e' la parte del Paese con le maggiori potenzialita' di crescita. In termini di strategia per lo sviluppo, invece, "ricominciare" ha un'accezione negativa.
D. Perche'?
R. Dopo dieci anni di programmazione negoziata non si puo' pensare di mandare tutto a monte a causa delle discontinuita' politiche o delle pastoie burocratiche. In Italia abbiamo la cattiva abitudine di avviare molti progetti e non portarli mai a termine, a causa delle discontinuita' del quadro politico e della burocrazia.
D. Quindi che cosa suggerisce?
R. Di mettere a sistema tutto quello che e' stato fatto in questi anni per il Sud. I cantieri vanno chiusi, non e' moralmente accettabile che dieci anni siano trascorsi invano. Bisogna fare una valutazione e selezionare le cose che hanno funzionato.
D. Secondo l'economista Nicola Rossi negli ultimi anni il Mezzogiorno ha beneficiato di un "fiume" di risorse, ma i soldi sono stati spesi male. Nel Sud esiste un problema di classe dirigente?
R. Certo che esiste. I dati sono inoppugnabili, come dare torto a Nicola Rossi? E pero', sempre nell'ottica di recuperare quanto si e' fatto di positivo, ricordo che le politiche negoziali hanno consentito in alcuni casi una maturazione degli amministratori locali. Penso all'esperienza della Regione nell'attuazione del Por, ad esempio, o agli Uffici provinciali per la gestione dei Patti territoriali. Un'assunzione di responsabilita' c'e' stata, la sperimentazione in questo e' stata utile. Il fatto che si tratti di eccezioni, pero', un problema lo pone, quanto meno in termini di una necessaria valutazione dei risultati raggiunti.
D. Il controllo spetta al Governo centrale?
R. Non si puo' prescindere dalla cooperazione tra le istituzioni locali e quelle centrali nella regolazione dei percorsi di sviluppo. Ma non ci illudiamo: non si possono controllare da lontano cose che non si vedono. Il problema della formazione di una nuova classe dirigente meridionale non puo' essere certo bypassato. Ed e' un processo complessivo che riguarda non solo gli amministratori, ma anche gli imprenditori.
D. A proposito di imprenditori: gli ultimi dati della Banca d'Italia e dell'Istat per la regione sono molto negativi: l'occupazione e' in calo, il Pil in forte frenata. E l'industria e' in crisi. La Campania e il Sud devono rassegnarsi a vivere di solo terziario?
R. Le cose non stanno andando bene, ma in Campania e nel Sud non ci si puo' rassegnare, anzi: la politica industriale va rilanciata a patto che sia selettiva.
D. Bisogna puntare solo su alcuni settori, allora?
R. Non c'e' dubbio che ci sono comparti che vanno meglio, come aerospazio e automotive, sui quali bisogna scommettere. Ma, parallelamente, vanno sostenuti i settori "maturi" non vanno abbandonati; l'abbigliamento e il calzaturiero, ad esempio, non vanno assistiti, ma tutelati. Molti indicano nel "nanismo" il maggior limite delle nostre imprese: allora proviamo a fare del "piccolo" qualcosa di grande, ad esempio incentivando i consorzi. Senza dimenticare il sommerso, che resta un'emergenza.
D. I primi passi del nuovo Governo non sembrano promettenti per il Sud: il ministro Bersani parla di "questrione settentrionale" e promette mari e monti agli imprenditori lombardi; intanto la delega per il Mezzogiorno non e' stata ancora assegnata...
R. Sara' dura affermare le ragioni del Sud. Dalle urne e' uscito un Paese diviso. Il Nord, in maggioranza, ha votato per la Cdl ed e' chiaro che il Centrosinistra tentera' in ogni modo di recuperare consensi nell'Italia settentrionale. Questa puo' essere una minaccia per il Mezzogiorno.

denaro.it
23-06-2006


Il libro: Paola De Vivo, della Fabbrica del programma, pubblica "Ricominciare: il Mezzogiorno, le politiche, lo sviluppo"
La sociologa di Prodi contro l'eterno ritorno del centralismo
di Angelo Agrippa

Al di la' dell'esito non proprio incoraggiante conseguito dalle politiche negoziali per lo sviluppo delle aree meridionali, lo sforzo culturale esperito negli ultimi anni ha pur sempre prodotto segni positivi, tra i quali va annoverato il recupero del senso di una condivisione delle regole, in particolare sul versante socio-istituzionale. Da qui, la sollecitazione a non abbandonare del tutto la strada percorsa, pur con risultati poco soddisfacenti sotto il profilo economico, e in particolare a non lasciarsi prendere dalla "suggestione dirigista e centralizzata dell'intervento pubblico" al Sud. Qualcosa che sarebbe "un guardare indietro piuttosto che in avanti".
E' questo uno dei principali aspetti che animano la tesi di Paola De Vivo, docente di Azione pubblica e sviluppo economico alla Federico II di Napoli e componente di punta della Fabbrica del programma di Prodi, in "Ricominciare: il Mezzogiorno, le politiche, lo sviluppo" (Franco Angeli editore). La De Vivo respinge la "tentazione di semplificare e di ricominciare dall'alto" seguendo il gioco inutile dell'eterno ritorno, quale la cattiva abitudine di interrompere ogni nuovo sforzo di attenzione, prima ancora che se ne manifestino gli effetti: "Continuare - afferma la sociologa - a generare delle fratture nell'impostazione dell'azione pubblica di sostegno alle aree meridionali puo' divenire piu' deleterio che non agire sulle continuita' di percorso". Dove, quindi, intervenire?
Secondo la De Vivo non si puo' prescindere dalla cooperazione tra istituzioni locali e centrali. E prima di guardare a cosa accadra' nel bacino del Mediterraneo, sarebbe opportuno rendersi consapevoli dell'importanza "della partecipazione al progetto europeo" che non vuol dire solo ripartizione delle risorse e realizzazione di infrastrutture, ma "processo di consolidamento di regole condivise e rispettate capaci di accompagnare lo sviluppo dei territori". Insomma, un orientamento che, come gia' emerso in un dibattito a Napoli, si contrappone in alcuni punti alla tesi dell'economista Nicola Rossi, secondo cui resta impossibile un recupero delle politiche locali cosi' come conosciute finora. La presentazione del libro della De Vivo avverra' venerdi' 23 giugno alle 10 presso il palazzo del Mediterraneo di via nuova Marina, 59, a Napoli, con Paolo Frascani, Adriano Giannola, Antonio Lopes, Enrico Melchionda, Isaia Sales e Raffaele Sibilio.

Corriere del Mezzogiorno
lunedi' 19 giugno 2006

19.6.06

Spostato il ricevimento di mercoledi' 21 giugno

Si terra' invece VENERDI' 23, dalle 14 alle 15.

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15.6.06

Relazione di Walter Tocci al Forum dei DS


... e quindi uscimmo a riveder le stelle

i primi passi del governo su ricerca e universita'

relazione di Walter Tocci al Forum dei DS - Roma 12-6-2006




Fabio Mussi ha avuto un inizio entusiasmante e siamo qui per domandarci come possiamo aiutarlo a mantenere tale ritmo.
L'Italia e' tornata in Europa. E' finita l'autarchia. Non guarderemo piu' con diffidenza il Consiglio Europeo delle Ricerche, ma lavoreremo per il suo decollo. Siamo tornati nell'alveo naturale, non a caso fu un grande italiano, Antonio Ruberti, a parlare per primo di spazio europeo della ricerca.
In tutti i grandi progetti europei torneremo a svolgere un ruolo positivo. Ci tocca la prossima presidenza di Eureka e possiamo farne l'occasione per presentare la nuova Italia.
Molte opportunita' si aprono nel settore spaziale con ampie ricadute in diversi campi: la missione Aurora per l'esplorazione dell'universo, l'osservazione della Terra e il nuovo sistema di comunicazioni Galileo.
L'industria spaziale italiana e' stata svenduta al governo francese che ora la controlla tramite Thales. Si puo' uscire solo in avanti da questa sudditanza, favorendo la nascita di un grande raggruppamento, una sorta di Airbus per lo spazio. E' meglio essere minoranza in un gruppo europeo piuttosto che in un'azienda solo francese.
Si dovra' rilanciare la politica delle infrastrutture di ricerca, dai sincrotroni alle biblioteche digitali, alle reti di calcolo. Una buona infrastruttura, infatti, premia i migliori ricercatori e favorisce gli scambi internazionali.
Proporremo agli altri paesi di integrare sempre meglio gli enti di ricerca: non puo' che fare bene ai nostri CNR e ENEA gestire programmi comuni con il Max Planck e il Fraunhofer, il CNRS francese e la nuova agenzia di Beffa ecc..
C'e' insomma l'esigenza di una forte politica estera per la ricerca. Si difende meglio l'interesse nazionale quanto piu' e' forte il peso italiano nelle scelte europee.
Dobbiamo pero' preparare le strutture nazionali alle sfide nuove.
Bisogna unire le forze, mettere in rete le cose migliori che abbiamo, superare gli assurdi steccati tra enti di ricerca e universita'. Questo e' il motivo del successo della fisica, prima con Infn e poi con Infm, il quale anche per questo va immediatamente ricostituito.

Sono molte le cose da fare. Essere partiti bene ci aiuta. Tuttavia, l'entusiasmo dell'inizio si scontra con la pesante eredita'. Per ricostruire ci sara' bisogno di risorse e i margini si devono trovare. Berlusconi per abbassare le tasse ai ricchi ha speso 6 miliardi, cioe' quanto si spende per la ricerca pubblica in un solo anno. Se da quello sperpero recupereremo un miliardo l'anno, alla fine della legislatura avremo quasi raddoppiato l'investimento e raggiunto l'obiettivo di Lisbona.
Ma non possiamo aspettare la prossima finanziaria; nel frattempo dobbiamo agire sulla spesa esistente. Non e' facile, ma si puo' fare, a mio avviso.

Cominciamo col dare buone notizie agli studenti lanciando un grande programma per le residenze universitarie per consentire ai giovani meno abbienti di scegliere l'ateneo anche lontano dalla propria citta'. I soldi ci sono, circa 200 milioni di euro, li stanzio' il governo Amato e in cinque anni non sono stati capaci di spenderli tutti.
Ci sono anche i soldi non impegnati per le borse di studio; con un'integrazione saremo in grado di raggiungere l'obiettivo storico di dare una risposta a tutti gli aventi diritto. Anzi, diciamolo meglio alla vigilia del referendum: vogliamo attuare l'art. 34 della bella Costituzione repubblicana: "i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi piu' alti degli studi".

E poi che ne facciamo delle clientele morattiane? Mussi ha dato un segnale chiaro con la revoca dell'universita' di Reggio Calabria e lo stop alle lauree privilegiate. Ma ce ne sono tante altre: il S. Pio V, l'universita' di Pera, la prebenda per l'ex rettore di Pavia, il finanziamento incredibile ad un dipartimento di Caserta, le commissioni dei bandi di ricerca che hanno distribuito i fondi ai propri membri, ecc. La regola del ministero era molto semplice: chi sostiene il governo ottiene un premio. Ma gli elettori non hanno premiato la regola.
Sarebbe faticoso e inutile mettersi a discutere caso per caso. Dobbiamo inventarci una sorta di moratoria delle malefatte. Quel demonio di Tremonti escogito' il taglia spese e non dobbiamo buttare via tutto cio' che hanno fatto loro; potremmo usare una norma simile per sospendere l'erogazione dei finanziamenti ad personam fino a quando non verranno sottoposti alla valutazione del CIVR.
E non si tratta di piccole somme. Sono costosi i sedicenti centri di eccellenza, che di eccellente hanno avuto la capacita' di evitare qualsiasi bando o valutazione. Nell'ultima finanziaria hanno istituito ben due agenzie con tanti soldi e nessun programma chiaro di ricerca. E poi c'e' l'IIT che ha distribuito fondi in modo discrezionale, senza le normali procedure competitive che si usano a livello internazionale per finanziarie la ricerca. E pensare che doveva essere il Mit italiano. Purtroppo e' molto italiano e poco Mit. Riguardo ai suoi contenuti, quasi un miliardo di euro in dieci anni sono destinati alla robotica umanoide, settore certo importante, ma forse e' spropositato spendervi la stessa somma assegnata all'intera ricerca fondamentale dei bandi Firb e Prin. Sono risorse che, almeno in parte, vanno restituite ai migliori laboratori italiani mediante bandi pubblici.

C'e' poi la norma che ha detassato i brevetti. Quell'intelligentone di Scajola non sapeva che a pagare gran parte del tributo non sono le piccole imprese, ma le multinazionali, le quali risparmiano in tal modo decine di milioni di euro e fanno pagare tante licenze alle imprese italiane. e' un formidabile incentivo statale per le imprese straniere, infatti nessun altro governo al mondo ha avuto un'idea tanto autolesionista. Si deve ripristinare immediatamente il tributo.
Infine, ci sono centinaia di milioni non spesi dall'Asi. Ci sono i capitoli particolari del Fondo per l'universita' che vengono gestiti senza bandi, dai consorzi universitari alle scuole di dottorato.

In queste pieghe di bilancio si possono trovare i soldi per fare la cosa piu' importante: riaprire ai giovani le porte della ricerca e dell'universita'. Rispetteremo l'impegno di un programma straordinario di assunzioni di giovani ricercatori e professori, scelti sulla base dei meriti. E dovranno costare molto meno le assunzioni nelle universita', negli enti e nelle imprese, introducendo una forte selettivita' nella riduzione del cuneo fiscale.

Dobbiamo spiantare le malefatte come la gramigna. La soluzione strutturale e' la valutazione. Questa e' la vera svolta. Abbiamo proposto una struttura qualificata e indipendente che se ne occupi. Non ci perdiamo nella querelle nominalistica se debba essere agenzia o autorita', gia' vedo un dibattito di anni su tale problema. Chiamiamola pure Genoveffa purche' sia davvero libera e non condizionabile, ne' dai professori universitari, ne' dalla burocrazia ministeriale. Se infatti il gioco si fa duro, fino al punto di legare la valutazione e l'erogazione di una quota dei finanziamenti, allora l'arbitro deve essere credibile e autorevole. Sappiamo quanto sia ostica la questione arbitri per noi italiani, il famoso De Santis non a caso dipendeva dalla Figc, cioe' dalle squadre che doveva valutare.

Ci sono ottime universita' e centri di ricerca nel Mezzogiorno, ma non c'e' dubbio che, operando in un contesto molto difficile, potrebbero essere penalizzate in un confronto veramente competitivo. Si rischia di amplificare l'esodo gia' in atto dei giovani piu' brillanti, sarebbe un colpo mortale per il futuro di quelle regioni.
Cio' non deve pero' portarci a negare la valutazione o peggio ancora a piegarne le regole per ottenere le compensazioni, minandone cosi' la credibilita'. Occorre una soluzione trasparente che distingua due canali di finanziamento: da un lato le risorse assegnate secondo un confronto competitivo senza rete e dall'altro un fondo mirato allo sviluppo del sistema ricerca e universita' del Mezzogiorno, senza assistenzialismi e con serie verifiche dei risultati, ma anche come grande occasione per compiere nell'epoca della conoscenza quel salto della rana che il Sud non ha potuto realizzare nella fase industriale.

Si puo' fare qualcosa gia' prima della legge. Il metodo Civr si e' rivelato buono e con alcune messe a punto puo' essere esteso da subito agli anni successivi, al triennio 2004-6 e poi dal 2007 per ogni annualita'. L'animo umano e' lento a cambiare i comportamenti, ma se l'annuncio e' forte e chiaro si possono ottenere immediati effetti positivi. Basta proclamare solennemente e formalizzare in atti pubblici che quote rilevanti dei fondi per tutta la legislatura saranno determinate dai risultati prima del CIVR e poi dell'autorita' o agenzia. L'annuncio rimbombera' in qualche riunione di dipartimento dove si discute del portaborse del professore. Il pericolo serio di perdere risorse introdurra' un principio di responsabilita', aprira' un conflitto interno tra innovatori e conservatori, impedira' quella mediazione a ribasso che spesso condiziona la vita accademica.

Per essere ancora piu' credibili nella valutazione bisognera' rimuovere la casta dei mandarini della ricerca che da decenni organizzano le cordate, distribuiscono le prebende, trasformano miracolosamente i propri insuccessi in avanzamenti carriera. Chi sono?
Sono quelli che al ministero hanno nominato le commissioni Prin secondo i vecchi metodi spartitori. I mandarini sono al comando del Cnr, dove hanno sempre impedito la valutazione scientifica degli istituti, preferendo aumentare la burocrazia. C'e' voluto un articolo di Nature per far sapere al mondo quanto valgono i titoli scientifici del presidente. Analoga e' la situazione di Vetrella, la cui inadeguatezza allieta con una nota di umorismo le riunioni europee dell'Esa.

Non vogliamo ricorrere allo spoil-system, non abbiamo candidati di partito da nominare, anzi vogliamo restituire alla comunita' scientifica la liberta' di scegliere i presidenti degli enti, mediante l'elezione diretta o l'indicazione di un comitato di saggi. E questo metodo deve riguardare anche i dipartimenti del Cnr per cambiarne la natura, non piu' una struttura per portare ordini, ma una sede di coordinamento degli istituti.

Non c'e' piu' il governo che guardava in cagnesco gli scienziati. Noi abbiamo fiducia nella ricerca italiana e anzi la consideriamo la risorsa piu' preziosa del Paese. Per metterla in condizione di esprimere il suo valore ci vogliono piu' risorse e meno burocrazia. C'e' una grande stanchezza per la proliferazione legislativa dell'ultimo decennio. Non servono nuove norme, bisogna solo cancellare tante leggi inutili. Ci vuole un vero e proprio disarmo normativo negli Enti di ricerca. Non c'e' alcun bisogno di stabilire con una legge come si organizza il Cnr, l'Inaf o l'Enea. E' giunto il momento di riconoscere la piena autonomia statutaria agli enti, come gia' accade per le universita'. Questo e' il programma che al Forum di Pisa riassumemmo col le parole magiche delle lezioni calviniane: Leggerezza, per dire meno burocrazia; Esattezza, per sancire il primato della valutazione; Molteplicita', per ribadire il valore della liberta' della ricerca. A Pisa facemmo un gioco, promettendo di regalare al nuovo ministro le Lezioni americane di Italo Calvino come sintesi delle cose da fare per la ricerca. Ecco, manteniamo l'impegno e a nome di tutti voi, regalo oggi a Fabio Mussi una copia di questo capolavoro della letteratura italiana.

Per l'Enea e l'Asi ci vuole qualcosa in piu', non basta l'autonomia statutaria, il rilancio puo' avvenire solo all'interno di politiche industriali chiare e ben coordinate tra diversi ministeri. Servono strategie per sostenere la domanda di innovazione, mettere in rete i centri di ricerca, aiutare il trasferimento tecnologico, agevolare la creazione di imprese innovative, favorire i contratti di ricerca tra enti e universita' e imprese mediante la defiscalizzazione. Tali politiche industriali devono riguardare certamente i settori dell'energia, dell'aerospazio e anche quello della produzione del software, dove ancora non e' perso il treno e anzi possiamo trascinare una domanda innovativa tramite la modernizzazione dei servizi pubblici. Abbiamo una formazione eccellente, con Mussi, Nicolais e Bersani, ed e' un'occasione da non perdere per realizzare quel lavoro di squadra che non c'e' mai stato in questi settori ad alta tecnologia.

Il disarmo normativo vale anche per i concorsi universitari. Abbiamo avuto il modello di Berlinguer e poi quello della Moratti. Faremo una terza legge sui concorsi? E improbabile che riesca la sequenza: liscia, gassata, ferrarelle.
C'e' qualcuno in questa sala capace di scrivere una legge miracolosa che elimini con certezza le baronie e il clientelismo? Se c'e' si faccia avanti. Io non ci credo. Per un'intera legislatura ci siamo occupati dello stato giuridico dei docenti. Mentre discutevo in Parlamento, in un duro scontro con il governo, avevo un dubbio e non avevo il coraggio di dirlo, ma ora che la battaglia e' finita posso essere sincero con voi. Solo in un paese di Azzeccagarbugli ci si puo' appassionare per lo stato giuridico. Sono norme inutili, possiamo cancellare la legge Moratti, l'universita' vivra' meglio.

Pur con la necessaria gradualita', basta dire una cosa semplice: il professore universitario e' una figura pubblica alle dipendenze della sua universita'. Il singolo ateneo stabilisce le modalita' del lavoro, gestisce la carriera e sceglie i nuovi professori. D'altronde che senso ha l'autonomia se non puo' gestire la risorsa umana che e' anche la misura fondamentale della qualita' e del profilo scientifico.
Gli scatti di anzianita' automatici non vanno bene: sono bassi per i bravi professori che meriterebbero un monumento, ma sono certamente abbondanti per quelli che non mettono piede all'universita'. Affidiamo all'autonomia la gestione di questa massa salariale. Gli atenei saranno liberi di continuare a distribuire automaticamente gli scatti oppure di attribuirli secondo lo sviluppo di vere carriere dei professori, basate sul merito e l'impegno.

Qui e' la vera discontinuita' con la Moratti, la quale voleva aumentare l'incertezza delle figure gia' deboli, i giovani nell'accesso, mentre rafforzava le prerogative delle baronie. Da un lato giovani che fanno ricerca per poche centinaia di euro, senza alcuna prospettiva di vedere riconosciuti i propri meriti, e dall'altra professori che ottengono riconoscimenti anche quando non li meritano. Da una parte i servi della gleba della conoscenza e dall'altra i garantiti per diritto di casta. L'eccesso di incertezza e l'eccesso di garanzia nella stessa istituzione e' lacerante. Questa frattura ha bloccato il ricambio generazionale. Questa frattura mina la creativita' dei saperi, disperde la ricerca e abbassa la qualita' della didattica. Si deve fare esattamente il contrario, dare piu' certezze ai giovani di talento e maggiore flessibilita' ai professori secondo il merito e l'impegno. Cio' non si puo' fare dall'alto, con un nuovo centralismo, ecco l'altra differenza con il precedente governo, ma si deve realizzare nella direzione opposta.
In regime di autonomia la bonta' di una legge statale consiste nel lasciare libero un ateneo anche di farsi del male, purche' esistano strumenti che poi ne facciano pagare le conseguenze. Dovremmo, invece, diffidare delle leggi che promettono la virtu'; finora sono servite solo ad affinare la furbizia di chi riesce ad aggirarle.

Quando si volta pagina, pero', si devono chiudere i conti con il passato. E' giunto il momento di porre fine a quella grande ipocrisia per cui 20 mila ricercatori universitari fanno gia' i professori ma non si puo' dire. Senza di loro la didattica universitaria sarebbe gia' crollata ed e' ora che si riconosca il ruolo prezioso che stanno svolgendo.

Dobbiamo salvare la riforma della didattica ripensandola sulla base dell'esperienza. Ci vuole una sorta di libro bianco per analizzare che cosa e' successo veramente e su questo si deve svolgere una consultazione in tutti gli atenei per decidere insieme che cosa bisogna cambiare nelle norme e nei modi di attuazione.

L'universita' italiana si deve sbloccare, da tanto tempo e' chiusa in un bozzolo. Le sue migliori risorse sono tenute in scacco dai suoi peggiori difetti. Spezzare questa commistione tra vizi e virtu' e' l'unico modo per liberare le sue energie, come in una fissione nucleare.
Non e' il momento dei pannicelli caldi. Abbiamo una grande ambizione. L'universita' deve diventare la migliore istituzione di questo Paese, la forza propulsiva dell'Italia di domani, la leva per una nuova mobilita' sociale, la rete lunga della conoscenza per aprirsi al nuovo mondo, la carta non ancora giocata per uscire dal declino che e' culturale prima che economico.
Ecco la responsabilita' e l'occasione che abbiamo davanti.

Noi non siamo al governo per caso e non passeremo invano. La spinta dei ricercatori, degli studenti e degli insegnanti e' stata decisiva per battere la destra. Cio' ha determinato grandi aspettative e messo in movimento tante disponibilita' all'impegno.
Il verso dantesco - ... e quindi uscimmo a riveder le stelle - esprime il nostro stato d'animo.
Non possiamo permetterci di sbagliare.
A noi che siamo nei palazzi del Governo e del Parlamento spetta il compito di corrispondere alle aspettative. Ma non possiamo e non dobbiamo fare da soli.
Le riforme non sono editti, sono decisioni volte ad aiutare i riformatori che stanno gia' cambiando le cose. Voi siete una delegazione rappresentativa di questi riformatori e qui alla presidenza c'e' un'ottima squadra di governo.
Non perdiamoci di vista.

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14.6.06

Intervista a Andrew Ross: Per conoscenza, dai campus alle officine. (Universita' americana e knowledge workers)

il manifesto, 13 Giugno 2006

L'ethos dell'autonomia accademica serve alle universita' per garantirsi l'accesso all'intelletto comune e poi trasformarlo in business
Intervista. Le universita' statunitensi brevettano i risultati delle ricerche e vendono sapere al mercato della formazione a distanza. Parla lo studioso Andrew Ross I lavoratori della conoscenza sono molto infedeli e insensibili alle richieste di sacrifici del management. Lo sono nelle societa' high-tech, ma anche nei laboratori disseminati nelle regioni speciali della Cina

Gigi Roggiero

Quando, la mattina dell'11 settembre, due aerei si sono schiantati sulle Twin Towers, a qualche isolato di distanza i lavoratori della Razorfish aspettavano da tempo un crollo. Non quello delle mitiche torri, ma della loro azienda - sopravvissuta al tracollo dell'indice Nasdaq - e con essa delle loro aspettative di auto-imprenditoria e felicita' con il lavoro. Sotto i loro piedi si e' spalancato il ground zero della precarieta'. Quelli della Razorfish sono tra i knowledge workers intervistati da Andrew Ross nel volume No-Collar: "Sognando un'attivita' all'altezza dei loro desideri, estro e capacita', hanno ben presto dovuto fare i conti - si puo' leggere nel volume - con 'l'industrializzazione della Bohemia'".
Studioso eterodosso, Andrew Ross ha pubblicato molti saggi e ricerca al fenomeno della cosiddetta "societa' della conoscenza" che hanno avuto una esemplificazione nella ricerca lavoratori della new economy nella Silicon Alley - il distretto tecnologico di New York - pubblicata proprio in No-Collar. The Humane Workplace and Its Hidden Costs (Basic Books, New York). Ma quella raccontata in questo libro non e' una storia americana, bensi' globale, come Ross dimostra nella ricerca sull'outsourcing e i lavoratori della conoscenza in Cina, raccolta in Fast Boat to China: Corporate Flight and the Consequences of Free Trade; Lessons from Shanghai (Pantheon Books, New York). La tesi di fondo di Ross e' che la precarieta' nella knowledge society puo' essere interpretata come la risposta capitalistica alla fuga dal lavoro salariato, al desiderio di autonomia e creativita', alle lotte e alle pratiche del lavoro vivo degli ultimi decenni. Una tesi stridente con quanto sentenzia invece la cultura accademica dominante. Infatti, se si scorrono gli elenchi dei titoli di libri statunitensi dedicati ai "lavoratori della conoscenza" si rimane stupiti in primo luogo per il loro numero e per l'enfasi che viene posta sulle possibilita' liberatorie dei "lavori della conoscenza".
L'universita' e' per certi versi paradigmatica nell'analisi della messa al lavoro dei saperi e della crescente porosita' dei confini tra vita e lavoro. L'intervista con Andrew Ross Ross non puo' allora che cominciare da qui.

Da alcuni anni anche negli Stati Uniti si parla sempre piu' frequentemente della perdita di autonomia delle universita' nei confronti delle imprese. Eppure, in Europa e' luogo comune sullo stretto legame tra finanziamenti privati e sistema universitario...

Per indagare le trasformazioni del sistema accademico bisogna risalire al "Bay-Dohle Act" del 1980, che ha rafforzato il legame tra universita' e industrie consolidando il ruolo della proprieta' intellettuale. Con l'obiettivo di promuovere l'innovazione delle imprese americane nell'accresciuta competizione internazionale, la continua diminuzione dei fondi pubblici ha comportato una progressiva trasformazione delle universita' scientifiche ma anche per le humanities in vere e proprie imprese con la conseguente e crescente dipendenza dalla partnership con le industrie. Le cosiddette scienze applicate puntano infatti sempre piu' al trasferimento di tecnologia perche' i fondi sono legati agli investimenti in start-up e alla proprieta' intellettuale. Per esempio, le universita' americane possiedono la maggior parte dei brevetti sulle sequenze del Dna, mentre gli scienziati spesso siedono nei consigli di amministrazione delle corporation. Le istituzioni non-profit sono cosi' diventate for-profit e la ricerca universitaria un appendice dell'industria privata. Al contempo, c'e' stata una "mercatizzazione" delle politiche di assunzione, una centralizzazione del potere nelle mani dell'amministrazione, l'erosione nella governance accademica del ruolo dei docenti, che hanno assunto un profilo da stakeholder, diventando piu' "inquilini" che "proprietari" dell'universita'.
Il lavoro accademico e' tuttavia caratterizzato da una tensione che e' al cuore del capitalismo della conoscenza. L'universita' sempre trasmette conoscenza al mercato, ma deve al contempo mantenere la funzione di "garante della verita'". Senza i beni comuni del sapere e della informazione da utilizzare liberamente, il knowledge capitalism perderebbe i suoi principali mezzi di lungo termine per ridurre i costi di transazione. Se tutta la conoscenza fosse privatizzata, dal canto loro i docenti-imprenditori perderebbero autonomia e status di proprietari del sapere. Quindi, il tradizionale ethos accademico della ricerca disinteressata serve non solo a preservare il prestigio simbolico dell'istituzione, ma anche a salvaguardare le risorse disponibili in quanto liberi input economici, cosi' come le industrie manifatturiere, estrattive e biomediche dipendono dalle comuni risorse ecologiche.
La precarizzazione della forza-lavoro accademica e' cresciuta in sintonia con il trend generale e con il processo di aziendalizzazione dell'universita'. Alla New York University abbiamo una declinazione particolare di questo processo: l'universita' e' molto imprenditoriale, strategicamente collocata nella zona centrale di una metropoli globale e ha campus in giro per il mondo, emulando le corporation nei modelli di outsourcing. La nascita di un movimento sindacale tra i graduate students nel settore privato e' dovuta sopratutto alla crescente percezione di un'attivita' precaria come quella dei graduates, che svolgono gran parte del "lavoro" universiatario di base, dagli esami al tutor, e, come dite voi in Italia, dalla perdita di valore del titolo di studio per cui il Ph.D. e' probabilmente il punto finale e non l'inizio della carriera. Il tentativo della New York University - sostenuto da ex membri dell'amministrazione Clinton - di schiacciare il sindacato Gsoc nato nel campus rappresenta un punto di svolta nella corporate university.
L'attenzione dei media nei confronti delle mobilitazioni in corso dei graduates dipende dal fatto che New York e' una union town. Inoltre lo "United Auto Workers" (di cui fa parte il Gscoc) e' uno dei sindacati piu' potenti, con un miliardo di dollari di fondi per gli scioperi.

L'amministrazione della New York University rifiuta di riconoscere i graduates come lavoratori anche nel nome della liberta' accademica e intellettuale, ambiguo mito liberal...

Ufficialmente il consiglio di amministrazione afferma, con scarso successo, che il sindacato sta mettendo in discussione il privilegio dell'amministrazione nella governance degli affari accademici. La questione della liberta' accademica e' piu' interessante, perche' e' un culto liberal, basti pensare al fatto che il sostegno alla mobilitazione di alcuni docenti e' venuto meno perche' hanno creduto che appoggiando i graduates significasse comprometterla.

Le mobilitazioni alla New York University sono state definite come rivendicazioni "bread-and-butter", per il pane e il burro. Non credi che corrano pero' il rischio di eludere questioni politicamente centrali come la critica dei saperi, i modelli formativi o la proprieta' intellettuale...

Sono d'accordo, un sindacato deve avere un ruolo intellettualmente attivo nella societa'. Il social unionism degli anni '30 aveva ampi scopi politici ed e' stato sradicato dal business unionism, che e' il patto tra capitale e lavoro, ancora vigente oggi. L'attivita' sindacale e' stata ridotta alle rivendicazioni su salari e orari. Purtroppo l'eredita' della "rivolta contro il lavoro" degli anni '70 e' molto debole: in una societa' dove le 12 ore di lavoro al giorno stanno tornando alla ribalta e la precarizzazione cresce velocemente, c'e' ancora la nostalgica utopia di un impiego sicuro. Inoltre, l'etica del lavoro americana rende difficile sganciare il reddito dal lavoro, si pensi alle politiche di workfare.

Lei ha spesso evidenziato il rischio di un'eccessiva generalizzazione della categoria di knowledge workers. Assumendola con cautela, ci sono particolari forme di lotta e resistenza dei lavoratori della conoscenza?

Nella ricerca etnografica sui knowledge workers in Cina noto che non sono molto differenti da quelli che ho intervistato in No-Collar. Hanno la stessa mentalita' in tutto il mondo, e la maggior parte sono guidati da interessi individuali. Si puo' trovare la resistenza ovunque se la si cerca, ma temo non nelle forme che alcuni teorici italiani sperano.

Quegli stessi interessi individuali, tuttavia, fanno parte della costituzione materiale della soggettivita' del lavoro vivo contemporaneo, con le sue ambivalenze e contraddizioni. Quali possono essere allora nuove forme di conflitto?

Non sono pensabili in una prospettiva limitata al posto di lavoro, come dimostrano i movimenti per un'altra globalizzazione. Gli attivisti hanno spesso relazioni con l'industria della conoscenza, ma e' difficile dire cio' che e' tempo di lavoro o tempo libero. Ovunque si spende sempre piu' tempo con e-mail o blog, molta dell'attivita' politica e' fatta da persone con alte capacita', che allungano la giornata lavorativa per includervi qualcosa di significativo. Ma non lo fanno in quanto knowledge workers, bensi' come lavoratori con accesso alle tecnologie e il tempo per l'attivita' organizzativa.

Nel suo ultimo libro scrive che la mobilita' globale goduta dal capitale sta creando, come in uno specchio, una forza-lavoro che rimane fedele alle imprese. Flessibilita', mobilita' e infedelta' possono dunque rovesciarsi, diventando risorse del lavoro vivo contro il capitale?

Spesso tendiamo a dimenticare che ai padroni piace un alto livello di fedelta' dei lavoratori. Una forza-lavoro intermittente puo' essere utile ad alcuni investitori fly-by-night, ma e' un tormento per la maggior parte dei padroni che la vogliono stabile nei loro termini. In Cina ho trovato questa sorta di slealta' ovunque: nessuno si aspetta che l'attuale padrone lo sia per tempi lunghi, i lavoratori hanno visto multinazionali andare e venire e stanno semplicemente contraccambiando. Questa slealta' e' l'altra faccia del lavoro precario: non e' certo la flessibilita' che i manager vorrebbero vedere. Si prenda la Coppa del Mondo: per un mese centinaia di milioni di lavoratori non si faranno vedere al lavoro, e' una situazione che i padroni sono costretti ad accettare. Questo trasferimento di lealta' dalle imprese alle nazionali di calcio o al "bel gioco" e' diventata una rivendicazione legittima. Mi ricorda la tradizione del "Santo Lunedi'" del XIX secolo, quando i lavoratori industriali hanno continuato ad affermare il diritto pre-industriale ad assentarsi i lunedi' (e molti anche i venerdi'), nella secolare emulazione delle feste religiose.

Nel venir meno dei confini tra lavoro e vita extralavorativa qual e' l'impatto delle nuove tecnologie sul sistema universitario?

L'alta tecnologia ha avuto piu' impatto nei posti di lavoro aziendali che nelle accademie, dove i confini sono sempre stati indistinti e la maggior parte dei docenti e dei ricercatori non sa quando e' al lavoro oppure no: se guardi la televisione, ad esempio, analizzi e produci ricerca. e' un doppio processo: il termine corporate university descrive esclusivamente l'assorbimento dell'universita' nella cultura di impresa, senza cogliere quanto la mentalita' del lavoro accademico si stia travasando e stia diventando prevalente nel lavoro aziendale. Intorno al 2000 le universita' sono entrate nel business della formazione a distanza, perdendo molti soldi. Contemporaneamente c'e' stata la crescita delle universita' for-profit, in cui le tecnologie sono molto sfruttate e che usano esclusivamente lavoro precario. I docenti full-time di altre universita' non hanno preso parola per criticare la crescita di questo settore perche' in generale pensano solo al loro interesse, hanno una mentalita' corporativa.


SCHEDA
Un ricercatore in campo
Da Silicon Alley ai fasti di Shangai
Andrew Ross e' docente di American Studies alla New York University. Attivista politico, collabora con la rivista Social Text ed e' tra i promotori di Faculty Democracy, organizzazione con 230 membri che sostiene le mobilitazioni dei graduate students alla New York Univeristy (http://facultydemocracy.org/). (Dello sciopero in questo campus abbiamo parlato su queste pagine lo scorso 2 giugno). Tra i suoi lavori su universita', precarizzazione del lavoro e lotte, meritano particolare attenzione i saggi The Mental Labor Problem nel suo Low Pay, High Profile: The Global Push for Fair Labor (New Press, New York, 2004) e The Labor Behind the Cult of Work nel testo curato da Cary Nelson Will Teach For Food. Academic Labor in Crisis (University of Minnesota Press, Minneapolis, 1997).
Teorico eclettico, per molti anni ha seguito con attenzione le politiche di decentramento produttivo delle multinazionali nel Sud del mondo. Megli ultimi anni si e' occupato in particolare dei knowledge workers. Note al pubblico americano sono le sue ricerche etnografiche sui lavoratori della new economy nella Silicon Alley - il distretto tecnologico di New York - pubblicate in No-Collar. The Humane Workplace and Its Hidden Costs (Basic Books, New York, 2003), e in Cina, analizzate nel libro Fast Boat to China: Corporate Flight and the Consequences of Free Trade; Lessons from Shanghai (Pantheon Books, New York, 2006).

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Mussi: "Assumeremo i giovani ricercatori"

il manifesto, 13 Giugno 2006

L'universita' italiana decide il cambio della guardia
Iaia Vantaggiato
Roma

Cambio di guardia all'universita'. A deciderlo - lanciando un piano decennale straordinario di assunzioni per i giovani ricercatori che andranno a sostituire le vecchie leve - e' stato, ieri, il ministro dell'universita' e della ricerca Fabio Mussi. Basta - ha dichiarato intervenendo ad un convegno organizzato dai Ds su "I primi passi del governo Prodi" - con quella condizione di "penoso provincialismo" cui il passato governo di centrodestra ha relegato la ricerca. Un comparto definito dal neoministro - e senza mezzi termini - "agonizzante". C'e' bisogno di misure concrete capaci di recuperare nuove risorse attraverso capitali privati necessari a restituire all'Italia una immagine europea del tutto nuova e in tutto sganciata da quella posizione di "osservata speciale" nella quale sinora, l'Italia, si e' venuta a trovare.
Certo si tratta di una promessa o di quella che altrimenti si definirebbe una dichiarazione d'intenti: i soldi sono pochi e Tommaso Padoa Schioppa non sembra ancora pronto a mollare i cordoni della borsa. Ma Fabio Mussi pare non aver fatto altro nella vita se non che occupare la poltrona del ministero dell'universita': "Nei prossimi dieci anni uscira' dagli atenei il 47% dei docenti che vanno rimpiazzati dai piu' giovani anche se non voglio fare promesse per accontentare qualcuno".
Il punto e' - ammette Mussi - che rispetto a "come, quali e quanti ricercatori saranno assunti, cio' dipendera' anche dalle risorse disponibili". Private per lo piu' ma non solo. Tre i fronti sui quali il ministro intende agire: capitalizzazione, investimenti e flussi di cassa. Un lessico ostico ed inusuale al quale pero' il nuovo ministero non intende rinunciare in questo affiancato dai ministri dello sviluppo economico e dell'innovazione tecnologica, Bersani e Nicolais: "E' allo studio - dichiarano all'unisono - un intervento sul mercato dei capitali e sul sistema fiscale, la cui quantificazione sara' definita in accordo con il ministero dell'economia".
E a poche ore dal primo incontro che la nazionale italiana si prepara ad affrontare col Ghana, Mussi non si tiene e - preannunciando un incontro con gli esponenti di Confindustria - dichiara: "Mi chiedo se la grande passione che gli imprenditori dimostrano per banche e squadre di calcio possa essere convertita in passione per lo sviluppo della ricerca nel nostro paese". Dunque l'ultima stoccata, quella "di sinistra", destinata agli enti di ricerca il cui rilancio - assicura Mussi - passa anche attraverso un azzeramento della burocrazia inutile e di una maggiore "democrazia dal basso" quale l'elezione diretta dei presidenti. Questi gli obiettivi. Quanto agli strumenti il ministro non ha dubbi: colpire gli accentramenti di potere anche evitando che una persona possa partecipare a piu' commissioni, fare un bilancio delle riforme gia' introdotte e intervenire per correggere le distorsioni (dal "3+2" ai crediti formativi), introdurre un'Agenzia indipendente per la valutazione del sistema universitario. Dunque una riforma della governance degli atenei e il perseguimento - con maggiore determinazione - degli obiettivi di Lisbona in materia di formazione continua.
"Bloccare la riforma significa uccidere il Consiglio nazionale delle ricerche" ha affermato per tutta risposta un gruppo composto da ricercatori, dirigenti, direttori di Istituto e di Dipartimento del Cnr, preoccupato che "alcune recenti polemiche possano portare a una interruzione del processo di riforma dell'Ente". E intanto, sempre per protestare contro la situazione di "emergenza" del Cnr, il sindacato Flc-Cgil ha promosso una manifestazione nazionale a Roma per il 10 luglio.

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13.6.06

L'accademia che piace a Confindustria

Giovanni Dosi e Mauro Sylos Labini
08-06-2006
(articolo tratto da www.lavoce.info/)

Confindustria e le piu' importanti associazioni degli imprenditori hanno firmato lo scorso 21 marzo un "Documento comune sull'universita'". Il fatto che il mondo produttivo si interessi allo stato di salute del sistema universitario e proponga strategie di riforma e' un dato positivo, soprattutto nel nostro paese dove la spesa delle imprese in ricerca e sviluppo e' circa la meta' della media europea: appena lo 0,43 per cento del Pil rispetto allo 0,95 per cento dell'Unione Europea e in particolare all'1,37 per cento della Germania e all'1,11 per cento della Francia. Anche per questo puo' essere importante evidenziare, insieme agli aspetti positivi, i punti deboli e alcune ingenuita' del documento.

Il meccanismo di finanziamento

Il punto di partenza, assolutamente condivisibile, e' che nessuno sembra essere contento dell'universita' italiana. In particolare, le imprese percepiscono un progressivo deterioramento della qualita' della formazione universitaria.
Il documento propone una strategia di riforme articolata in tre punti principali: (1) la valutazione e il finanziamento delle universita', (2) la riforma del sistema di governo degli atenei e (3) la differenziazione dello spazio terziario dell'istruzione.
Ci concentriamo qui sul primo punto, che oltre a essere il piu' importante, e' quello affrontato con maggiore precisione.
In Italia, circa il 65 per cento delle entrate del sistema universitario e' pubblico, in linea con altri paesi Ocse: in Olanda, per esempio, tale quota e' al 65,7 per cento e nel Regno Unito al 60 per cento. La gran parte e' erogato dal governo centrale attraverso il Fondo finanziamento ordinario. Il meccanismo attraverso il quale il Fondo viene ripartito fra gli atenei, cambiato dalla legge n. 537/1993, prevede una parte assegnata su base storica, e una quota di riequilibrio che sostanzialmente premia gli atenei capaci di attirare piu' studenti e di far laureare un numero maggiore dei propri iscritti. Solo recentemente e' stato proposto di considerare la produzione scientifica, peraltro utilizzando parametri discutibili, fra le determinanti della quota di riequilibrio. Anche se mancano dati precisi, sembra che finora gli unici effetti delle nuove regole siano stati l'aumento delle spese in pubblicita' degli atenei e il progressivo deterioramento degli standard degli insegnamenti. e' quindi condivisibile la considerazione centrale della prima parte del documento: occorre "introdurre con gradualita' metodi di valutazione dei risultati e delle performance, sulla base del principio che i ?finanziamenti premiano i risultati'".

Come valutare le universita'

Per passare da enunciati sui quali e' difficile essere in disaccordo a proposte concrete e' necessario, pero', rispondere ad almeno due domande. Quali sono i risultati da premiare? E, in secondo luogo, a chi deve essere affidata la valutazione?
Le risposte a tali quesiti rappresentano la parte piu' delicata del documento: "La valutazione deve essere affidata a un organismo indipendente, composto da esperti in campo scientifico e tecnologico, provenienti dal mondo accademico e produttivo, italiani e stranieri". Non ci sono dubbi sul fatto che le universita' debbano essere valutate da un organismo non politico composto da scienziati e professori di fama internazionale (molto meglio se stranieri). Non e' chiaro pero' perche' nella maggior parte delle discipline debbano esserci esperti del mondo produttivo. e' difficile infatti che un imprenditore (o un sindacalista) possegga le competenze per valutare la produzione scientifica delle universita'. Chiedere a uno scienziato un parere vincolante sulla qualita' di un prodotto commerciale non e' forse il modo migliore per far aumentare i profitti di un'impresa. Simmetricamente e' almeno altrettanto paradossale chiedere a un imprenditore un giudizio sulla produzione scientifica in biologia molecolare, fisica teorica, per non parlare di filosofia o letteratura. I risultati ottenuti dalla Luiss, universita' vicina a Confindustria, nella valutazione della ricerca, sembrano confermare il nostro scetticismo. L'importante ruolo del mondo produttivo nei paesi nei quali le relazioni fra universita' e impresa funzionano bene non e' quello di far parte di commissioni di valutazione. Potrebbe e dovrebbe essere invece quello di selezionare e assumere i laureati che provengono dalle universita' che offrono una migliore preparazione. In questo gli imprenditori possiedono, o almeno dovrebbero possedere, qualche "vantaggio comparato".
Per quel che riguarda i risultati da premiare, il documento per prima cosa distingue giustamente fra le due funzioni istituzionali dell'universita': "I criteri coi quali valutare l'attivita' di ricerca devono comprendere sia la rilevanza scientifica sia le potenziali ricadute sul sistema socioeconomico (brevetti, licenze, applicazioni pratiche dei risultati)"; "I criteri per la valutazione delle attivita' didattiche devono basarsi su parametri qualitativi e quantitativi che debbono essere resi previamente pubblici (...)".
Il punto che riguarda la didattica e' abbastanza generico da essere incontrovertibile (anche se non e' chiarissimo cosa siano i parametri qualitativi). La parte relativa alla ricerca, invece, puo' risultare fuorviante quando si provano a individuare criteri diversi dall'eccellenza scientifica. e' sicuramente auspicabile infatti che le scoperte scientifiche abbiano delle ricadute sul sistema socioeconomico. Il problema principale e' che la storia della scienza e della tecnologia insegnano che queste ricadute sono molto spesso imprevedibili e si manifestano con grandi ritardi temporali. Oltretutto, persino se si verificano immediatamente, valutarle con parametri oggettivi e' quasi impossibile. Infatti, anche ammesso che sia desiderabile incentivare la ricerca in aree del sapere nelle quali si producono piu' brevetti o prototipi - cosa nella quale crediamo pochissimo -, questi ultimi rappresentano solo una piccolissima parte dell'impatto che le universita' hanno sul sistema produttivo. (1)
Il documento compie un passo ulteriore: gli "atenei e gli enti pubblici di ricerca devono essere valutati sulla base della loro capacita' di collaborare con il sistema produttivo e per le attivita' di trasferimento tecnologico che realizzano". Le perplessita' esposte nel paragrafo precedente si applicano con ancora piu' forza a quest'ultimo punto, che sembra definire un nuovo compito istituzionale delle universita': collaborare con le imprese e trasferire tecnologie. Tali collaborazioni, sicuramente un fattore positivo per lo sviluppo economico, non possono pero' essere oggetto di valutazione. Sarebbe come chiedere alle imprese di non pensare a fare profitti, ma di pubblicare su riviste internazionali di fisica teorica o di matematica.
Il trasferimento tecnologico si realizza se le imprese individuano opportunita' tecnologiche nelle aree del sapere piu' vicine ai loro interessi di ricerca applicata, decidono di finanziare progetti e dottorati di ricerca, e piu' in generale sviluppano capacita' di selezione e assorbimento di dottorati top level. In questo modo, le imprese traggono i principali vantaggi assumendo buoni ricercatori in grado di sviluppare innovazioni di processo e di prodotto profittevoli. Al contrario, universita' incentivate, peraltro con soldi pubblici, a offrire consulenze a basso costo non fanno bene ne' alla ricerca ne' all'impresa.
Ormai c'e' una deriva lamentata anche dalle grandi imprese internazionali: troppa attenzione agli interessi tecnologici di breve periodo del mondo produttivo fa male alle imprese stesse. L'universita' deve fare un altro mestiere. Ma deve farlo bene. E in Italia, finora, non e' stato cosi'.

(1) Mansfield, E. (1995) "Academic Research Underlying Industrial Innovations: Sources, Characteristics, and Financing", The Review of Economics and Statistics, 77(1), 55-65.

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Un'universita' allo stremo

Luigi Guiso
07-06-2006
(articolo tratto da www.lavoce.info)

E' coralmente accettato che l'Universita' italiana e' allo stremo. Al di la' di sporadiche voci a difesa dettate da interessi di bottega, gli osservatori indipendenti - a cominciare dal Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi - concordano sul decadimento della nostra accademia. Nelle graduatorie internazionali non vi e' traccia delle universita' italiane: scomparse. Non ve ne e' alcuna tra le principali dieci al mondo; ma neanche tra le principali dieci in Europa
e' coralmente accettato che l'universita' italiana e' allo stremo. Al di la' di sporadiche voci a sua difesa dettate da interessi di bottega, gli osservatori indipendenti - a cominciare dal Governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi - concordano sul declino della nostra accademia.
Nelle graduatorie internazionali non vi e' traccia delle universita' italiane: scomparse. Non se ne trova alcuna tra le principali dieci al mondo; ma neanche tra le principali dieci in Europa (sette inglesi, due francesi e una svizzera). Se si consulta la classifica di Webometrics oppure quella del Times degli atenei del mondo, dopo innumerevoli bandiere a stelle a strisce, diverse bandiere di sua maesta' britannica, qualche tricolore francese e un certo numero di bandiere tedesche, si scorge una bandierina bianca rossa e verde al centocinquantatreesimo posto. Tiriamo un sospiro di sollievo? Si', ma solo per poco: e' l'Universad Nacional Autonoma de Mexico. La prima italiana, Bologna, appare al centonovantaquattresimo. e' la stessa che nel XIII e XIV secolo era la miglior accademia al mondo e attraeva studenti da tutta Europa, oggi e' ridotta al rango di universita' di provincia.
Alcuni anni fa, durante una visita all'universita' felsinea, mi fu riferito che l'allora rettore stimava il distacco del suo ateneo dalla frontiera della ricerca accademica in 30-50 anni. Significa che la ricerca che oggi produce in media la miglior universita' italiana e' del livello di quella che Harvard - la frontiera odierna - produceva tra il 1950 e il 1970.
e' come se nel 2006 la Fiat fosse solo in grado di progettare e immettere nel mercato l'850 color caffe'latte senza marmitta catalittica o, al meglio, la Fiat 127: gloriose (forse) allora, invendibili oggi. Ma le auto caffe'latte sono finite fuori mercato, i professori no. Non c'e' mercato che li minacci, non c'e' concorrenza che li disciplini. Anzi, controllando gli accessi sono anche in grado di eliminare pericolosi concorrenti, ovvero i ricercatori piu' bravi, come Roberto Perotti ha piu' volte documentato su questo sito.

Una ricetta semplice

Capire le cause del collasso e' utile e molti lo hanno fatto. Ma piu' importante e' dire come rimediare. Un bel rompicapo anche per un ministro di buona volonta' e di talento come l'onorevole Fabio Mussi.
In un articolo sul Sole-24Ore di qualche giorno fa, Luigi Zingales ha proposto di risolvere il problema nell'unico modo possibile: iniettando dosi di concorrenza nel sistema universitario. La proposta di Zingales vuole fornire gli incentivi giusti per accrescere cio' che piu' manca alle nostre universita': la qualita'. Se gli studenti pagano (usando il prestito statale), hanno incentivo a pretendere; poiche' il valore legale e' abolito, cio' che conta e' la reputazione dell'universita' e quindi la sua qualita'. Studenti di miglior talento sono interessati a scegliere le universita' migliori e le universita' hanno incentivo ad attrarli.
Per poterlo fare devono migliorare la qualita', quindi assumere docenti di calibro - anziche' amici, parenti e portaborse - e fornire incentivi giusti a quelli esistenti. L'autonomia contabile e organizzativa e' il corollario: per poter sviluppare la sua politica, ciascuna universita' deve avere liberta' di manovra. Chi abusa di questa liberta' ne paghera' le conseguenze perche' attrarra' meno studenti e di minor qualita' e quindi meno risorse.
Il meccanismo e' impeccabile. e' anche implementabile? Si', se si volesse, ma al ministro Mussi non piace. La sua obiezione e' che quel meccanismo porterebbe rapidamente alla nascita "dell'universita' dei predestinati". Ma non e' gia' cosi', signor ministro? Non abbiamo gia' una universita' di predestinati, siano essi i professori iperprotetti o gli studenti destinati al lavoro con titoli di studio senza un mercato?
Se la proposta Zingales e' troppo rivoluzionaria, le propongo una alternativa meno dirompente, ma ugualmente efficace: passi all'attuazione del sistema di valutazione della ricerca condotta lo scorso anno in via sperimentale dal Civr e condizioni una quota significativa, ad esempio un terzo, dei trasferimenti dello Stato alle universita' alla qualita' della ricerca che vi si produce. Gli atenei che producono piu' ricerca di elevato livello - e solo quelli - ottengono piu' fondi delle altre; poiche' la ricerca di qualita' e' condotta da ricercatori di talento, gli atenei competeranno per attrarre i migliori. I ricercatori di talento hanno un interesse prioritario a mantenere e accrescere il loro "capitale umano" e sanno che uno dei modi per farlo e' attrarre altri ricercatori di elevata qualita' con cui interagire e lavorare. In modo del tutto naturale useranno il merito, e si batteranno perche' tutti lo facciano, come unico criterio di selezione dei professori, avviando il processo di ripresa delle universita'.
Come vede la ricetta e' semplice: una regola ferrea di allocazione dei fondi ai migliori; liberta' di decisione alle universita'. Non c'e' bisogno di Grandi Riforme, i cui beneficiari finora sono stati soprattutto i loro estensori.

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12.6.06

La via dello spirito parte da Yasser

il manifesto, 11 Giugno 2006
storie
In Italia imparare l'arabo e' di moda?

La via dello spirito parte da Yasser

"All'inizio ho incominciato a studiare la lingua per entusiasmo verso Arafat e la causa palestinese. Poi non ho piu' potuto smettere". In continua crescita il numero degli studenti di arabo La quasi totalita' di quelli che studiano arabo e' fatta di ragazze coraggiose, che spesso devono vincere l'ostilita' e i timori delle famiglie. Ma e' anche una ricerca di radici culturali
Igiaba O. Scego

All'universita' la campanella non suona. La ricreazione caffe' non e' annunciata da trilli, e' tutto un gioco di sguardi. Il professore guarda l'orologio, gli studenti guardano il cellulare e ci si alza all'unisono come un sol uomo per un caffe' al vetro macchiato caldo. Gli studenti di arabo, o dovremmo dire le studentesse, vista la preponderanza della compagine femminile, invece aspettano una parola magica: istirrah, pausa. Ma poi una vera pausa non riescono a farla da questa lingua, la loro mente e' ancorata ad essa come le stelle alla volta celeste. L'arabo non e' solo una lingua, e' un mondo che si svela. E ogni anno torme di ragazze e ragazzi (ma anche di vecchietti/e) si lanciano in questa avventura - una strada piena di ostacoli, frustrazioni, piccole vittorie, molteplici sconfitte.
Si stima che negli ultimi quattro anni, solo nei principali atenei italiani, il numero degli studenti iscritti a corsi dove e' previsto lo studio dell'arabo, dell'islamistica, del diritto mussulmano, sia triplicato. All'Orientale di Napoli in alcuni corsi di laurea si e' arrivati ad un aumento di iscritti del 250%, un numero che quindi fa concorrenza a quello piu' nutrito degli studenti di lingua inglese. Si e' parlato di boom, di effetto post-11 settembre. Ma cosa spinge veramente una persona ad imbarcarsi nello studio di una lingua cosi' ostica in apparenza? Puo' davvero essere solo la curiosita' di decifrare i messaggi di bin Laden o al-Zarqawi? O e' la prospettiva di un lavoro sicuro e ben pagato? E i kamikaze allora? E la bellezza ultraterrena di Rania di Giordania? E come la mettiamo con i versi di Mahmoud Darwish, che attirano ancora le folle?
Per Alessia, palermitana doc del quartiere Resuttana S.Lorenzo (per i non palermitani: il quartiere dello stadio) e' stato Arafat il motore di tutto; e prima ancora Federico II. "Ero innamorata di Yasser. Durante la prima Intifada ero piccola e non mi perdevo mai un tg per vederlo. Mi sembrava forte, uno che sapeva il fatto suo. Poi avevo questo sogno di fare la giornalista...". E Federico? "Lui in qualche modo e' stato la Sicilia. Da piccola sono andata alla classica gita al suo palazzo e qui per la prima volta ho visto una scritta in arabo. Quando la maestra mi ha spiegato che era una lingua diversa dalla mia, ecco, da quel momento non sono piu' riuscita a pensare ad altro".
Di Alessie la professoressa Isabella Camera D'Afflitto, docente di letteratura araba alla Sapienza di Roma e traduttrice tra le prime in Italia, ne ha conosciute tante. Conosciute: al femminile. "Nei corsi le donne raggiungono un tetto del 95%", ci dice. "Sono ragazze dotate di grande sensibilita', ma soprattutto di coraggio. Vanno dappertutto: in Giordania, Siria, Egitto, Palestina. Non hanno mai paura, non si fanno influenzare da quello che dicono i media sui paesi arabi. Hanno imparato a vedere le sfumature di questa immensa galassia. Senza pregiudizi. Le famiglie sono sempre molto preoccupate all'inizio. Ma poi le figlie - grazie all'esperienza vissuta - riescono a mediare tra il pregiudizio dei familiari e l'amore per la lingua. Attraverso loro molte famiglie imparano a conoscere l'altro per quello che e' realmente, e non per deformazioni mediatiche".
La politica e' certamente uno dei motivi principali che spinge le persone verso questi studi, "ma piu' che l'11 settembre", ci spiega la Camera D'Afflitto, "e' la questione palestinese ad aver attirato nelle aule di Roma, Napoli o Venezia piu' studenti. I ragazzi, ma non solo loro sono curiosi, vogliono sapere cosa c'e' dietro ad un evento. Io per esempio ho studiato arabo dopo la guerra del '67. Pero' un mero studio grammaticale non serve a nulla, non si deve perdere di vista il contesto, la storia. La lingua araba si puo' conoscere solo attraverso lo studio della cultura".
La Sicilia non e' araba?
Per Alessia la cultura araba e' anche la sua cultura. "La Sicilia e' stata fatta anche dagli arabi. Poi ce lo dicono sempre, no? Terroni, africani, arabi, extracomunitari... vogliono insultarci a noi siciliani, ma per me e' un complimento essere extracomunitaria. Mi spieghi che differenza c'e' tra me e un tunisino?". Si tira su le maniche della camicia e mostra orgogliosa la pelle ambrata. "Hai visto?" dice. "Nessuna differenza. Poi Palermo e' piena di scritte arabe, e che dire della cassata che tutto il mondo ci invidia? Agli arabi non piaceva la ricotta salata e ci hanno messo lo zucchero".
Anche Sonia Morganti, avvocato, studia arabo. Nove ore settimanali dopo il lavoro alla Camera di commercio di Roma. Un vero e proprio monachesimo laico. A volte si chiede perche' tanta fatica. Ma poi si ricorda del suo immenso amore per l'Egitto e l'Oriente in genere. Le canzoni di Nancy Ahgram, le danze di Farida. Ma il vero amore di Sonia e' il diritto islamico. "Vorrei trovare lavoro al Cairo o ad Alessandria. Continuare il mio lavoro di avvocato li', specializzarmi sul diritto islamico. e' affascinante vedere quante cose si possono imparare dal diritto, anche superare i falsi pregiudizi... Ad agosto vado giu' a spargere i miei cv e spero nella buona sorte".
La prospettiva di un lavoro con la lingua araba e' il sogno di molti. Ma la strada e' tutta in salita. E non mancano gli abbandoni. "Ne ho vista di gente frustrata", ci dice Fereydoun Rangrazi, un simpatico libraio iraniano che ha aperto tredici anni fa Nima, una libreria orientale nel cuore del Tiburtino, a Roma. "Se si pensa solo al lavoro si e' destinati al fallimento, si deve entrare in questa cultura, capirla, amarla, criticarla pure... ma viverla". Scorriamo i titoli. Qui dal signor Rangrazi va per la maggiore una certa Hoda Barakat. "Dovreste leggerla", dice. "Vengono anche tante coppie miste, comprano grammatiche, lei o lui vogliono capire il perche' di un amore. Pero' a volte tanto entusiasmo nella gente viene smorzato. Per esempio nelle universita' non sempre c'e' materiale, gli strumenti scarseggiano. Tempo addietro mi e' capitato di conoscere una ragazza polacca, l'ho scambiata per una iraniana di origine armena. Un accento perfetto. Mi ha spiegato che nell'universita' di Varsavia si facevano 15 ore settimanali di farsi e lo stesso di arabo. Qui di arabo o di farsi, massimo 4 ore. Non va, gli studenti, meritano di piu'".
Molti studenti che affollano gli atenei italiani sono d'accordo con l'analisi del signor Rangrazi. Mancano i supporti didattici, le lavagne luminose, l'occasione di scambi reali con i paesi arabi o con persone provenienti da quel mondo. Le iniziative sono legate solo alla buona volonta' dei singoli, alla loro tenacia, alla voglia di novita'. I fondi per le universita' poi sono sempre piu' invisibili.
"Il metodo di studio dell'arabo in Italia", ci dice una signora che preferisce rimanere anonima, "e' molto datato. Si usano grammatiche di prima della seconda guerra mondiale, belle, ma che poi non aiutano lo studente a comunicare. e' difficile persino ordinare un panino al bar. Si comunica poco, si parla poco. Inoltre l'unica voce che si sente e' quella del professore, pochi sono gli strumenti didattici interattivi. Pero' almeno oggi l'arabo e' uscito dalle chiese". Chiese? "Si', chiese. Fino a poco tempo fa l'insegnamento e lo studio della lingua araba erano monopolio degli istituti religiosi. Era li' che si decideva cosa studiare e a chi farlo studiare. Il mondo e la cultura araba passavano sempre attraverso questo filtro. Ora almeno e' il cittadino italiano che decide per se stesso cosa studiare, come studiarlo e dove. Entra direttamente nella lingua, prende possesso su quello che dicono gli arabi e vive tutto cio' che questo comporta. Poi e' anche libero di studiare in un istituto religioso, se vuole. Questo si e' avuto grazie ad una critica dell'orientalismo tradizionale. Anche se devo ammettere che la strada in questo senso e' ancora in salita".
Entusiasmo iniziale
"Io ho avuto molte difficolta' all'inizio", confessa Alessia, la studentessa palermitana. "Ho abbandonato l'universita' per tre anni. Quando mi sono iscritta avevo tanto entusiasmo, ma poi e' sopravenuta la disillusione. I tempi e i modi non mi piacevano, non riuscivo a seguire bene. Era il sistema universita' che diluiva il mio amore in niente. Poi per fortuna mi e' capitato dopo tre anni di seguire le lezioni di filologia semitica del prof. Garbini. Mi si e' aperto un mondo. Le lezioni erano un evento. Mischiavamo l'arabo, l'ebraico, l'amarico, l'italiano e anche il romanesco. Si parlava della torre di babele e di Gesu', si mischiava, si faceva cultura. Ho preso 30 e lode poi. Devo ringraziare il professore e tante persone come lui se un giorno andro' a lavorare in Medio Oriente con il mio arabo".
Dunque quel di piu' esiste ed e' dato da tanti docenti in gamba, tra cui molti madrelingua. Uno di questi e' Ezzeddine Anaya, lettore alla Sapienza e professore a contratto all'Orientale di Napoli. Gli studenti amano la sua dizione pulita, i suoi modi calmi. Sembra uscito direttamente da un telegiornale di al Jazeera. Ripete parole semplici come bayt, casa, o Kataba, scrivere, con lo stesso sorriso accogliente della prima volta. Lo studente e' incoraggiato, si lancia, riesce ad attaccare due parole insieme, a fare una frase. Finalmente parla arabo. Sorride. "Dobbiamo sfatare il mito della lingua araba difficile", dice. "Non ci sono lingue difficili, ma solo cattivi maestri, cattivi trasmettitori. Vi ricordate di Sciascia? Ne il consiglio d'Egitto quando...".
Intanto che cerchiamo di ricordare la storia di Sciascia, Ezzeddine ci dice altre cose. Anche per lui le donne sono piu' coraggiose, aperte, "Ascoltano meglio". Poi ci parla delle Mille e una notte. "Faccio spesso lezioni su questo testo, ma si deve stare attenti a non cadere in un facile esotismo. Si devono dare agli studenti cooordinate storiche, inserire i testi in un preciso contesto. Se no si rischia di far credere gli studenti in un mondo arabo fatto di geni e lampade magiche. Io affianco sempre testi concreti, anche per mitigare questa visione ultramagica. Per esempio faccio spesso leggere Nizar Khabani".
Oltre agli italiani le aule delle universita' sono anche affollate di figli di immigrati di lingua araba che cercano do recuperare la lingua delle radici. "E' un fenomeno in crescita", dice la Camera D'Afflitto "e ho notato che a Roma il fenomeno e' piu' consistente rispetto a Napoli". Ezzeddine Anaya spiega che molto si deve al ritorno di fiducia dei giovani migranti, "sentono di appartenere ad una cultura millenaria e questo li aiuta a non sentirsi un nulla nell'universo occidentale".
Ma dopo aver passato pomeriggi interi a studiare la lingua del Corano cosa rimane?
"Io ho imparato a respirare", dice Alessia, "ora medito, mi prendo il mio tempo. L'arabo e' come bere un buon vino. Lo si deve fare lentamente per assaporarlo. Ora capisco che l'Oriente osserva quello che fa l'Occidente. Ci conoscono meglio, in profondita'. Noi corriamo sempre e spesso diamo solo un'occhiata veloce all'Oriente".
Forse imparare l'arabo e' tutta questione di bronchi.

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10.6.06

Da Berlinguer alla Moratti: il grande disastro dell'Università

di Pietro Citati


QUALCHE tempo fa, ho assistito a uno spettacolo singolare. Durante una discussione televisiva, il ministro della Pubblica lstruzione, Letizia Moratti, contestata da domande volgari, disse all'improvviso con occhi brillanti e squillanti: «Ma io apprezzo moltissimo la riforma universitaria di Berlinguer. È ottima. È la migliore di tutte». Credo che l'intero paese sia stato scosso da un brivido d'estasi. Non era mai accaduto che un ministro della destra apprezzasse uno della sinistra (e viceversa). Per un istante senza tempo, gli spettatori videro Berlusconi dare un affettuoso colpetto sulla schiena di Prodi, che lo ricambiò con un bacio sulla guancia (così si amano i potenti); i baffetti di D'Alema si intrecciarono con i folti manubri di La Russa; Bossi strofinò le gote mal rasate dal barbiere di Varese con quelle ispidissime di Di Pietro; le sopracciglia di Casini si intrecciarono con quelle di Mussi; Buttiglione discusse intorno all'Essere con Cacciari; Agnoletto accarezzò teneramente Tremonti; e un'aria di quiete, di pace, di amore e di felicità si diffuse in tutta l'Italia.
***


Purtroppo (o per fortuna) questa visione edenica rimase chiusa nelle immaginazioni degli italiani. Letizia Moratti si era illusa.
La Riforma Berlinguer, approvata qualche anno fa da un ministro incompetente assistito da consiglieri incompetentissimi, era la peggiore che abbia mai funestato le facoltà di Lettere e di Filosofia e i professori ordinari, associati e i ricercatori e gli studenti delle sventurate università italiane. Non sono un professore universitario: ma ho molti amici professori, che insegnano letteratura inglese e francese, filologia romanza e comparatistica, storia antica e letteratura greca e letteratura bizantina.
Ho chiesto notizie: cosa quasi impossibile, perché in ogni università accadono cose diverse, progetti vengono annunciati e ritirati, ardite cosmogonie costruite e il giorno dopo distrutte, voci attraversano l'aria, vengono sostituite da altre voci, che a loro volta generano voci completamente dissimili; gli studenti terrorizzati non osano più studiare, i professori impauriti e annoiati preparano la lettera di dimissioni. Non pretendo dire cose certe, come un buon giornalista. Vorrei soltanto raccontare al lettore di Repubblica la farsesca e sinistra storia delle facoltà umanistiche italiane negli ultimi anni. Forse Berlinguer è stato soltanto questo: un autore di pochades e vaudevilles neri.
Credo che il racconto debba incominciare con una notizia. Negli anni passati, le università italiane avevano moltissimi studenti fuori corso: molto più numerosi che nelle università inglesi, francesi e tedesche. Gli studenti salivano a Roma da Lecce, da Bari, da Potenza, discendevano da Civitavecchia o da Terni: alloggiavano in squallide pensioni vicino alla Sapienza, lavoravano come camerieri, dattilografi e pony, amoreggiavano, facevano manifestazioni di destra o di sinistra per il Corso, occupavano l'università, protestavano contro i professori, esaltavano la Roma e la Lazio, si sposavano, tornavano al paese, avevano due o tre figli (che a loro volta si preparavano fin dalla nascita a diventare studenti universitari): senza mai riuscire a dare esami o a laurearsi, e qualche volta a vedere un'aula universitaria gremitissima di folla. Il cuore dell'onorevole Berlinguer era commosso e angosciato. Ma dimenticava due fatti. Il primo è che soltanto nell'università italiana si può ripetere, per trenta volte, lo stesso esame. Il secondo è che era inutile preoccuparsi dei fuori corso. Gli studenti di lettere, laureati in quattro o cinque anni, erano moltissimi. Il loro numero superava quello dei professori richiesti dalle scuole medie, dagli istituti tecnici, o dai licei. Gli studenti fuori corso avrebbero potuto fare i falegnami, gli idraulici, i corniciai, gli elettricisti: professioni nobilissime, difficilissime, e quasi abbandonate dagli italiani.
Il secondo fenomeno era più recente. All'università si presentavano, come sempre, studenti appassionati e brillanti, che leggevano tutti i libri, frequentavano le eccellenti biblioteche italiane e straniere di Roma, discutevano di Platone e di Hölderlin, frequentavano cinema e teatri, e si nutrivano di pane, mortadella e coca cola. Ma giungevano anche plotoni di studenti che non sapevano parlare. Ignoravano il linguaggio comune, apprendevano qualche termine nuovo dalla televisione, e lo ripetevano senza conoscerne il significato: la lettura del Corriere della Sera o di Repubblica sembrava loro più ardua di quella di Finnegans
Wake. Quanto a scrivere, nemmeno pensarci. Errori di ortografia, niente sintassi e consecutio temporum, oblio del congiuntivo, incapacità di organizzare o almeno di mettere in fila quelle debolissime idee che baluginavano nelle loro teste, amore travolgente per una parola: discorzzo. Che poi esistesse una cosa chiamata «pensiero», coltivata per secoli da Platone o da Spinoza o da Musil, ecco, questo non l'avevano mai saputo. Si accontentavano di emettere suoni vagamente romaneschi, borborigmi, biascichii, blaterii senza forma né contenuto.
Davanti a questa situazione drammatica, il ministro Luigi Berlinguer intervenne con la forza, l'impeto e l'ardore di un generale napoleonico. Escogitò il cosiddetto modello tre più due. I suoi consiglieri lo assistettero con la fantasia degli escogitatori di parole incrociate e l'accortezza degli inventori di puzzle e giochi elettronici. Inventarono i «moduli», i«crediti» e i «debiti». Non chiedetemi di spiegarveli. Il principio fondamentale era questo. La laurea breve (in tre anni) doveva essere una specie di liceo prolungato, dove si leggevano, per esempio, i classici greci e latini quasi sempre in traduzione, si offriva una puerile storia della letteratura e della filosofia, si insegnava vagamente qualche lingua straniera. Dopo tre anni, ne conosciamo i risultati. Il livello degli studi si è incredibilmente abbassato. Non si legge più. All'università di Roma La Sapienza, la maggiore d'Italia, un professore che tenga un corso su Shakespeare di circa due mesi non può imporre ai suoi allievi la lettura di oltre duecentocinquanta pagine. L'edizione Arden commentata di Amleto ne comprende 570.
Il professore non potrà dunque adottarla, mai, a nessun costo, perché il tenero cervello dell'allievo ventenne o ventiduenne rischierebbe di incrinarsi, sciogliersi, putrefarsi, nullificarsi, se venisse sottoposto all'intollerabile peso di trecento pagine in due mesi. Dovrà accontentarsi del nudo Amleto, senza nessuna altra tragedia o commedia, accompagnato da qualche paginetta di critica. Se le pagine adottate fossero duecentocinquantadue, lo studente potrebbe rifiutarsi di leggerle, mentre il direttore del dipartimento avrebbe il dovere di rimproverare, minacciare o punire con le verghe il professore troppo «elitario». Una parte degli studenti non acquista più libri (anche se un Oscar costa 12 euro e un classico di Repubblica o del Corriere 7.90). Pretende di usare soltanto fotocopie, che contengono esclusivamente le poche cose commentate durante le lezioni (82 versi di Shakespeare, 13 della Dickinson, 60 dell' Odissea, un capitolo di Madame Bovary, 30 righe Hölderlin). Ma siccome una minoranza degli studenti italiani è molto più intelligente dei ministri (e spesso dei professori), alcuni si ribellano e pretendono di studiare. Vogliono leggere tutta l'Iliade e l'Odissea e tutte le Metamorfosi di Ovidio e quelle di Apuleio e la Divina Commedia e il Faust e persino i tredici volumi che, nella Pléiade, raccolgono la Comédie humaine di Balzac, e naturalmente Guerra e Pace. Questo è, per fortuna, il paradosso italiano; su cento sciocchi, ci sono sempre sette ragazzi intelligentissimi: molto più fantasiosi e colti degli scrupolosi studenti americani, come dice un amico che insegna anche negli Stati Uniti. Il primo inconveniente, che l'onorevole Berlinguer non ha previsto, è che il sistema della laurea breve non funziona nelle facoltà universitarie. I fuori corso continuano ad accumularsi, nelle tristi pensioncine vicino alla Sapienza e alla Stazione Termini. Nessuno studia, o studia in modo confuso e impreciso: eppure chi ha scelto la laurea breve non riesce a laurearsi, tale è la frammentazione del sistema universitario, la moltiplicazione dei corsi inutili, il groviglio burocratico, il caos, il guazzabuglio e la confusione che la GRANDE RIFORMA ha introdotto nelle cose più usuali. Il secondo inconveniente, molto peggiore, è che la laurea breve non porta a nessun lavoro. In realtà, è una truffa. Non permette di insegnare nelle scuole medie e nei licei: consente, sì, di diventare redattore nelle case editrici, dove nessuno accoglierà mai un ventunenne che ignora la lingua italiana. Permette di fare la guida turistica e il custode dei musei: ma non credo che la richiesta sia grande. Consente una sola cosa: fare concorsi che gli permettano di partecipare a nuovi concorsi che gli apriranno la strada a altri concorsi, che infine gli consentiranno di scrivere, con mano rugosa e tremante, la domanda per un concorso definitivo: la morte. Nemmeno questa volta, forse, la sua richiesta verrà accolta.
Dopo i tre anni di laurea breve, ci sono i due anni di studio specializzato, che dovrebbero permettere (ma non è sicuro) di insegnare nelle scuole medie e nei licei. Per ora, pochissimi hanno iniziato questo studio; ed è quindi fuori luogo parlarne. Ma ho qualche dubbio. Mi sembra difficile che chi non è riuscito a leggere 252 pagine in due mesi, si trasformi improvvisamente in un eccellente studioso di Pindaro o di Dante o di Rilke. Il risultato della GRANDE RIFORMA è che, in cinque anni, si studierà molto meno e peggio che nel vecchio, mediocre ordinamento universitario di quattro anni.
Intanto, come una pianta tropicale malefica, la GRANDE RIFORMA estende dappertutto le sue ramificazioni; e fra poco, ce la troveremo in casa, tra le pentole, le stoviglie e i bicchieri. Le diverse università si fanno concorrenza fra loro, per attirare un numero maggiore di studenti, e per riuscirci abbassano sempre più severità degli studi. All'interno di ogni università, il professore di letteratura francese, a caccia di allievi, fa concorrenza a quello di letteratura tedesca, di letteratura inglese, o di storia della filosofia - e il modo migliore, naturalmente, è quello di far leggere soltanto sessanta pagine di Racine e trenta di Molière e dodici versi di Baudelaire, mentre l'ingenuo germanista pretende almeno la lettura integrale delle Affinità elettive (p. 290).
Il caos, le pretese, la megalomania, le ostentazioni, l'invidia hanno raggiunto il diapason; e i professori trascorrono pomeriggi interi (come accade anche nelle scuole medie) in riunioni, discussioni e litigi interminabili. Una volta, i volumi delle collane di cultura venivano saggiamente adottati: era bello che uno studente conoscesse Curtius o Praz o Duby o Mazzarino, o addirittura Gibbon; ma ora questi classici sono stati sostituiti da librettini che in sessanta pagine spiegano Dante o le Crociate. Tutto ciò contribuisce, come l'onorevole Berlinguer non immagina, alla rapida distruzione dell'editoria di cultura, che qualsiasi governo italiano pretende di amare e proteggere con tutto il cuore. E, infine, come Claudio Magris, i professori fuggono. Non c'è alcuna ragione di restare in un'Università dove l'insegnamento è quasi impossibile. Molto meglio andare in pensione: o scrivere articoli sui giornali, dove non c'è la tre più due; o insegnare negli Stati Uniti, dove ogni professore ha la chiave della biblioteca e può entrarvi alle sette di mattina o alle due di notte, togliendo amorosamente i libri dagli scaffali con le proprie mani e studiando quello che vuole, quando vuole, come vuole, mentre nel campus illuminato dalla luna i galli neri e bianchi si inseguono con frenesia.
* * *


Non contenta delle imprese distruttive del suo predecessore, Letizia Moratti sta preparando progetti forse ancora più spettacolari. Mi duole di non poter essere preciso: perché, nell'argomento dell'Università, nulla è sicuro: tutto oscilla, vaga, si contraddice, con la consistenza delle nuvole rosee e grigie nel cielo tempestoso di aprile. Quello che dico oggi, domani non è più vero. Il ministro non sa quello che prepara il suo ufficio studi. Gli psicologi sabotano i pedagoghi. La Camera ignora quello che sta legiferando il Senato. Berlusconi ignora quello che pensa Tremonti: e tanto più Prodi che, nei suoi viaggi incessanti tra Bruxelles e Roma, medita certamente una nuova, grandiosa GRANDE RIFORMA, che comprenderà in sé tutte le riforme passate e future, tutte le riforme possibili e inverosimili, tentate in ogni paese del mondo. Mi limito a indicare non so se due progetti di leggi o due voci. La prima è che, da qualche parte, in un oscuro armadio barocco della Camera o del Senato, giace un progetto secondo il quale al 3 + 2 si sostituirà (o si congiungerà) l' 1 +4. Tutte le facoltà avranno un anno di corsi comuni - sociologi dei buchi neri, scienza azteca, letteratura khmer, ermeneutica della televisione, psicologia della settima età, propedeutica al sesso orale, Che Guevara e il mito classico, arte e tecnica del terrorismo, Bush e Bin Laden, metafisica di Umberto Bossi -; dopo il quale gli studenti decideranno quale facoltà scegliere. La seconda è che la laurea breve (tre anni) condurrà a due anni abilitanti: in questi due anni, non si insegnerà niente. Si insegnerà a insegnare. Alcune migliaia di pedagoghi, psicologi, teorici dell'età evolutiva, apprenderanno agli allievi le arti, i trucchi, i vezzi dell'educazione.
Dopo questi due anni, gli studenti della laurea breve, senza sapere niente e aver letto pochissime fotocopie, andranno ad insegnare nelle medie e nei licei italiani; e così via, all'infinito, secondo un processo di decadenza che non avrà più fine. Più preoccupante è l'ipotesi che riguarda gli studenti della laurea specialistica: perché dopo tre anni di laurea breve, due anni di laurea specialistica, dovranno (forse) affrontare altri due anni abilitanti. Totale: sette anni di studi quasi completamente vani.
Non vorrei accusare soltanto Luigi Berlinguer e Letizia Moratti. Sebbene siano nulli, sono (in parte) innocenti. Tutte queste demenze universitarie dipendono anche dagli ultimi trenta (o quaranta) anni di folle benessere e folle stupidità europea e americana. Andiamo alle Seychelles, alle Maldive, a Samoa, in Antartide, passiamo il fine settimana nella seconda, quarta o quinta casa, assistiamo alle trasmissioni in cui dodici genii discutono di cose che ignorano completamente, o otto uomini politici cercano di sedurre gli elettori con programmi che farebbero bene a nascondere. Tutti credono che la democrazia sia l'immensa facilità ! I bambini non debbono stancarsi: gli studenti universitari non debbono leggere - e mai, mai, mai, cose difficili. Proibiti, Platone, Plotino, i Vangeli, san Paolo, Pascal, Dostoevskij, Proust, Musil. Proibito camminare a piedi. Proibito nuotare. Proibito guardare il mondo senza macchine fotografiche o cineprese.
Come ha scritto giorni fa Federico Rampini in un bell'articolo su Repubblica, i cinesi e gli indiani la pensano diversamente. Studiano cose difficilissime: fanno ricerche, moltiplicano i brevetti. Gli americani (che sono, malgrado la nostra infantile supponenza, molto meno sciocchi di noi), sono preoccupati. Mentre le fabbriche e i lavori più elementari si spostano in Oriente, l'unico strumento dell'Europa è l'estrema esattezza e precisione della mente (spero anche dell'anima). Le lauree brevi, i corsi abilitanti, la facilità generale distruggono la poca precisione rimasta. Se le riforme Berlinguer e Moratti non troveranno ostacoli, fra qualche anno non i cinesi e gli indiani ma gli abitanti del Gabon e della Nigeria insegneranno storia antica, letteratura francese e tedesca nelle nostre Università: lingua e letteratura italiana ai licei. A me piacerebbe moltissimo: ma non so cosa ne pensino gli attuali studenti di lettere. Intanto, cogli occhi spalancati sul televisore, gli italiani continueranno a fantasticare se Prodi sia meglio di Berlusconi, o Berlusconi di Prodi.

(la Repubblica, 8 giugno 2004)

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Schiavone: Eguaglianza e competizione la scommessa dell'universita'

La Repubblica, 8-06-2006

ALDO SCHIAVONE

Il ministro dell'Universita' appena nominato e' persona di esperienza e di idee, e non ha bisogno di consigli non richiesti. Ma puo' essere utile fissare - come in una specie di promemoria - qualche punto piu' tormentato, su cui sarebbe importante si mantenesse vigile l'attenzione della pubblica opinione. Le democrazie dell'alternanza richiedono lungimiranza e cautela, quando si affrontano grandi nodi strutturali (e lo e' certo la formazione superiore) sui quali sarebbe impensabile ripartire ogni volta da zero: aspettiamo dunque con fiducia i segni anticipatori della nuova impronta. Primo: la missione. L'universita' e' diventata, in ogni Paese avanzato, un organismo polifunzionale, che svolge, a differenza del passato, una pluralita' di compiti assai diversificata. Una volta educava in modo omogeneo (sulla base di una rigida gerarchia di saperi) e'lite ristrette, selezionate attraverso rigorosi meccanismi di classe, in Italia particolarmente duri e ingiusti. Oggi questo compito tradizionale appare sommerso dalla necessita' - del tutto inedita - di formare masse larghissime di intellettuali (nell'ordine di milioni di donne e di uomini) da avviare a una vita professionale senza un rapporto da protagonisti con la ricerca scientifica e l'innovazione culturale, ma per le quali e' tuttavia richiesto il possesso di conoscenze superiori e relativamente complesse. Mentre d'altra parte la stessa educazione delle classi dirigenti e la riproduzione dei ricercatori non avviene piu' secondo un modello unitario, universalmente ripetibile, ma si compie in modo parcellizzato e segmentato, secondo criteri e priorita' conoscitive incommensurabili rispetto a quelle anche solo di qualche decennio fa. La multiformita' delle missioni da adempiere richiede percio', dal punto di vista istituzionale, soluzioni articolate e grande duttilita'. L'importante non e' che ogni parte dell'insieme (ateneo, dipartimento, singolo docente) sia in grado di assolvere contemporaneamente la totalita' dei compiti da fronteggiare; ma che il sistema universitario nella sua interezza sia capace di rispondere a tutte le domande che lo investono - dalla formazione di base all'altissimo perfezionamento - senza che una parte di esse si orienti altrove (per esempio, fuori d'Italia). Secondo: la riforma. La nostra universita' e' impegnata da anni in un faticoso processo di rinnovamento, le cui linee di fondo si sono trasmesse senza radicali cambiamenti da una maggioranza di governo all'altra. La direzione intrapresa, comune a tutta l'Europa, consistente nella distinzione-combinazione modulare dei livelli formativi (laurea, laurea magistrale o specialistica, dottorato di ricerca) e' quella giusta, e va decisamente proseguita. Ma essa e' suscettibile ancora di notevoli miglioramenti, in particolare per quanto attiene all'eccessiva quantita' dei curriculum e al potenziamento dell'ultimo livello (quello del dottorato). Terzo: l'eguaglianza. Una impropria e ampia "corporativizzazione" dei rapporti e delle carriere ha diffuso sull'universita' italiana un perverso effetto di trascinamento verso il basso (questo riguarda il percorso degli studenti come dei professori). Si sta sporcando cosi' di una polvere che non le appartiene una bandiera della sinistra: quella dell'eguaglianza, che rischia ormai d'essere invocata solo per difendere la conservazione o il privilegio. L'eguaglianza va difesa e potenziata nella garanzia di pari opportunita' nell'accesso agli studi di ogni livello, e nella tutela di chi e' socialmente piu' debole, non negli esiti o nell'identita' delle carriere. Affermare questo principio e' dire, letteralmente, qualcosa di sinistra. Proteggiamo i meno forti, e premiamo il merito e i talenti, investendo su di essi: comunque e dovunque. Quarto: autonomia e competizione. L'universita' italiana deve rimanere nel suo insieme un sistema pubblico: lo impongono ragioni di storia e di struttura. Ma all'interno di questo quadro bisogna introdurre - sviluppando sino in fondo la luminosa intuizione di un grande ministro dell'Universita', Antonio Ruberti - meccanismi che consentano agli atenei il massimo di autonomia compatibile con la loro funzione, e che li induca a una sempre maggiore diversificazione della propria offerta formativa, e a una sana competizione fra loro, regolata da un accurato dosaggio di mercato e di Stato. Quinto: valutazione e risorse. Quanto detto presuppone un rigoroso e capillare sistema di valutazione delle performance dei singoli docenti e delle strutture (atenei, dipartimenti, corsi di laurea). Una cultura della valutazione e' ancora largamente estranea all'universita' italiana. Va introdotta, e rapidamente. Si tratta di una questione cruciale, su cui si misurera' - credo - molto dell'azione di governo. Vi sono Paesi europei, come la Gran Bretagna, dove sono stati compiuti in pochi anni passi decisivi in tale direzione. Dobbiamo essere capaci di fare altrettanto. Un ministro importante dovra' saper legare la battaglia tutta politica per l'ottenimento di maggiori risorse da destinare alla ricerca e all'universita', all'introduzione di una rete di incentivi che consenta di destinare l'incremento dei finanziamenti esclusivamente a chi ha fatto meglio, e opera in modo virtuoso. Per finire: non esiste un modello astratto di universita' ideale. Oggi meno che mai, quando tutti questi tipi di istituzione, in ogni Paese avanzato, sono sotto l'ala di un turbine, sconvolti da quella rivoluzione permanente delle forme di comunicazione e conservazione dei saperi che e' l'anima stessa del nostro tempo; e noi non scriviamo su pietre, ma su sabbia agitata dal vento. E tuttavia questo non ci sottrae all'obbligo di cercare, con pazienza, le soluzioni che volta per volta ci appaiono piu' promettenti e cariche di futuro.

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