Da Berlinguer alla Moratti: il grande disastro dell'Università
di Pietro Citati
QUALCHE tempo fa, ho assistito a uno spettacolo singolare. Durante una discussione televisiva, il ministro della Pubblica lstruzione, Letizia Moratti, contestata da domande volgari, disse all'improvviso con occhi brillanti e squillanti: «Ma io apprezzo moltissimo la riforma universitaria di Berlinguer. È ottima. È la migliore di tutte». Credo che l'intero paese sia stato scosso da un brivido d'estasi. Non era mai accaduto che un ministro della destra apprezzasse uno della sinistra (e viceversa). Per un istante senza tempo, gli spettatori videro Berlusconi dare un affettuoso colpetto sulla schiena di Prodi, che lo ricambiò con un bacio sulla guancia (così si amano i potenti); i baffetti di D'Alema si intrecciarono con i folti manubri di La Russa; Bossi strofinò le gote mal rasate dal barbiere di Varese con quelle ispidissime di Di Pietro; le sopracciglia di Casini si intrecciarono con quelle di Mussi; Buttiglione discusse intorno all'Essere con Cacciari; Agnoletto accarezzò teneramente Tremonti; e un'aria di quiete, di pace, di amore e di felicità si diffuse in tutta l'Italia.
***
Purtroppo (o per fortuna) questa visione edenica rimase chiusa nelle immaginazioni degli italiani. Letizia Moratti si era illusa.
La Riforma Berlinguer, approvata qualche anno fa da un ministro incompetente assistito da consiglieri incompetentissimi, era la peggiore che abbia mai funestato le facoltà di Lettere e di Filosofia e i professori ordinari, associati e i ricercatori e gli studenti delle sventurate università italiane. Non sono un professore universitario: ma ho molti amici professori, che insegnano letteratura inglese e francese, filologia romanza e comparatistica, storia antica e letteratura greca e letteratura bizantina.
Ho chiesto notizie: cosa quasi impossibile, perché in ogni università accadono cose diverse, progetti vengono annunciati e ritirati, ardite cosmogonie costruite e il giorno dopo distrutte, voci attraversano l'aria, vengono sostituite da altre voci, che a loro volta generano voci completamente dissimili; gli studenti terrorizzati non osano più studiare, i professori impauriti e annoiati preparano la lettera di dimissioni. Non pretendo dire cose certe, come un buon giornalista. Vorrei soltanto raccontare al lettore di Repubblica la farsesca e sinistra storia delle facoltà umanistiche italiane negli ultimi anni. Forse Berlinguer è stato soltanto questo: un autore di pochades e vaudevilles neri.
Credo che il racconto debba incominciare con una notizia. Negli anni passati, le università italiane avevano moltissimi studenti fuori corso: molto più numerosi che nelle università inglesi, francesi e tedesche. Gli studenti salivano a Roma da Lecce, da Bari, da Potenza, discendevano da Civitavecchia o da Terni: alloggiavano in squallide pensioni vicino alla Sapienza, lavoravano come camerieri, dattilografi e pony, amoreggiavano, facevano manifestazioni di destra o di sinistra per il Corso, occupavano l'università, protestavano contro i professori, esaltavano la Roma e la Lazio, si sposavano, tornavano al paese, avevano due o tre figli (che a loro volta si preparavano fin dalla nascita a diventare studenti universitari): senza mai riuscire a dare esami o a laurearsi, e qualche volta a vedere un'aula universitaria gremitissima di folla. Il cuore dell'onorevole Berlinguer era commosso e angosciato. Ma dimenticava due fatti. Il primo è che soltanto nell'università italiana si può ripetere, per trenta volte, lo stesso esame. Il secondo è che era inutile preoccuparsi dei fuori corso. Gli studenti di lettere, laureati in quattro o cinque anni, erano moltissimi. Il loro numero superava quello dei professori richiesti dalle scuole medie, dagli istituti tecnici, o dai licei. Gli studenti fuori corso avrebbero potuto fare i falegnami, gli idraulici, i corniciai, gli elettricisti: professioni nobilissime, difficilissime, e quasi abbandonate dagli italiani.
Il secondo fenomeno era più recente. All'università si presentavano, come sempre, studenti appassionati e brillanti, che leggevano tutti i libri, frequentavano le eccellenti biblioteche italiane e straniere di Roma, discutevano di Platone e di Hölderlin, frequentavano cinema e teatri, e si nutrivano di pane, mortadella e coca cola. Ma giungevano anche plotoni di studenti che non sapevano parlare. Ignoravano il linguaggio comune, apprendevano qualche termine nuovo dalla televisione, e lo ripetevano senza conoscerne il significato: la lettura del Corriere della Sera o di Repubblica sembrava loro più ardua di quella di Finnegans
Wake. Quanto a scrivere, nemmeno pensarci. Errori di ortografia, niente sintassi e consecutio temporum, oblio del congiuntivo, incapacità di organizzare o almeno di mettere in fila quelle debolissime idee che baluginavano nelle loro teste, amore travolgente per una parola: discorzzo. Che poi esistesse una cosa chiamata «pensiero», coltivata per secoli da Platone o da Spinoza o da Musil, ecco, questo non l'avevano mai saputo. Si accontentavano di emettere suoni vagamente romaneschi, borborigmi, biascichii, blaterii senza forma né contenuto.
Davanti a questa situazione drammatica, il ministro Luigi Berlinguer intervenne con la forza, l'impeto e l'ardore di un generale napoleonico. Escogitò il cosiddetto modello tre più due. I suoi consiglieri lo assistettero con la fantasia degli escogitatori di parole incrociate e l'accortezza degli inventori di puzzle e giochi elettronici. Inventarono i «moduli», i«crediti» e i «debiti». Non chiedetemi di spiegarveli. Il principio fondamentale era questo. La laurea breve (in tre anni) doveva essere una specie di liceo prolungato, dove si leggevano, per esempio, i classici greci e latini quasi sempre in traduzione, si offriva una puerile storia della letteratura e della filosofia, si insegnava vagamente qualche lingua straniera. Dopo tre anni, ne conosciamo i risultati. Il livello degli studi si è incredibilmente abbassato. Non si legge più. All'università di Roma La Sapienza, la maggiore d'Italia, un professore che tenga un corso su Shakespeare di circa due mesi non può imporre ai suoi allievi la lettura di oltre duecentocinquanta pagine. L'edizione Arden commentata di Amleto ne comprende 570.
Il professore non potrà dunque adottarla, mai, a nessun costo, perché il tenero cervello dell'allievo ventenne o ventiduenne rischierebbe di incrinarsi, sciogliersi, putrefarsi, nullificarsi, se venisse sottoposto all'intollerabile peso di trecento pagine in due mesi. Dovrà accontentarsi del nudo Amleto, senza nessuna altra tragedia o commedia, accompagnato da qualche paginetta di critica. Se le pagine adottate fossero duecentocinquantadue, lo studente potrebbe rifiutarsi di leggerle, mentre il direttore del dipartimento avrebbe il dovere di rimproverare, minacciare o punire con le verghe il professore troppo «elitario». Una parte degli studenti non acquista più libri (anche se un Oscar costa 12 euro e un classico di Repubblica o del Corriere 7.90). Pretende di usare soltanto fotocopie, che contengono esclusivamente le poche cose commentate durante le lezioni (82 versi di Shakespeare, 13 della Dickinson, 60 dell' Odissea, un capitolo di Madame Bovary, 30 righe Hölderlin). Ma siccome una minoranza degli studenti italiani è molto più intelligente dei ministri (e spesso dei professori), alcuni si ribellano e pretendono di studiare. Vogliono leggere tutta l'Iliade e l'Odissea e tutte le Metamorfosi di Ovidio e quelle di Apuleio e la Divina Commedia e il Faust e persino i tredici volumi che, nella Pléiade, raccolgono la Comédie humaine di Balzac, e naturalmente Guerra e Pace. Questo è, per fortuna, il paradosso italiano; su cento sciocchi, ci sono sempre sette ragazzi intelligentissimi: molto più fantasiosi e colti degli scrupolosi studenti americani, come dice un amico che insegna anche negli Stati Uniti. Il primo inconveniente, che l'onorevole Berlinguer non ha previsto, è che il sistema della laurea breve non funziona nelle facoltà universitarie. I fuori corso continuano ad accumularsi, nelle tristi pensioncine vicino alla Sapienza e alla Stazione Termini. Nessuno studia, o studia in modo confuso e impreciso: eppure chi ha scelto la laurea breve non riesce a laurearsi, tale è la frammentazione del sistema universitario, la moltiplicazione dei corsi inutili, il groviglio burocratico, il caos, il guazzabuglio e la confusione che la GRANDE RIFORMA ha introdotto nelle cose più usuali. Il secondo inconveniente, molto peggiore, è che la laurea breve non porta a nessun lavoro. In realtà, è una truffa. Non permette di insegnare nelle scuole medie e nei licei: consente, sì, di diventare redattore nelle case editrici, dove nessuno accoglierà mai un ventunenne che ignora la lingua italiana. Permette di fare la guida turistica e il custode dei musei: ma non credo che la richiesta sia grande. Consente una sola cosa: fare concorsi che gli permettano di partecipare a nuovi concorsi che gli apriranno la strada a altri concorsi, che infine gli consentiranno di scrivere, con mano rugosa e tremante, la domanda per un concorso definitivo: la morte. Nemmeno questa volta, forse, la sua richiesta verrà accolta.
Dopo i tre anni di laurea breve, ci sono i due anni di studio specializzato, che dovrebbero permettere (ma non è sicuro) di insegnare nelle scuole medie e nei licei. Per ora, pochissimi hanno iniziato questo studio; ed è quindi fuori luogo parlarne. Ma ho qualche dubbio. Mi sembra difficile che chi non è riuscito a leggere 252 pagine in due mesi, si trasformi improvvisamente in un eccellente studioso di Pindaro o di Dante o di Rilke. Il risultato della GRANDE RIFORMA è che, in cinque anni, si studierà molto meno e peggio che nel vecchio, mediocre ordinamento universitario di quattro anni.
Intanto, come una pianta tropicale malefica, la GRANDE RIFORMA estende dappertutto le sue ramificazioni; e fra poco, ce la troveremo in casa, tra le pentole, le stoviglie e i bicchieri. Le diverse università si fanno concorrenza fra loro, per attirare un numero maggiore di studenti, e per riuscirci abbassano sempre più severità degli studi. All'interno di ogni università, il professore di letteratura francese, a caccia di allievi, fa concorrenza a quello di letteratura tedesca, di letteratura inglese, o di storia della filosofia - e il modo migliore, naturalmente, è quello di far leggere soltanto sessanta pagine di Racine e trenta di Molière e dodici versi di Baudelaire, mentre l'ingenuo germanista pretende almeno la lettura integrale delle Affinità elettive (p. 290).
Il caos, le pretese, la megalomania, le ostentazioni, l'invidia hanno raggiunto il diapason; e i professori trascorrono pomeriggi interi (come accade anche nelle scuole medie) in riunioni, discussioni e litigi interminabili. Una volta, i volumi delle collane di cultura venivano saggiamente adottati: era bello che uno studente conoscesse Curtius o Praz o Duby o Mazzarino, o addirittura Gibbon; ma ora questi classici sono stati sostituiti da librettini che in sessanta pagine spiegano Dante o le Crociate. Tutto ciò contribuisce, come l'onorevole Berlinguer non immagina, alla rapida distruzione dell'editoria di cultura, che qualsiasi governo italiano pretende di amare e proteggere con tutto il cuore. E, infine, come Claudio Magris, i professori fuggono. Non c'è alcuna ragione di restare in un'Università dove l'insegnamento è quasi impossibile. Molto meglio andare in pensione: o scrivere articoli sui giornali, dove non c'è la tre più due; o insegnare negli Stati Uniti, dove ogni professore ha la chiave della biblioteca e può entrarvi alle sette di mattina o alle due di notte, togliendo amorosamente i libri dagli scaffali con le proprie mani e studiando quello che vuole, quando vuole, come vuole, mentre nel campus illuminato dalla luna i galli neri e bianchi si inseguono con frenesia.
* * *
Non contenta delle imprese distruttive del suo predecessore, Letizia Moratti sta preparando progetti forse ancora più spettacolari. Mi duole di non poter essere preciso: perché, nell'argomento dell'Università, nulla è sicuro: tutto oscilla, vaga, si contraddice, con la consistenza delle nuvole rosee e grigie nel cielo tempestoso di aprile. Quello che dico oggi, domani non è più vero. Il ministro non sa quello che prepara il suo ufficio studi. Gli psicologi sabotano i pedagoghi. La Camera ignora quello che sta legiferando il Senato. Berlusconi ignora quello che pensa Tremonti: e tanto più Prodi che, nei suoi viaggi incessanti tra Bruxelles e Roma, medita certamente una nuova, grandiosa GRANDE RIFORMA, che comprenderà in sé tutte le riforme passate e future, tutte le riforme possibili e inverosimili, tentate in ogni paese del mondo. Mi limito a indicare non so se due progetti di leggi o due voci. La prima è che, da qualche parte, in un oscuro armadio barocco della Camera o del Senato, giace un progetto secondo il quale al 3 + 2 si sostituirà (o si congiungerà) l' 1 +4. Tutte le facoltà avranno un anno di corsi comuni - sociologi dei buchi neri, scienza azteca, letteratura khmer, ermeneutica della televisione, psicologia della settima età, propedeutica al sesso orale, Che Guevara e il mito classico, arte e tecnica del terrorismo, Bush e Bin Laden, metafisica di Umberto Bossi -; dopo il quale gli studenti decideranno quale facoltà scegliere. La seconda è che la laurea breve (tre anni) condurrà a due anni abilitanti: in questi due anni, non si insegnerà niente. Si insegnerà a insegnare. Alcune migliaia di pedagoghi, psicologi, teorici dell'età evolutiva, apprenderanno agli allievi le arti, i trucchi, i vezzi dell'educazione.
Dopo questi due anni, gli studenti della laurea breve, senza sapere niente e aver letto pochissime fotocopie, andranno ad insegnare nelle medie e nei licei italiani; e così via, all'infinito, secondo un processo di decadenza che non avrà più fine. Più preoccupante è l'ipotesi che riguarda gli studenti della laurea specialistica: perché dopo tre anni di laurea breve, due anni di laurea specialistica, dovranno (forse) affrontare altri due anni abilitanti. Totale: sette anni di studi quasi completamente vani.
Non vorrei accusare soltanto Luigi Berlinguer e Letizia Moratti. Sebbene siano nulli, sono (in parte) innocenti. Tutte queste demenze universitarie dipendono anche dagli ultimi trenta (o quaranta) anni di folle benessere e folle stupidità europea e americana. Andiamo alle Seychelles, alle Maldive, a Samoa, in Antartide, passiamo il fine settimana nella seconda, quarta o quinta casa, assistiamo alle trasmissioni in cui dodici genii discutono di cose che ignorano completamente, o otto uomini politici cercano di sedurre gli elettori con programmi che farebbero bene a nascondere. Tutti credono che la democrazia sia l'immensa facilità ! I bambini non debbono stancarsi: gli studenti universitari non debbono leggere - e mai, mai, mai, cose difficili. Proibiti, Platone, Plotino, i Vangeli, san Paolo, Pascal, Dostoevskij, Proust, Musil. Proibito camminare a piedi. Proibito nuotare. Proibito guardare il mondo senza macchine fotografiche o cineprese.
Come ha scritto giorni fa Federico Rampini in un bell'articolo su Repubblica, i cinesi e gli indiani la pensano diversamente. Studiano cose difficilissime: fanno ricerche, moltiplicano i brevetti. Gli americani (che sono, malgrado la nostra infantile supponenza, molto meno sciocchi di noi), sono preoccupati. Mentre le fabbriche e i lavori più elementari si spostano in Oriente, l'unico strumento dell'Europa è l'estrema esattezza e precisione della mente (spero anche dell'anima). Le lauree brevi, i corsi abilitanti, la facilità generale distruggono la poca precisione rimasta. Se le riforme Berlinguer e Moratti non troveranno ostacoli, fra qualche anno non i cinesi e gli indiani ma gli abitanti del Gabon e della Nigeria insegneranno storia antica, letteratura francese e tedesca nelle nostre Università: lingua e letteratura italiana ai licei. A me piacerebbe moltissimo: ma non so cosa ne pensino gli attuali studenti di lettere. Intanto, cogli occhi spalancati sul televisore, gli italiani continueranno a fantasticare se Prodi sia meglio di Berlusconi, o Berlusconi di Prodi.
(la Repubblica, 8 giugno 2004)
QUALCHE tempo fa, ho assistito a uno spettacolo singolare. Durante una discussione televisiva, il ministro della Pubblica lstruzione, Letizia Moratti, contestata da domande volgari, disse all'improvviso con occhi brillanti e squillanti: «Ma io apprezzo moltissimo la riforma universitaria di Berlinguer. È ottima. È la migliore di tutte». Credo che l'intero paese sia stato scosso da un brivido d'estasi. Non era mai accaduto che un ministro della destra apprezzasse uno della sinistra (e viceversa). Per un istante senza tempo, gli spettatori videro Berlusconi dare un affettuoso colpetto sulla schiena di Prodi, che lo ricambiò con un bacio sulla guancia (così si amano i potenti); i baffetti di D'Alema si intrecciarono con i folti manubri di La Russa; Bossi strofinò le gote mal rasate dal barbiere di Varese con quelle ispidissime di Di Pietro; le sopracciglia di Casini si intrecciarono con quelle di Mussi; Buttiglione discusse intorno all'Essere con Cacciari; Agnoletto accarezzò teneramente Tremonti; e un'aria di quiete, di pace, di amore e di felicità si diffuse in tutta l'Italia.
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Purtroppo (o per fortuna) questa visione edenica rimase chiusa nelle immaginazioni degli italiani. Letizia Moratti si era illusa.
La Riforma Berlinguer, approvata qualche anno fa da un ministro incompetente assistito da consiglieri incompetentissimi, era la peggiore che abbia mai funestato le facoltà di Lettere e di Filosofia e i professori ordinari, associati e i ricercatori e gli studenti delle sventurate università italiane. Non sono un professore universitario: ma ho molti amici professori, che insegnano letteratura inglese e francese, filologia romanza e comparatistica, storia antica e letteratura greca e letteratura bizantina.
Ho chiesto notizie: cosa quasi impossibile, perché in ogni università accadono cose diverse, progetti vengono annunciati e ritirati, ardite cosmogonie costruite e il giorno dopo distrutte, voci attraversano l'aria, vengono sostituite da altre voci, che a loro volta generano voci completamente dissimili; gli studenti terrorizzati non osano più studiare, i professori impauriti e annoiati preparano la lettera di dimissioni. Non pretendo dire cose certe, come un buon giornalista. Vorrei soltanto raccontare al lettore di Repubblica la farsesca e sinistra storia delle facoltà umanistiche italiane negli ultimi anni. Forse Berlinguer è stato soltanto questo: un autore di pochades e vaudevilles neri.
Credo che il racconto debba incominciare con una notizia. Negli anni passati, le università italiane avevano moltissimi studenti fuori corso: molto più numerosi che nelle università inglesi, francesi e tedesche. Gli studenti salivano a Roma da Lecce, da Bari, da Potenza, discendevano da Civitavecchia o da Terni: alloggiavano in squallide pensioni vicino alla Sapienza, lavoravano come camerieri, dattilografi e pony, amoreggiavano, facevano manifestazioni di destra o di sinistra per il Corso, occupavano l'università, protestavano contro i professori, esaltavano la Roma e la Lazio, si sposavano, tornavano al paese, avevano due o tre figli (che a loro volta si preparavano fin dalla nascita a diventare studenti universitari): senza mai riuscire a dare esami o a laurearsi, e qualche volta a vedere un'aula universitaria gremitissima di folla. Il cuore dell'onorevole Berlinguer era commosso e angosciato. Ma dimenticava due fatti. Il primo è che soltanto nell'università italiana si può ripetere, per trenta volte, lo stesso esame. Il secondo è che era inutile preoccuparsi dei fuori corso. Gli studenti di lettere, laureati in quattro o cinque anni, erano moltissimi. Il loro numero superava quello dei professori richiesti dalle scuole medie, dagli istituti tecnici, o dai licei. Gli studenti fuori corso avrebbero potuto fare i falegnami, gli idraulici, i corniciai, gli elettricisti: professioni nobilissime, difficilissime, e quasi abbandonate dagli italiani.
Il secondo fenomeno era più recente. All'università si presentavano, come sempre, studenti appassionati e brillanti, che leggevano tutti i libri, frequentavano le eccellenti biblioteche italiane e straniere di Roma, discutevano di Platone e di Hölderlin, frequentavano cinema e teatri, e si nutrivano di pane, mortadella e coca cola. Ma giungevano anche plotoni di studenti che non sapevano parlare. Ignoravano il linguaggio comune, apprendevano qualche termine nuovo dalla televisione, e lo ripetevano senza conoscerne il significato: la lettura del Corriere della Sera o di Repubblica sembrava loro più ardua di quella di Finnegans
Wake. Quanto a scrivere, nemmeno pensarci. Errori di ortografia, niente sintassi e consecutio temporum, oblio del congiuntivo, incapacità di organizzare o almeno di mettere in fila quelle debolissime idee che baluginavano nelle loro teste, amore travolgente per una parola: discorzzo. Che poi esistesse una cosa chiamata «pensiero», coltivata per secoli da Platone o da Spinoza o da Musil, ecco, questo non l'avevano mai saputo. Si accontentavano di emettere suoni vagamente romaneschi, borborigmi, biascichii, blaterii senza forma né contenuto.
Davanti a questa situazione drammatica, il ministro Luigi Berlinguer intervenne con la forza, l'impeto e l'ardore di un generale napoleonico. Escogitò il cosiddetto modello tre più due. I suoi consiglieri lo assistettero con la fantasia degli escogitatori di parole incrociate e l'accortezza degli inventori di puzzle e giochi elettronici. Inventarono i «moduli», i«crediti» e i «debiti». Non chiedetemi di spiegarveli. Il principio fondamentale era questo. La laurea breve (in tre anni) doveva essere una specie di liceo prolungato, dove si leggevano, per esempio, i classici greci e latini quasi sempre in traduzione, si offriva una puerile storia della letteratura e della filosofia, si insegnava vagamente qualche lingua straniera. Dopo tre anni, ne conosciamo i risultati. Il livello degli studi si è incredibilmente abbassato. Non si legge più. All'università di Roma La Sapienza, la maggiore d'Italia, un professore che tenga un corso su Shakespeare di circa due mesi non può imporre ai suoi allievi la lettura di oltre duecentocinquanta pagine. L'edizione Arden commentata di Amleto ne comprende 570.
Il professore non potrà dunque adottarla, mai, a nessun costo, perché il tenero cervello dell'allievo ventenne o ventiduenne rischierebbe di incrinarsi, sciogliersi, putrefarsi, nullificarsi, se venisse sottoposto all'intollerabile peso di trecento pagine in due mesi. Dovrà accontentarsi del nudo Amleto, senza nessuna altra tragedia o commedia, accompagnato da qualche paginetta di critica. Se le pagine adottate fossero duecentocinquantadue, lo studente potrebbe rifiutarsi di leggerle, mentre il direttore del dipartimento avrebbe il dovere di rimproverare, minacciare o punire con le verghe il professore troppo «elitario». Una parte degli studenti non acquista più libri (anche se un Oscar costa 12 euro e un classico di Repubblica o del Corriere 7.90). Pretende di usare soltanto fotocopie, che contengono esclusivamente le poche cose commentate durante le lezioni (82 versi di Shakespeare, 13 della Dickinson, 60 dell' Odissea, un capitolo di Madame Bovary, 30 righe Hölderlin). Ma siccome una minoranza degli studenti italiani è molto più intelligente dei ministri (e spesso dei professori), alcuni si ribellano e pretendono di studiare. Vogliono leggere tutta l'Iliade e l'Odissea e tutte le Metamorfosi di Ovidio e quelle di Apuleio e la Divina Commedia e il Faust e persino i tredici volumi che, nella Pléiade, raccolgono la Comédie humaine di Balzac, e naturalmente Guerra e Pace. Questo è, per fortuna, il paradosso italiano; su cento sciocchi, ci sono sempre sette ragazzi intelligentissimi: molto più fantasiosi e colti degli scrupolosi studenti americani, come dice un amico che insegna anche negli Stati Uniti. Il primo inconveniente, che l'onorevole Berlinguer non ha previsto, è che il sistema della laurea breve non funziona nelle facoltà universitarie. I fuori corso continuano ad accumularsi, nelle tristi pensioncine vicino alla Sapienza e alla Stazione Termini. Nessuno studia, o studia in modo confuso e impreciso: eppure chi ha scelto la laurea breve non riesce a laurearsi, tale è la frammentazione del sistema universitario, la moltiplicazione dei corsi inutili, il groviglio burocratico, il caos, il guazzabuglio e la confusione che la GRANDE RIFORMA ha introdotto nelle cose più usuali. Il secondo inconveniente, molto peggiore, è che la laurea breve non porta a nessun lavoro. In realtà, è una truffa. Non permette di insegnare nelle scuole medie e nei licei: consente, sì, di diventare redattore nelle case editrici, dove nessuno accoglierà mai un ventunenne che ignora la lingua italiana. Permette di fare la guida turistica e il custode dei musei: ma non credo che la richiesta sia grande. Consente una sola cosa: fare concorsi che gli permettano di partecipare a nuovi concorsi che gli apriranno la strada a altri concorsi, che infine gli consentiranno di scrivere, con mano rugosa e tremante, la domanda per un concorso definitivo: la morte. Nemmeno questa volta, forse, la sua richiesta verrà accolta.
Dopo i tre anni di laurea breve, ci sono i due anni di studio specializzato, che dovrebbero permettere (ma non è sicuro) di insegnare nelle scuole medie e nei licei. Per ora, pochissimi hanno iniziato questo studio; ed è quindi fuori luogo parlarne. Ma ho qualche dubbio. Mi sembra difficile che chi non è riuscito a leggere 252 pagine in due mesi, si trasformi improvvisamente in un eccellente studioso di Pindaro o di Dante o di Rilke. Il risultato della GRANDE RIFORMA è che, in cinque anni, si studierà molto meno e peggio che nel vecchio, mediocre ordinamento universitario di quattro anni.
Intanto, come una pianta tropicale malefica, la GRANDE RIFORMA estende dappertutto le sue ramificazioni; e fra poco, ce la troveremo in casa, tra le pentole, le stoviglie e i bicchieri. Le diverse università si fanno concorrenza fra loro, per attirare un numero maggiore di studenti, e per riuscirci abbassano sempre più severità degli studi. All'interno di ogni università, il professore di letteratura francese, a caccia di allievi, fa concorrenza a quello di letteratura tedesca, di letteratura inglese, o di storia della filosofia - e il modo migliore, naturalmente, è quello di far leggere soltanto sessanta pagine di Racine e trenta di Molière e dodici versi di Baudelaire, mentre l'ingenuo germanista pretende almeno la lettura integrale delle Affinità elettive (p. 290).
Il caos, le pretese, la megalomania, le ostentazioni, l'invidia hanno raggiunto il diapason; e i professori trascorrono pomeriggi interi (come accade anche nelle scuole medie) in riunioni, discussioni e litigi interminabili. Una volta, i volumi delle collane di cultura venivano saggiamente adottati: era bello che uno studente conoscesse Curtius o Praz o Duby o Mazzarino, o addirittura Gibbon; ma ora questi classici sono stati sostituiti da librettini che in sessanta pagine spiegano Dante o le Crociate. Tutto ciò contribuisce, come l'onorevole Berlinguer non immagina, alla rapida distruzione dell'editoria di cultura, che qualsiasi governo italiano pretende di amare e proteggere con tutto il cuore. E, infine, come Claudio Magris, i professori fuggono. Non c'è alcuna ragione di restare in un'Università dove l'insegnamento è quasi impossibile. Molto meglio andare in pensione: o scrivere articoli sui giornali, dove non c'è la tre più due; o insegnare negli Stati Uniti, dove ogni professore ha la chiave della biblioteca e può entrarvi alle sette di mattina o alle due di notte, togliendo amorosamente i libri dagli scaffali con le proprie mani e studiando quello che vuole, quando vuole, come vuole, mentre nel campus illuminato dalla luna i galli neri e bianchi si inseguono con frenesia.
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Non contenta delle imprese distruttive del suo predecessore, Letizia Moratti sta preparando progetti forse ancora più spettacolari. Mi duole di non poter essere preciso: perché, nell'argomento dell'Università, nulla è sicuro: tutto oscilla, vaga, si contraddice, con la consistenza delle nuvole rosee e grigie nel cielo tempestoso di aprile. Quello che dico oggi, domani non è più vero. Il ministro non sa quello che prepara il suo ufficio studi. Gli psicologi sabotano i pedagoghi. La Camera ignora quello che sta legiferando il Senato. Berlusconi ignora quello che pensa Tremonti: e tanto più Prodi che, nei suoi viaggi incessanti tra Bruxelles e Roma, medita certamente una nuova, grandiosa GRANDE RIFORMA, che comprenderà in sé tutte le riforme passate e future, tutte le riforme possibili e inverosimili, tentate in ogni paese del mondo. Mi limito a indicare non so se due progetti di leggi o due voci. La prima è che, da qualche parte, in un oscuro armadio barocco della Camera o del Senato, giace un progetto secondo il quale al 3 + 2 si sostituirà (o si congiungerà) l' 1 +4. Tutte le facoltà avranno un anno di corsi comuni - sociologi dei buchi neri, scienza azteca, letteratura khmer, ermeneutica della televisione, psicologia della settima età, propedeutica al sesso orale, Che Guevara e il mito classico, arte e tecnica del terrorismo, Bush e Bin Laden, metafisica di Umberto Bossi -; dopo il quale gli studenti decideranno quale facoltà scegliere. La seconda è che la laurea breve (tre anni) condurrà a due anni abilitanti: in questi due anni, non si insegnerà niente. Si insegnerà a insegnare. Alcune migliaia di pedagoghi, psicologi, teorici dell'età evolutiva, apprenderanno agli allievi le arti, i trucchi, i vezzi dell'educazione.
Dopo questi due anni, gli studenti della laurea breve, senza sapere niente e aver letto pochissime fotocopie, andranno ad insegnare nelle medie e nei licei italiani; e così via, all'infinito, secondo un processo di decadenza che non avrà più fine. Più preoccupante è l'ipotesi che riguarda gli studenti della laurea specialistica: perché dopo tre anni di laurea breve, due anni di laurea specialistica, dovranno (forse) affrontare altri due anni abilitanti. Totale: sette anni di studi quasi completamente vani.
Non vorrei accusare soltanto Luigi Berlinguer e Letizia Moratti. Sebbene siano nulli, sono (in parte) innocenti. Tutte queste demenze universitarie dipendono anche dagli ultimi trenta (o quaranta) anni di folle benessere e folle stupidità europea e americana. Andiamo alle Seychelles, alle Maldive, a Samoa, in Antartide, passiamo il fine settimana nella seconda, quarta o quinta casa, assistiamo alle trasmissioni in cui dodici genii discutono di cose che ignorano completamente, o otto uomini politici cercano di sedurre gli elettori con programmi che farebbero bene a nascondere. Tutti credono che la democrazia sia l'immensa facilità ! I bambini non debbono stancarsi: gli studenti universitari non debbono leggere - e mai, mai, mai, cose difficili. Proibiti, Platone, Plotino, i Vangeli, san Paolo, Pascal, Dostoevskij, Proust, Musil. Proibito camminare a piedi. Proibito nuotare. Proibito guardare il mondo senza macchine fotografiche o cineprese.
Come ha scritto giorni fa Federico Rampini in un bell'articolo su Repubblica, i cinesi e gli indiani la pensano diversamente. Studiano cose difficilissime: fanno ricerche, moltiplicano i brevetti. Gli americani (che sono, malgrado la nostra infantile supponenza, molto meno sciocchi di noi), sono preoccupati. Mentre le fabbriche e i lavori più elementari si spostano in Oriente, l'unico strumento dell'Europa è l'estrema esattezza e precisione della mente (spero anche dell'anima). Le lauree brevi, i corsi abilitanti, la facilità generale distruggono la poca precisione rimasta. Se le riforme Berlinguer e Moratti non troveranno ostacoli, fra qualche anno non i cinesi e gli indiani ma gli abitanti del Gabon e della Nigeria insegneranno storia antica, letteratura francese e tedesca nelle nostre Università: lingua e letteratura italiana ai licei. A me piacerebbe moltissimo: ma non so cosa ne pensino gli attuali studenti di lettere. Intanto, cogli occhi spalancati sul televisore, gli italiani continueranno a fantasticare se Prodi sia meglio di Berlusconi, o Berlusconi di Prodi.
(la Repubblica, 8 giugno 2004)
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