30.1.07

ESAMI di Scienza politica e Politica comparata 2006/2007

Per chi ancora non lo sapesse, la prova di esame per gli studenti del primo anno quest'anno non sara' scritta (come avevo ipotizzato all'inizio del corso) ma orale.
Siete pregati di prenotarvi, e di farlo direttamente con una e-mail o di persona (nonche' di comunicarmi l'eventuale rinuncia), ma di farlo in tempo utile (fino ad una settimana prima dell'esame).

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28.1.07

Espugnare la cittadella universitaria

Massimo Arcangeli*

il manifesto, 25 Gennaio 2007
LETTERE


Tempo fa, in un vivace articolo apparso su Repubblica, Mario Pirani, per il permissivismo che avrebbe ormai abbondantemente superato il livello di guardia, ha ritenuto il nostro attuale sistema educativo corresponsabile degli episodi di violenza fisica e verbale di cui, ormai quasi quotidianamente, sono protagonisti i giovani. Il fallimento delle riforme in materia di Luigi Berlinguer e di Letizia Moratti passerebbe soprattutto per di qua, per le maglie sempre più lasche «di un sistema scolastico che ha praticamente abolito la durezza degli esami, i voti negativi, il rinvio a settembre (sostituiti da port-foli, crediti, debiti e 6 rossi), annullato la certezza e la generalità dei programmi (per una buona parte dell'orario lo studente 'sceglie' corsi di personale propensione), le bocciature, le sospensioni». La soluzione? Un «ritorno all'ordine», proponeva Pirani, «che aiuti i ragazzi di oggi e di domani a affrontare con consapevolezza responsabile le difficoltà della vita adulta»; non uno «slogan reazionario», dunque, «ma un appello alla più elementare virtù civica».
Un analogo appello mi sentirei di lanciare anche per l'università, che comincia ormai a patire gli stessi problemi della scuola primaria e secondaria e che si vorrebbe trasformata, nelle intenzioni del legislatore, in una naturale, friendly, non traumatica prosecuzione degli studi superiori; in quel superliceo, evocato sempre più spesso, che nasconde tutte le insidie di una semplificazione che è in realtà, in molti casi, una «semplicistizzazione». La prima, nelle sue forme più serie, come ci ha insegnato la migliore pedagogia, è una faticosa conquista ottenuta dalla progressiva distillazione del sapere; sulla seconda, che trova spesso accoglienza anche in quel certo, deteriore telegiornalismo che ha rinunciato del tutto a corredare del necessario commento le dichiarazioni del nostri politici, pesa invece un vizio di origine: l'assenza di una decente elaborazione concettuale, di un ragionamento che sia frutto di una vera riflessione.
Nei nostri atenei forse un giorno la produttività dei singoli docenti, oggi misurata con i test anonimi di valutazione i quali, compilati dagli studenti, tornano nelle mani dei titolari delle varie discipline, potrebbe essere in futuro valutata dagli organi competenti sulla base del numero dei candidati «varati» agli esami: perché in un'ottica commerciale e aziendale, come ha osservato ancora Pirani nell'articolo di cui si diceva, «il cliente ha sempre ragione». È venuto, certo, il tempo che l'università cessi di essere l'umbilicus mundi, che si sottragga al circolo vizioso di un'autoreferenzialità talora arroccata sulla difesa della centralità intoccabile e imperitura delle sue supposte superiori funzioni; l'università oggi, più che interpretare (da depositaria dell'Unica Verità), deve dialogare e interagire su di un piano di sostanziale parità con i suoi interlocutori: la scuola secondaria, naturalmente, ma poi gli altri soggetti istituzionali e le imprese, e ancora gli enti e le associazioni presenti sul territorio, il mondo dell'informazione e delle comunicazioni di massa, gli organismi nazionali e internazionali che svolgono attività di ricerca e di promozione della cultura al di fuori del contesto dei vari atenei. Ma se il mondo si è fatto troppo complesso per poter essere racchiuso nelle quattro mura delle aule e dei laboratori di ricerca, o nelle mura di cinta delle città e cittadelle che li contengono, ciò non vuol dire che ci si debba calare completamente le braghe pur di soddisfare le esigenze di un mercato che prende le mosse da quella che è una vera e propria «campagna acquisti studenti» e che punisce chi non si adegua al livellamento verso il basso delle proposte (e delle relative richieste) didattiche.
Intanto le giovani generazioni appaiono in precipitosa fuga da una formazione scientifica le cui basi concettuali non sembrano ormai realmente in grado di assimilare; le varie case editrici che pubblicano testi e manuali per l'università costringono il sapere delle diverse discipline in un numero sempre più contenuto di pagine di mortificante o discutibile qualità; gli esami si riducono a schermaglie in cui l'unica cosa a non essere testata è proprio la preparazione dei candidati, ai quali (come ci ha ricordato, non molto tempo fa, Raffaele Simone) sfugge una parte consistente del lessico normalmente posseduto dalle persone di media cultura e i cui ragionamenti lasciano, nella migliore delle ipotesi, alquanto a desiderare; le tesi di primo livello (ma talvolta anche quelle di secondo) sono spesso il frutto di un'operazione di maldestro assemblaggio di materiali pescati alla rinfusa da quell'immenso serbatoio di notizie che è internet, che ha ormai svuotato completamente di senso anche il preliminare allestimento di una semplice, ma metodologicamente preziosa, bibliografia.
Tutto questo ai nostri legislatori e ai nostri rettori (preoccupati soprattutto, dati i tempi di magra, di far quadrare i bilanci) non sembra però importare molto; quello che conta veramente sono i confortanti dati statistici prodotti dalla riforma del «3+2». Il numero dei laureati, ci hanno fatto sapere qualche mese fa i rappresentanti della Crui in audizione presso le commissioni Bilancio di Camera e Senato, è sensibilmente aumentato, così come gli iscritti ai vari atenei (da 1.684 mila del 1999 a 1.800 mila del 2004), mentre si è drasticamente ridotto quello dei fuori corso (dal 90 per cento del 2001 al 62,4 per cento del 2005). Tanto basta. Stare a discutere di tutto il resto (la qualità dell'insegnamento, la serietà delle prove d'esami, il livello culturale dei nostri studenti) è voler fare pura accademia. Peccato però che anche gli accademici siano sempre più l'ombra di stessi: sempre più burocrati e sempre meno ricercatori; sempre più mere «funzioni didattiche» e sempre meno «esseri pensanti». 

* Linguista e critico letterario, Università di Cagliari

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22.1.07

Prenotazioni per il 24 gennaio

Scienza Politica e Politica Comparata:
1) NAPOLITANO Carlotta
2) PALVETTI Diana
3) RAMBELLI Nicola
4) PARENTE Maria Rosaria
5) SANNINO Diana
6) LAMBIASE Vincenza
7) IRACE Tayga
8) MINGIONE Valentina
9) RUSSO Mariagrazia
10) TITONE Vincenzo
11) TESSITORE Anna Nicolina
12) RUBINO Giovanni
13) RISORGENTE Marco
14) LONGOBARDI Giovanni
15) RIZZANO Anthea Roberta
16) VENDITTI Fabio
17) TEBYANYAN Shirin
18) PALUMBO Francesco
19) RODRIQUEZ Roberta
20) LIMATOLA Giorgio
21) VIVO Erminia

Altri insegnamenti di v.o., triennale e specialistica:
1) PERNA Alessandro

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12.1.07

Università, senza risorse non si va avanti

AprileOnLine.info 12 gennaio 2007

Lettera a Romano Prodi      Le ristrettezze economiche in cui versa l'università italiana -macroscopiche a confronto con la situazione in cui si trovano le università degli altri paesi, non solo economicamente avanzati - hanno sugli sprechi e sugli squilibri un effetto decisamente peggiorativo

Signor Presidente, come Ella certamente sa, tra gli universitari serpeggia una sensazione di smarrimento, a volte orientata verso la delusione più disimpegnata, a volte verso la protesta più sconsiderata, a causa della grande distanza tra le aspettative riposte in questo governo e le concrete azioni che sin qui sono state intraprese. Contemporaneamente, voci autorevoli, ma interessate, promuovono nell'opinione pubblica l'immagine di una università allo sfascio. Non è così, e Lei lo sa bene. L'università italiana ha problemi seri ma non è allo sfascio, e chi lo afferma fa un'opera di grave disinformazione di cui si prende tutta la responsabilità. Piuttosto va riconosciuto che i problemi dell'Università italiana sono comuni alle università europee. Ad esse, il 12 Giugno 2006 Newsweek ha fatto riferimento nei termini seguenti: "From grade schools to universities, Europe's underfunded, antiquated education systems are failing a new generation." Questo va ricordato non per il rituale mal comune mezzo gaudio, ma per evitare il ricorso a spiegazioni e a rimedi idiosincratici, destinati perciò a fallire e ad aumentare il senso di frustrazione o lo stimolo al cinismo.

Noi lavoriamo nell'università e ci crediamo, crediamo che sotto vari aspetti l'Università italiana si stia sviluppando positivamente e che, tenuto conto delle difficoltà generali che sono la scarsità di fondi e l'obsolescenza del sistema, si stia complessivamente muovendo nella direzione giusta, cercando di assumere un ruolo sempre più articolato nella società. Ma senza risorse non si va avanti. Se peraltro in varie sedi, anche governative, è maturata la convinzione che gli investimenti sull'università così come è oggi non siano pienamente produttivi, il dovere del Governo sarebbe quello di renderli tali, non di depotenziare ulteriormente l'intero sistema senza distinguere. Anche a nostro avviso esistono nell'università degli sprechi e degli squilibri che un governo riformatore, insieme alle forze universitarie dedicate e progressiste, dovrebbe impegnarsi da subito a combattere.

Dobbiamo tuttavia notare che le ristrettezze economiche in cui versa l'università italiana -macroscopiche a confronto con la situazione in cui si trovano le università degli altri paesi, non solo economicamente avanzati - hanno sugli sprechi e sugli squilibri un effetto decisamente peggiorativo. E' illusorio pensare, come mostrano di fare alcuni colleghi economisti che hanno goduto di grande ascolto presso alcuni esponenti del nostro governo, che accrescere le ristrettezze porti automaticamente all'assunzione di comportamenti più virtuosi da parte del mondo accademico, grazie al "mercato", che nel caso specifico non esiste perché non esiste mobilità dei fattori. La recente proposta di privatizzare le università trasformando il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) in buoni scuola (voucher) sembra fatta da persona non al corrente di fatti basilari, come il colossale fiasco del progetto americano di voucher, dovuto lì, e a maggior ragione lo sarebbe qui, al fatto che le università e le scuole non sono bond scambiati a Wall Street, ma luoghi fisici complessi ove è necessario recarsi e inserirsi. Tutte le ricerche dimostrano che anche se gli studi universitari fossero gratuiti il numero di studenti disponibili a muoversi sarebbe comunque severamente limitato dalla indisponibilità di adeguate soluzioni abitative per gli studenti stessi.

Solo a Milano il deficit è stato stimato attorno a 20.000 posti, il che rende particolarmente evidente l'esigenza di forti interventi nel settore del diritto allo studio, uno di quelli nei quali è più alto il nostro divario dagli standard internazionali (in questo caso anche europei). All'opposto di quanto viene predicato con ingiustificata sicumera, le ristrettezze generano una serie di ulteriori distorsioni che precludono le possibilità di miglioramento e di razionalizzazione, mentre una ragionevole disponibilità di risorse aggiuntive consentirebbe di indirizzare il sistema e di premiare i comportamenti virtuosi . Non può esservi quindi un "prima" e un "dopo": la politica contro gli squilibri e gli sprechi e quella contro i tagli indiscriminati debbono essere portate avanti congiuntamente.

Quali politiche potrebbero essere avviate fin da ora?
L'istituzione dell'Agenzia per la Valutazione è una scelta che condividiamo pienamente, e auspichiamo che i provvedimenti necessari per consentirle di decollare siano assunti rapidamente. Ma l'esperienza dei Paesi che hanno da tempo in atto strumenti di questo tipo ha mostrato che da quando il sistema viene messo a punto a quando esso è concretamente utilizzabile per orientare le scelte finanziarie passano parecchi anni (almeno 3 o 4); gli atenei non possono certo attendere tanto.

L'immissione, assolutamente necessaria fin dall'inizio del 2007, di risorse aggiuntive rispetto a quelle previste nella Finanziaria, a partire dalla riconsiderazione della situazione con la trimestrale di cassa, dovrebbe pertanto anticipare alcuni criteri premianti, privilegiando le assegnazioni alle Università che, complessivamente ovvero per loro specifiche strutture, presentino documentati progetti di "miglioramento della qualità" (riduzione di costi, maggiore efficacia ed equità connesse a innovazioni e all'uso più efficiente delle risorse); alla valutazione ex ante dovrà seguirne una corrispondente ex post organizzata in modo affidabile e rigoroso.

Citiamo, al proposito, due esempi concreti di incrementi di efficienza che le università potrebbero immediatamente acquisire adottando proprie delibere tese a realizzare nell'ateneo il massimo impegno dei propri docenti, e perciò anche incrementi di entrate e diminuzione di spese.

1) L'università può decidere di incentivare per i docenti a tempo pieno l'attività esterna riferibile all'istituzione, in modo che anche gli atenei ne traggano vantaggio (una improvvida norma sul pubblico impiego ha lasciato agli atenei totale discrezionalità nell'autorizzare per essi attività private, in contrasto con l'idea stessa di docente a tempo pieno). Si noti che, fiscalmente, e' oggi conveniente svolgere attività di ricerca applicata e di consulenza attraverso convenzioni-commesse stipulate con i Dipartimenti di appartenenza. Al riguardo, anche il Governo potrebbe utilmente operare dando a tutte le strutture pubbliche un preciso indirizzo: se e' ritenuta utile la consulenza di un docente universitario, la si affidi sempre tramite l'istituzione e non a titolo personale (ciò deve valere anche per l'affidamento di incarichi pubblici a docenti a tempo definito). A loro volta, le università dovrebbero regolare con più sapienza e flessibilità i prelievi su commesse in conto terzi o altre forme di consulenze, rendendo al contempo meno pesanti le incombenze amministrative per i docenti, ai fini di incentivare i propri membri a promuovere queste commesse e di rendere gli atenei concorrenziali sul mercato della ricerca e della expertise.

2) Senza farsi bloccare da cavillosi quesiti che sono stati sollevati da chi vuole lavorare il meno possibile, l'università può attuare immediatamente (solo pochi atenei hanno finora provveduto) la norma che impone 120 ore di attività didattica "frontale" ai docenti a tempo pieno (80 ai docenti a tempo definito). Spetta alla normativa di Ateneo precisare il concetto di "frontale": può non essere la didattica retorica, cattedra parlante e banchi silenti, burocraticamente intesa, ma quella interattiva, a piccoli gruppi, con laboratori e seminari in cui i docenti lavorano assieme agli studenti, anche con strumenti comunicativi multimediali. Tutte attività verificabili, che possono essere disciplinate, poiché autonomia non è assenza di regole, ma potere di definirle; tali regole potranno eventualmente anche stabilire specifiche incombenze direzionali-organizzative che possano essere considerate sostitutive di parte del carico didattico (attualmente, infatti, gli oneri gestionali spesso gravosi sono assunti prevalentemente, in spirito di servizio, proprio dai docenti anche didatticamente più impegnati). Le spese per contratti di insegnamento possono così diminuire.

Da questi esempi, che potrebbero essere completati da molti altri, riteniamo appaia chiaro che ciò che chiediamo al Presidente del Consiglio, e a tutto il Governo, non e' un generico ampliamento delle risorse.
Vogliamo che le università e i docenti siano messi in condizione non di lavorare meno, ma di lavorare meglio. E' necessaria una scelta selettiva, in termini di qualificazione della spesa, atta a riportare al centro dell'attenzione - come era nel programma elettorale dell'Unione - lo sviluppo del sistema formativo superiore come condizione per lo sviluppo del Paese: se, come auspichiamo, una chiara indicazione in questo senso emergerà dalla riunione dei Ministri dei prossimi giorni 11 e 12 gennaio, avremo tutti un forte stimolo alla prosecuzione del nostro impegno.

Firmatari:
Roberto Antonelli (Roma La Sapienza, Preside Facoltà di Scienze Umane)
Gabriele Anzellotti (Trento, Membro del C. U.N. -Consiglio Universitario Nazionale- , già Presidente della Conferenza Nazionale dei Presidi delle Facoltà di Scienze)
Luciano Benadusi (Roma La Sapienza, Preside Facoltà di Sociologia)
Giliberto Capano (Bologna, Preside Facoltà di Scienze Politiche"Ruffilli")
Giuseppe Catalano (Milano Politecnico, già componente del CNVSU -Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario-)
Alessandro Cavalli (Pavia, Facoltà di Scienze Politiche)
Nino Dazzi (Roma La Sapienza, pro-Rettore dell'Università)
Antonio de Lillo (Milano Bicocca, già Preside Facoltà di Sociologia)
Fulvio Esposito (Camerino, Rettore dell'Università)
Gianni Guastella (Siena, già Presidente della Conferenza Nazionale dei Presidi delle Facoltà di Lettere)
Luciano Guerzoni (Modena-Reggio Emilia, già Sottosegretario al MIUR)
Sergio Lariccia (Roma La Sapienza, Facoltà di Giurisprudenza)
Giunio Luzzatto (Genova, Presidente Nucleo di Valutazione dell'Università di Bologna)
Susanna Mantovani (Milano Bicocca, Preside Facoltà di Scienze della Formazione)
Alberto Martinelli (Milano, già Preside Facoltà di Scienze Politiche)
Guido Martinotti (Milano Bicocca, già Pro-Rettore dell'Università)
Enzo Mingione (Milano Bicocca, Preside Facoltà di Sociologia)
Roberto Moscati (Milano Bicocca, Facoltà di Scienze della Formazione)
Augusto Palombini (C. N. R., ITABC -Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali-)
Giorgio Parisi (Roma La Sapienza, Dipartimento di Fisica)
Dino Pedreschi (Pisa, Dipartimento di Informatica)
Clotilde Pontecorvo (Roma La Sapienza, Facoltà di Psicologia)
Enrico Pugliese (Napoli , Direttore IRPPS -Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali- del C.N.R.)
Dino Rizzi (Venezia, Preside Facoltà di Economia)
Paolo Rossi (Pisa, Membro del C. U.N. -Consiglio Universitario Nazionale-)
Fabio Ruzzier (Trieste, Pro-Rettore dell'Università)
Bianca Maria Tedeschini Lalli (Roma Tre, già Rettore dell'Università)
Cristiano Violani (Roma La Sapienza, Presidente del Nucleo di Valutazione dell'Università)

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10.1.07

Strategie di sopravvivenza nella fabbrica del sapere

di Francesco Raparelli

(tratto da il manifesto, 31 dicembre 2006)

Lo studente che sfugge ai ritmi infernali dell’università è considerato dal pensiero dominante alla stregue di un public enemy. Una mole di dati che attesta come gli studenti seguono strade impervie per affermare quel diritto allo studio, così sbandierato dalla retorica dominante ma così disatteso nei fatti Gli atenei italiani sono sull’orlo della catostrofe. E la riforma del cosiddetto «3+2» è stata un fallimento. Lo sostiene un’ampia ricerca sui laureati dal 2001 in poi condotta da AlmaLaurea

Parlare di università di questi tempi non è cosa facile. Negli ultimi tempi poi, il rischio è l’afasia obbligata e confusa delle peggiori esperienze funebri. L’università e la ricerca hanno infatti raccolto, con il governo Prodi, un primo decisivo primato: gli unici ambiti a non aver ottenuto nulla dalla Finanziaria. Il decreto Bersani darà l’ultima spallata ad un’istituzione già agonizzante: l’università sarà presa per fame, una sorta di embargo senza militari (meglio, guerra e forze armate sono i primi beneficiari dei tagli alla formazione). Riscaldamenti, luce, biblioteche, servizi, come in una vecchia foto dove d’improvviso cominciano a cancellarsi le immagini. Forse dell’università tra poco svanirà anche il ricordo. Espressioni radicali queste, quasi estremistiche, sempre più spesso, però, lamento disperato di rettori, sindacati e associazioni dei docenti. Disperati sì, ma difficilmente categorizzabili tra gli estremisti.
Il problema più grande, al di là dell’ipocrisia del centro-sinistra, è che risulta difficile difendere una cosa di cui mano a mano è venuta meno una percezione comune. La parola università ha perso perimetri semantici univoci, è qualificata, piuttosto, da una straordinaria e nello stesso rischiosissima ricchezza polisemica. L’eccesso di semanticità espone, come spesso accade, ad una doppia e ambivalente prospettiva: una trasformazione radicale; una catastrofe senza fondo. Delle due propsettive la seconda sembra nettamente in vantaggio.
Entrando più nel vivo della «polisemia della catastrofe». L’università è contemporaneamente un luogo che deve accrescere il «capitale umano», qualificata dalla quantità del «prodotto finito» (un modo simpatico, adottato da Andrea Cammelli, direttore di AlmaLaurea, per definire gli studenti appena laureati); un luogo dove si forma la nuova «èlite colta e intelligente» del paese (il riferimento è a Pietro Citati, la Repubblica del 23 maggio ‘06); un sistema in grado di equilibrare virtuosamente ricerca e didattica (come auspicato, con grande lucidità, da Alberto Asor Rosa, la Repubblica del 26 aprile ‘06); istituzione indispensabile ma sempre in deficit di innovazione e di competitività (secondo le parole del governatore della Banca d’Italia Mario Draghi e dal presidente di Confindundia Montezemolo); una spesa necessaria, da razionalizzare, a patto che siano le famiglie degli studenti ad assumersene il carico (da angolature differenti, Francesco Giavazzi e Guido Martinotti).

La riforma a costo zero
In tutti questi casi si ha la sensazione che non esiste più un luogo comune attorno al quale si annodano sfumature interpretative differenti. Il senso unitario attribuito alla parola università si è completamente frantumato. Il primo processo di frantumazione è indubbiamente stato determinato dai movimenti degli anni ‘60 e ‘70: accesso di massa, liberalizzazione dei piani di studio, etc. Quello a cui ci troviamo di fronte oggi è piuttosto risultato di un profondo e drammatico progetto riformatore che ha attraversato gli anni ‘80 e ‘90, arrivando a conclusione con il «Processo di Bologna» del ‘99 (l’accordo tra i ministri europei dell’istruzione e dell’università per governare, incentivando la formazione, la transizione alla «società della conoscenza»). Progetto riformatore inscritto nella mutazione radicale del modo di produrre contemporaneo e nella nuova centralità produttiva della conoscenza e dell’innovazione. In Italia tutto questo è la riforma Berlinguer-Zecchino: un pieno normativo, privo di fondi (la famosa «riforma a costo zero»), non solo incapace di restituire senso unitario al modo di intendere l’università, ma terreno di insoddisfazione trasversale, tranne rare eccezioni.
Di questa riforma, della sua tormentata applicazione, dei primi risultati analizzabili, prova a dare conto l’VIII Profilo dei laureati italiani (edito per il Mulino, pp. 286, euro 22), a cura del Consorzio Interuniversitario AlmaLaurea. Si tratta di un’inchiesta, quantitativamente straordinaria, che ha coinvolto 175.906 laureati (nell’anno 2005), provenienti da 38 atenei, la maggioranza, con l’eccezione di Milano e di una parte degli atenei lombardi. Dei 175.906 neo-laureati, 78.820 (44,8 %) hanno conseguito una laurea triennale di I livello: il 72% di questi definibili come «puri», cioè appartenenti ad un corso post-riforma fin dall’immatricolazione; il 28% «ibridi», cioè immatricolati prima del 2000/2001 (anno di applicazione della riforma) e poi successivamente passati al nuovo ordinamento. Uno spettro ampio, dunque, con il quale cominciare ad agitare un primo bilancio sui risultati della riforma.
L’inchiesta passa al vaglio molti dei nodi rilevanti per offrire un quadro complessivo delle performance dei laureati, delle loro aspettative, delle condizioni di partenza. Dalle caratteristiche dei laureati al loro ingresso all’università, al rapporto tra contesto socioculturale di provenienza e scelte di studio (campi disciplinari); dall’intreccio tra percorso universitario e lavoro, alle esperienze di studio all’estero; dalla diffusione di tirocini e stage, alla qualità dei servizi per gli studenti (diritto allo studio); dal giudizio sull’esperienza di studio alla ricerca del lavoro. Una mappa completa, per quanto povera di «indici qualitativi» (qualità dei saperi, profondità del percorso culturale, innalzamento dei livelli generali di apprendimento), per descrivere le sfaccettature di quegli «strani animali» che sono gli studenti post-riforma e, più in particolare, il loro rapporto con una società profondamente mutata, la società del lavoro flessibile, la società che, almeno sulla carta, dovrebbe essere una società della conoscenza.

Specialisti in nulla
Vale la pensa focalizzare l’attenzione solo su alcuni elementi dell’inchiesta per poi tentare di mettere in relazione i dati con la polverizzazione interpretativa del fenomeno università e con i movimenti studenteschi degli ultimi mesi, quello italiano dell’autunno 2005, quello francese della scorsa primavera.
Il dato ritenuto unanimemente più minaccioso, dallo stesso staff di AlmaLaurea, è il desiderio maggioritario (79% degli intervistati), espresso da parte dei neolaureati del I livello, di proseguire gli studi. Il 60% manifesta l’intenzione di iscriversi alla laurea specialistica, mentre l’8 per cento pensa ad un master e il 5 per cento ad una scuola specialistica. In un paese normale che ama la conoscenza e la sua diffusione questo desiderio di studio e di approfondimento dovrebbe essere accolto con gioia e soddisfazione. Eppure, per dei convinti sostenitori della riforma come i curatori del volume, il dato li getta nello sconforto più profondo. In primo luogo perchè il triennio, al contrario delle promesse, dimostra di non essere in grado di sfornare un solido esercito di lavoratori flessibili, di «specialisti in nulla» all’altezza delle nuove sfide del mercato, soprattutto assorbibili in tempi brevi. In buona parte chi finisce il triennio non sà che fare, perchè nessuno lo attendeva e soprattutto perchè quello che sà non serve nè a lui, nè al mercato del lavoro. Già questo dato basterebbe per ammettere la disfatta della riforma. Il secondo nodo problematico che desta l’amarezza di AlmaLaurea è che gli studenti ritengono, evidentemente, anche qualitativamente insufficiente il triennio e quindi, in mancanza di lavoro, preferiscono, in larga maggioranza, continuare gli studi. Nella bella e utile tavola rotonda che si trova nella metà del volume, prima degli approfondimenti critici, Gilberto Capano dell’Università di Bologna (sede di Forlì) ci aiuta a chiarire ciò che già l’esperienza diretta degli studenti sta accogliendo con disagio, la vera e propria nuova posta in gioco: il blocco dell’accesso alle specialistiche. Con le parole di Capano: «Qui c’è la responsabilità delle università: non tutti quelli che hanno fatto il “3″ debbono pensare di “avere diritto” di fare la specialistica e questo è il nodo che non si vuole capire di questo sistema. La magistrale dovrebbe essere un percorso di laurea in cui le università sono tenute a valutare se lo studente che fa richiesta di entrare ha la capacità e il background per potere entrare». Dunque rendere esplicito, formalizzare ciò che prima era semplicemente tacito. Se prima la selezione passava per la qualità degli studi, oggi, demolita quest’ultima, il problema è reintrodurre la selezione come dipositivo di gerarchizzazione della forza lavoro cognitiva.
Altra iattura, la ricomparsa del mostro: il fuori corso. L’avversario che ha qualificato tutta la retorica riformistica, una sorta di public enemy equiparabile al «fannullone» di Ichino, ebbene colui che andava fatto fuori a tutti i costi riemerge. Chiaramente è stata ridotta l’età media dei neolaureati, ma non è stato cancellato il mostro. Il tratto strutturalmente dissipativo dell’esperienza di studio ritorna a dare guai, proprio laddove si immaginava messa a tacere una volta per tutte. Per chi, come chi scrive, il sapere è un terreno eccedente e non misurabile, questo tratto dissipativo dell’esperienza di studio è una ventata di aria fresca rispetto ai ritmi forsennati dei corsi ridotti in pillole che hanno caratterizzato le università negli ultimi anni. Altro dato poi su cui riflettere è invece la riduzione dell’esperienza Erasmus/Socrates nel percorso dei neolaureati cosìdetti «puri». D’altronde dove trovare il tempo, se il tempo di permanenza all’università va ridotto al minimo. Ma l’Europa si sà basta inseguirla con la moneta, a conoscerla ci penseranno i figli delle èlite che già da tempo hanno abbandonato le università italiche, diventate così pop e così tecnocratiche (mica stupidi i borghesi, preferiscono ancora Kant e Marx alle scemenze antologiche della triennale).

Lavorare a credito
In ultimo il lavoro, preso da due punti di vista. L’aumento dei tirocini e degli stage nel percorso di studi, quindi l’interiorizzazione dell’esperienza lavorativa nel processo formativo. Un’interiorizzazione che si manifesta nella sua più assoluta durezza: lavoro non pagato, sfruttamento risarcito con crediti formativi. Dall’altra il desiderio maggioritario dei neolaureati di trovare un lavoro stabile, un contratto a tempo indeterminato: per esser chiari una profonda paura che chiede sicurezza. Anche in questo caso sembra vacillare quella sana vocazione alla flessibilità cui, senza resti, avrebbe dovuto educare la spolverata post-liceale della laurea di I livello.
In chiusura un accenno, su cui tornare, alla «polisemia della trasformazione», quella che vede nella catastrofe una buona occasione per fare altro. Premessa, l’ideologia riformistica continua a non fare i conti con la debolezza del mercato dell’innovazione e delle competenze in Italia. Nel nostro paese, le imprese, per la maggior parte di piccole e medie dimensioni, non fanno ricerca e non si sognerebbero mai di dare soldi alle università pubbliche.
Alcune intuizioni e pratiche forti, però, vengono dai movimenti italiani e francesi che negli ultimi due anni hanno occupato le facoltà e, nel caso francese, messo in crisi la produzione metroplitana. L’università è morta, bisogna farne un’altra. I progetti di autoformazione e di uso «dal basso» dell’autonomia (seminari autogestiti, produzione autonoma di conoscenze) parlano esattamente di un modo non marginale di «dimorare tra le rovine». Nessuna nostalgia del vecchio, nessuna fiducia nel mercato. Semplicemente una nuova fondazione. A rettori e docenti, per salvare il collo e la passione conoscitiva, non toccherebbe fare altro che mettersi a dispozione degli studenti e di federare esperimenti di autogoverno, magari incentivando la disobbedienza fiscale.

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9.1.07

Diapositive non piu' disponibili

Come vi avevo preannunciato, per motivi di spazio ho dovuto togliere le diapositive dal sito che le ospitava. Se a qualcuno servissero ancora, confido nella disponibilita' di colleghi che le hanno scaricate in tempo.

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