13.6.06

L'accademia che piace a Confindustria

Giovanni Dosi e Mauro Sylos Labini
08-06-2006
(articolo tratto da www.lavoce.info/)

Confindustria e le piu' importanti associazioni degli imprenditori hanno firmato lo scorso 21 marzo un "Documento comune sull'universita'". Il fatto che il mondo produttivo si interessi allo stato di salute del sistema universitario e proponga strategie di riforma e' un dato positivo, soprattutto nel nostro paese dove la spesa delle imprese in ricerca e sviluppo e' circa la meta' della media europea: appena lo 0,43 per cento del Pil rispetto allo 0,95 per cento dell'Unione Europea e in particolare all'1,37 per cento della Germania e all'1,11 per cento della Francia. Anche per questo puo' essere importante evidenziare, insieme agli aspetti positivi, i punti deboli e alcune ingenuita' del documento.

Il meccanismo di finanziamento

Il punto di partenza, assolutamente condivisibile, e' che nessuno sembra essere contento dell'universita' italiana. In particolare, le imprese percepiscono un progressivo deterioramento della qualita' della formazione universitaria.
Il documento propone una strategia di riforme articolata in tre punti principali: (1) la valutazione e il finanziamento delle universita', (2) la riforma del sistema di governo degli atenei e (3) la differenziazione dello spazio terziario dell'istruzione.
Ci concentriamo qui sul primo punto, che oltre a essere il piu' importante, e' quello affrontato con maggiore precisione.
In Italia, circa il 65 per cento delle entrate del sistema universitario e' pubblico, in linea con altri paesi Ocse: in Olanda, per esempio, tale quota e' al 65,7 per cento e nel Regno Unito al 60 per cento. La gran parte e' erogato dal governo centrale attraverso il Fondo finanziamento ordinario. Il meccanismo attraverso il quale il Fondo viene ripartito fra gli atenei, cambiato dalla legge n. 537/1993, prevede una parte assegnata su base storica, e una quota di riequilibrio che sostanzialmente premia gli atenei capaci di attirare piu' studenti e di far laureare un numero maggiore dei propri iscritti. Solo recentemente e' stato proposto di considerare la produzione scientifica, peraltro utilizzando parametri discutibili, fra le determinanti della quota di riequilibrio. Anche se mancano dati precisi, sembra che finora gli unici effetti delle nuove regole siano stati l'aumento delle spese in pubblicita' degli atenei e il progressivo deterioramento degli standard degli insegnamenti. e' quindi condivisibile la considerazione centrale della prima parte del documento: occorre "introdurre con gradualita' metodi di valutazione dei risultati e delle performance, sulla base del principio che i ?finanziamenti premiano i risultati'".

Come valutare le universita'

Per passare da enunciati sui quali e' difficile essere in disaccordo a proposte concrete e' necessario, pero', rispondere ad almeno due domande. Quali sono i risultati da premiare? E, in secondo luogo, a chi deve essere affidata la valutazione?
Le risposte a tali quesiti rappresentano la parte piu' delicata del documento: "La valutazione deve essere affidata a un organismo indipendente, composto da esperti in campo scientifico e tecnologico, provenienti dal mondo accademico e produttivo, italiani e stranieri". Non ci sono dubbi sul fatto che le universita' debbano essere valutate da un organismo non politico composto da scienziati e professori di fama internazionale (molto meglio se stranieri). Non e' chiaro pero' perche' nella maggior parte delle discipline debbano esserci esperti del mondo produttivo. e' difficile infatti che un imprenditore (o un sindacalista) possegga le competenze per valutare la produzione scientifica delle universita'. Chiedere a uno scienziato un parere vincolante sulla qualita' di un prodotto commerciale non e' forse il modo migliore per far aumentare i profitti di un'impresa. Simmetricamente e' almeno altrettanto paradossale chiedere a un imprenditore un giudizio sulla produzione scientifica in biologia molecolare, fisica teorica, per non parlare di filosofia o letteratura. I risultati ottenuti dalla Luiss, universita' vicina a Confindustria, nella valutazione della ricerca, sembrano confermare il nostro scetticismo. L'importante ruolo del mondo produttivo nei paesi nei quali le relazioni fra universita' e impresa funzionano bene non e' quello di far parte di commissioni di valutazione. Potrebbe e dovrebbe essere invece quello di selezionare e assumere i laureati che provengono dalle universita' che offrono una migliore preparazione. In questo gli imprenditori possiedono, o almeno dovrebbero possedere, qualche "vantaggio comparato".
Per quel che riguarda i risultati da premiare, il documento per prima cosa distingue giustamente fra le due funzioni istituzionali dell'universita': "I criteri coi quali valutare l'attivita' di ricerca devono comprendere sia la rilevanza scientifica sia le potenziali ricadute sul sistema socioeconomico (brevetti, licenze, applicazioni pratiche dei risultati)"; "I criteri per la valutazione delle attivita' didattiche devono basarsi su parametri qualitativi e quantitativi che debbono essere resi previamente pubblici (...)".
Il punto che riguarda la didattica e' abbastanza generico da essere incontrovertibile (anche se non e' chiarissimo cosa siano i parametri qualitativi). La parte relativa alla ricerca, invece, puo' risultare fuorviante quando si provano a individuare criteri diversi dall'eccellenza scientifica. e' sicuramente auspicabile infatti che le scoperte scientifiche abbiano delle ricadute sul sistema socioeconomico. Il problema principale e' che la storia della scienza e della tecnologia insegnano che queste ricadute sono molto spesso imprevedibili e si manifestano con grandi ritardi temporali. Oltretutto, persino se si verificano immediatamente, valutarle con parametri oggettivi e' quasi impossibile. Infatti, anche ammesso che sia desiderabile incentivare la ricerca in aree del sapere nelle quali si producono piu' brevetti o prototipi - cosa nella quale crediamo pochissimo -, questi ultimi rappresentano solo una piccolissima parte dell'impatto che le universita' hanno sul sistema produttivo. (1)
Il documento compie un passo ulteriore: gli "atenei e gli enti pubblici di ricerca devono essere valutati sulla base della loro capacita' di collaborare con il sistema produttivo e per le attivita' di trasferimento tecnologico che realizzano". Le perplessita' esposte nel paragrafo precedente si applicano con ancora piu' forza a quest'ultimo punto, che sembra definire un nuovo compito istituzionale delle universita': collaborare con le imprese e trasferire tecnologie. Tali collaborazioni, sicuramente un fattore positivo per lo sviluppo economico, non possono pero' essere oggetto di valutazione. Sarebbe come chiedere alle imprese di non pensare a fare profitti, ma di pubblicare su riviste internazionali di fisica teorica o di matematica.
Il trasferimento tecnologico si realizza se le imprese individuano opportunita' tecnologiche nelle aree del sapere piu' vicine ai loro interessi di ricerca applicata, decidono di finanziare progetti e dottorati di ricerca, e piu' in generale sviluppano capacita' di selezione e assorbimento di dottorati top level. In questo modo, le imprese traggono i principali vantaggi assumendo buoni ricercatori in grado di sviluppare innovazioni di processo e di prodotto profittevoli. Al contrario, universita' incentivate, peraltro con soldi pubblici, a offrire consulenze a basso costo non fanno bene ne' alla ricerca ne' all'impresa.
Ormai c'e' una deriva lamentata anche dalle grandi imprese internazionali: troppa attenzione agli interessi tecnologici di breve periodo del mondo produttivo fa male alle imprese stesse. L'universita' deve fare un altro mestiere. Ma deve farlo bene. E in Italia, finora, non e' stato cosi'.

(1) Mansfield, E. (1995) "Academic Research Underlying Industrial Innovations: Sources, Characteristics, and Financing", The Review of Economics and Statistics, 77(1), 55-65.

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