Riflessioni. Gli atenei italiani scontano guasti antichi e recenti, come l'applicazione della riforma Berlinguer-Zecchino. E sullo sfondo c'e' la delegittimazione della cultura come tale Alfio Mastropaolo
L'universita' e' davvero un problema. Ha ragione il Ministro Mussi, pur se, per quante cose discutibili abbia fatto il suo predecessore, la sostanza dei guasti e' piu' antica. Alcuni sono antichissimi; ma altri sono piu' recenti: come quelli combinati dall'applicazione delle riforme Berlinguer-Zecchino.
Cominciamo dagli studenti, in premessa enunciando la recente radicale trasformazione dell'utenza studentesca. L'evoluzione della scuola media superiore - ove spiccano la demagogica abolizione degli esami di riparazione e la banalizzazione dell'esame di maturita' - ha fatto si' che gli studenti che accedono all'universita' in media dispongono di livelli di conoscenza assai insoddisfacenti. In piu', spessissimo ci s'iscrive all'universita' solo come alternativa alla disoccupazione, ben sapendo che la qualificazione raggiunta non offrira' alcuna garanzia di occupazione futura. Con che impegno si studia in tali condizioni?
Sullo sfondo c'e' poi una piu' generalizzata delegittimazione della cultura come tale. In tutte le societa' occidentali si spregiano ormai le idee generali, l'astrazione, la ricerca e sempre meno scuola e universita' sono riconosciute luoghi di promozione culturale e civile, ove acquisire capacita' di riflessione, argomentazione e critica.
In tale scenario si situa l'introduzione del nuovo regime 3+2+3. Tralasciamo un movente inconfessabile (l'Italia doveva moltiplicare in fretta i laureati per reggere la concorrenza statistica col resto d'Europa) e veniamo alla sostanza. Il nuovo regime voleva soddisfare un'esigenza fondamentale. Ormai troppi studenti appassivano nei ranghi dei fuori corso, mentre un ciclo di studi piu' leggero, magari professionalizzante, ne avrebbe soddisfatto una quota cospicua. Le lauree biennali avrebbero offerto a chi era interessato una formazione piu' protratta e qualificata.
Il disegno era intelligente e realistico. Ma l'hanno in buona parte vanificato il deficit di competenze degli studenti, la contrazione del mercato del lavoro (per cui tantissimi si proiettano comunque verso le biennali) e soprattutto l'incrocio di norme macchinose e noti difetti degli accademici.
Intanto, il carico di studio nei trienni andava alleggerito, mentre spesso nei trienni si sono forzati i vecchi curricula quadriennali. Inoltre, con la motivazione di fornire una formazione professionalizzante, s'e' registrata un'incontrollata proliferazione di diplomi dai titoli fantasiosi e dai contenuti illusorii. Ogni congrega accademica ha voluto il suo, magari in qualche remoto comune di provincia (gia', c'e' pure la proliferazione delle sedi!), mentre l'ultimo danno lo hanno fatto le nuove norme che regolano il finanziamento delle universita'. Chi ha piu' studenti, ha piu' disponibilita' finanziarie. Dunque, dagli a inventarsi diplomi!
I problemi delle lauree triennali ricadono sulle lauree specialistiche. Anche qui i docenti hanno dato prova di sfrenata fantasia. Ma se forse basterebbe un rigoroso vaglio (nazionale) per rimediarvi, il vero problema e' l'assenza sovente di un'accettabile formazione di base.
Ci sono infine i dottorati di ricerca. Due almeno i punti critici. L'uno e' il "provincialismo" conseguente la dismissione, dipendente dall'autonomia finanziaria riconosciuta alle universita', dei consorzi interuniversitari di dottorato. I quali costituivano una preziosa opportunita' per mettere i dottorandi a contatto con un gruppo di docenti piu' vasto, ma anche per definire standard di valutazione piu' affidabili: peraltro, le commissioni per l'esame finale erano costituite centralmente. Oggi tutto si svolge in sede locale, ci si addottora dove si erano iniziati gli studi e la qualita' delle tesi e' modesta, perche' ogni dottorato la giudica da se'.
Il secondo punto critico e' l'attivazione, da alcuni anni in qua, di una quota sostanziosa di dottorati senza borsa. Se e' giusto accrescere il numero dei dottori, guai a far nozze coi fichi secchi. Far ricerca e lavorare e' un'impresa impossibile. E naturalmente ne scapita la qualita'.
Nell'insieme e' uno stato di cose penoso. Per il quale non e' certo un rimedio la corsa a istituire centri formativi "d'eccellenza" (ai tre livelli e magari privati). Se potrebbero servire scuole sperimentali che interagiscano con le altre, le "eccellenze" sono la caricatura delle grandes e'coles transalpine, che drenano una quota sproporzionata di risorse finanziarie e sono essenzialmente circoli ove le future e'lite intessono i loro networks relazionali.
E' del resto discutibile, in un regime democratico, la gerarchizzazione tra un sistema formativo di serie A, riservato a pochi eletti, e un sistema di serie B. La tradizione italiana prevede che tutte le universita' operino su un piede di parita' e, a ben guardare, le differenze qualitative tra un'universita' e l'altra, che pure non mancano, non erano ne' clamorose, ne' irreversibili. Non v'e' motivo per dismettere questo modello.
Qualcuno, ripetendo lo stucchevole ritornello della concorrenza, suggerisce di premiare finanziariamente le universita' piu' meritevoli e penalizzare le altre. Ma se l'adozione di un sistema di valutazione della ricerca (anche se andra' perfezionato) e' stata una mossa azzeccata, non dimentichiamo che in Italia la mobilita' degli studenti e' circoscritta. Quindi quelli di Bari hanno diritto al medesimo trattamento, e alla stessa qualita' di servizio, di quelli di Milano. Piuttosto: se si sa che una facolta' non raggiunge uno standard accettabile, che la si commissari (o si penalizzino i docenti vecchi, reclutandone magari di nuovi)!
(tratto da: AprileOnLine.Info n. 229 del 22/09/2006)
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