Strategie di sopravvivenza nella fabbrica del sapere
di Francesco Raparelli
(tratto da il manifesto, 31 dicembre 2006)
Lo studente che sfugge ai ritmi infernali dell’università è considerato dal pensiero dominante alla stregue di un public enemy. Una mole di dati che attesta come gli studenti seguono strade impervie per affermare quel diritto allo studio, così sbandierato dalla retorica dominante ma così disatteso nei fatti Gli atenei italiani sono sull’orlo della catostrofe. E la riforma del cosiddetto «3+2» è stata un fallimento. Lo sostiene un’ampia ricerca sui laureati dal 2001 in poi condotta da AlmaLaurea
Parlare di università di questi tempi non è cosa facile. Negli ultimi tempi poi, il rischio è l’afasia obbligata e confusa delle peggiori esperienze funebri. L’università e la ricerca hanno infatti raccolto, con il governo Prodi, un primo decisivo primato: gli unici ambiti a non aver ottenuto nulla dalla Finanziaria. Il decreto Bersani darà l’ultima spallata ad un’istituzione già agonizzante: l’università sarà presa per fame, una sorta di embargo senza militari (meglio, guerra e forze armate sono i primi beneficiari dei tagli alla formazione). Riscaldamenti, luce, biblioteche, servizi, come in una vecchia foto dove d’improvviso cominciano a cancellarsi le immagini. Forse dell’università tra poco svanirà anche il ricordo. Espressioni radicali queste, quasi estremistiche, sempre più spesso, però, lamento disperato di rettori, sindacati e associazioni dei docenti. Disperati sì, ma difficilmente categorizzabili tra gli estremisti.
Il problema più grande, al di là dell’ipocrisia del centro-sinistra, è che risulta difficile difendere una cosa di cui mano a mano è venuta meno una percezione comune. La parola università ha perso perimetri semantici univoci, è qualificata, piuttosto, da una straordinaria e nello stesso rischiosissima ricchezza polisemica. L’eccesso di semanticità espone, come spesso accade, ad una doppia e ambivalente prospettiva: una trasformazione radicale; una catastrofe senza fondo. Delle due propsettive la seconda sembra nettamente in vantaggio.
Entrando più nel vivo della «polisemia della catastrofe». L’università è contemporaneamente un luogo che deve accrescere il «capitale umano», qualificata dalla quantità del «prodotto finito» (un modo simpatico, adottato da Andrea Cammelli, direttore di AlmaLaurea, per definire gli studenti appena laureati); un luogo dove si forma la nuova «èlite colta e intelligente» del paese (il riferimento è a Pietro Citati, la Repubblica del 23 maggio ‘06); un sistema in grado di equilibrare virtuosamente ricerca e didattica (come auspicato, con grande lucidità, da Alberto Asor Rosa, la Repubblica del 26 aprile ‘06); istituzione indispensabile ma sempre in deficit di innovazione e di competitività (secondo le parole del governatore della Banca d’Italia Mario Draghi e dal presidente di Confindundia Montezemolo); una spesa necessaria, da razionalizzare, a patto che siano le famiglie degli studenti ad assumersene il carico (da angolature differenti, Francesco Giavazzi e Guido Martinotti).
La riforma a costo zero
In tutti questi casi si ha la sensazione che non esiste più un luogo comune attorno al quale si annodano sfumature interpretative differenti. Il senso unitario attribuito alla parola università si è completamente frantumato. Il primo processo di frantumazione è indubbiamente stato determinato dai movimenti degli anni ‘60 e ‘70: accesso di massa, liberalizzazione dei piani di studio, etc. Quello a cui ci troviamo di fronte oggi è piuttosto risultato di un profondo e drammatico progetto riformatore che ha attraversato gli anni ‘80 e ‘90, arrivando a conclusione con il «Processo di Bologna» del ‘99 (l’accordo tra i ministri europei dell’istruzione e dell’università per governare, incentivando la formazione, la transizione alla «società della conoscenza»). Progetto riformatore inscritto nella mutazione radicale del modo di produrre contemporaneo e nella nuova centralità produttiva della conoscenza e dell’innovazione. In Italia tutto questo è la riforma Berlinguer-Zecchino: un pieno normativo, privo di fondi (la famosa «riforma a costo zero»), non solo incapace di restituire senso unitario al modo di intendere l’università, ma terreno di insoddisfazione trasversale, tranne rare eccezioni.
Di questa riforma, della sua tormentata applicazione, dei primi risultati analizzabili, prova a dare conto l’VIII Profilo dei laureati italiani (edito per il Mulino, pp. 286, euro 22), a cura del Consorzio Interuniversitario AlmaLaurea. Si tratta di un’inchiesta, quantitativamente straordinaria, che ha coinvolto 175.906 laureati (nell’anno 2005), provenienti da 38 atenei, la maggioranza, con l’eccezione di Milano e di una parte degli atenei lombardi. Dei 175.906 neo-laureati, 78.820 (44,8 %) hanno conseguito una laurea triennale di I livello: il 72% di questi definibili come «puri», cioè appartenenti ad un corso post-riforma fin dall’immatricolazione; il 28% «ibridi», cioè immatricolati prima del 2000/2001 (anno di applicazione della riforma) e poi successivamente passati al nuovo ordinamento. Uno spettro ampio, dunque, con il quale cominciare ad agitare un primo bilancio sui risultati della riforma.
L’inchiesta passa al vaglio molti dei nodi rilevanti per offrire un quadro complessivo delle performance dei laureati, delle loro aspettative, delle condizioni di partenza. Dalle caratteristiche dei laureati al loro ingresso all’università, al rapporto tra contesto socioculturale di provenienza e scelte di studio (campi disciplinari); dall’intreccio tra percorso universitario e lavoro, alle esperienze di studio all’estero; dalla diffusione di tirocini e stage, alla qualità dei servizi per gli studenti (diritto allo studio); dal giudizio sull’esperienza di studio alla ricerca del lavoro. Una mappa completa, per quanto povera di «indici qualitativi» (qualità dei saperi, profondità del percorso culturale, innalzamento dei livelli generali di apprendimento), per descrivere le sfaccettature di quegli «strani animali» che sono gli studenti post-riforma e, più in particolare, il loro rapporto con una società profondamente mutata, la società del lavoro flessibile, la società che, almeno sulla carta, dovrebbe essere una società della conoscenza.
Specialisti in nulla
Vale la pensa focalizzare l’attenzione solo su alcuni elementi dell’inchiesta per poi tentare di mettere in relazione i dati con la polverizzazione interpretativa del fenomeno università e con i movimenti studenteschi degli ultimi mesi, quello italiano dell’autunno 2005, quello francese della scorsa primavera.
Il dato ritenuto unanimemente più minaccioso, dallo stesso staff di AlmaLaurea, è il desiderio maggioritario (79% degli intervistati), espresso da parte dei neolaureati del I livello, di proseguire gli studi. Il 60% manifesta l’intenzione di iscriversi alla laurea specialistica, mentre l’8 per cento pensa ad un master e il 5 per cento ad una scuola specialistica. In un paese normale che ama la conoscenza e la sua diffusione questo desiderio di studio e di approfondimento dovrebbe essere accolto con gioia e soddisfazione. Eppure, per dei convinti sostenitori della riforma come i curatori del volume, il dato li getta nello sconforto più profondo. In primo luogo perchè il triennio, al contrario delle promesse, dimostra di non essere in grado di sfornare un solido esercito di lavoratori flessibili, di «specialisti in nulla» all’altezza delle nuove sfide del mercato, soprattutto assorbibili in tempi brevi. In buona parte chi finisce il triennio non sà che fare, perchè nessuno lo attendeva e soprattutto perchè quello che sà non serve nè a lui, nè al mercato del lavoro. Già questo dato basterebbe per ammettere la disfatta della riforma. Il secondo nodo problematico che desta l’amarezza di AlmaLaurea è che gli studenti ritengono, evidentemente, anche qualitativamente insufficiente il triennio e quindi, in mancanza di lavoro, preferiscono, in larga maggioranza, continuare gli studi. Nella bella e utile tavola rotonda che si trova nella metà del volume, prima degli approfondimenti critici, Gilberto Capano dell’Università di Bologna (sede di Forlì) ci aiuta a chiarire ciò che già l’esperienza diretta degli studenti sta accogliendo con disagio, la vera e propria nuova posta in gioco: il blocco dell’accesso alle specialistiche. Con le parole di Capano: «Qui c’è la responsabilità delle università: non tutti quelli che hanno fatto il “3″ debbono pensare di “avere diritto” di fare la specialistica e questo è il nodo che non si vuole capire di questo sistema. La magistrale dovrebbe essere un percorso di laurea in cui le università sono tenute a valutare se lo studente che fa richiesta di entrare ha la capacità e il background per potere entrare». Dunque rendere esplicito, formalizzare ciò che prima era semplicemente tacito. Se prima la selezione passava per la qualità degli studi, oggi, demolita quest’ultima, il problema è reintrodurre la selezione come dipositivo di gerarchizzazione della forza lavoro cognitiva.
Altra iattura, la ricomparsa del mostro: il fuori corso. L’avversario che ha qualificato tutta la retorica riformistica, una sorta di public enemy equiparabile al «fannullone» di Ichino, ebbene colui che andava fatto fuori a tutti i costi riemerge. Chiaramente è stata ridotta l’età media dei neolaureati, ma non è stato cancellato il mostro. Il tratto strutturalmente dissipativo dell’esperienza di studio ritorna a dare guai, proprio laddove si immaginava messa a tacere una volta per tutte. Per chi, come chi scrive, il sapere è un terreno eccedente e non misurabile, questo tratto dissipativo dell’esperienza di studio è una ventata di aria fresca rispetto ai ritmi forsennati dei corsi ridotti in pillole che hanno caratterizzato le università negli ultimi anni. Altro dato poi su cui riflettere è invece la riduzione dell’esperienza Erasmus/Socrates nel percorso dei neolaureati cosìdetti «puri». D’altronde dove trovare il tempo, se il tempo di permanenza all’università va ridotto al minimo. Ma l’Europa si sà basta inseguirla con la moneta, a conoscerla ci penseranno i figli delle èlite che già da tempo hanno abbandonato le università italiche, diventate così pop e così tecnocratiche (mica stupidi i borghesi, preferiscono ancora Kant e Marx alle scemenze antologiche della triennale).
Lavorare a credito
In ultimo il lavoro, preso da due punti di vista. L’aumento dei tirocini e degli stage nel percorso di studi, quindi l’interiorizzazione dell’esperienza lavorativa nel processo formativo. Un’interiorizzazione che si manifesta nella sua più assoluta durezza: lavoro non pagato, sfruttamento risarcito con crediti formativi. Dall’altra il desiderio maggioritario dei neolaureati di trovare un lavoro stabile, un contratto a tempo indeterminato: per esser chiari una profonda paura che chiede sicurezza. Anche in questo caso sembra vacillare quella sana vocazione alla flessibilità cui, senza resti, avrebbe dovuto educare la spolverata post-liceale della laurea di I livello.
In chiusura un accenno, su cui tornare, alla «polisemia della trasformazione», quella che vede nella catastrofe una buona occasione per fare altro. Premessa, l’ideologia riformistica continua a non fare i conti con la debolezza del mercato dell’innovazione e delle competenze in Italia. Nel nostro paese, le imprese, per la maggior parte di piccole e medie dimensioni, non fanno ricerca e non si sognerebbero mai di dare soldi alle università pubbliche.
Alcune intuizioni e pratiche forti, però, vengono dai movimenti italiani e francesi che negli ultimi due anni hanno occupato le facoltà e, nel caso francese, messo in crisi la produzione metroplitana. L’università è morta, bisogna farne un’altra. I progetti di autoformazione e di uso «dal basso» dell’autonomia (seminari autogestiti, produzione autonoma di conoscenze) parlano esattamente di un modo non marginale di «dimorare tra le rovine». Nessuna nostalgia del vecchio, nessuna fiducia nel mercato. Semplicemente una nuova fondazione. A rettori e docenti, per salvare il collo e la passione conoscitiva, non toccherebbe fare altro che mettersi a dispozione degli studenti e di federare esperimenti di autogoverno, magari incentivando la disobbedienza fiscale.
(tratto da il manifesto, 31 dicembre 2006)
Lo studente che sfugge ai ritmi infernali dell’università è considerato dal pensiero dominante alla stregue di un public enemy. Una mole di dati che attesta come gli studenti seguono strade impervie per affermare quel diritto allo studio, così sbandierato dalla retorica dominante ma così disatteso nei fatti Gli atenei italiani sono sull’orlo della catostrofe. E la riforma del cosiddetto «3+2» è stata un fallimento. Lo sostiene un’ampia ricerca sui laureati dal 2001 in poi condotta da AlmaLaurea
Parlare di università di questi tempi non è cosa facile. Negli ultimi tempi poi, il rischio è l’afasia obbligata e confusa delle peggiori esperienze funebri. L’università e la ricerca hanno infatti raccolto, con il governo Prodi, un primo decisivo primato: gli unici ambiti a non aver ottenuto nulla dalla Finanziaria. Il decreto Bersani darà l’ultima spallata ad un’istituzione già agonizzante: l’università sarà presa per fame, una sorta di embargo senza militari (meglio, guerra e forze armate sono i primi beneficiari dei tagli alla formazione). Riscaldamenti, luce, biblioteche, servizi, come in una vecchia foto dove d’improvviso cominciano a cancellarsi le immagini. Forse dell’università tra poco svanirà anche il ricordo. Espressioni radicali queste, quasi estremistiche, sempre più spesso, però, lamento disperato di rettori, sindacati e associazioni dei docenti. Disperati sì, ma difficilmente categorizzabili tra gli estremisti.
Il problema più grande, al di là dell’ipocrisia del centro-sinistra, è che risulta difficile difendere una cosa di cui mano a mano è venuta meno una percezione comune. La parola università ha perso perimetri semantici univoci, è qualificata, piuttosto, da una straordinaria e nello stesso rischiosissima ricchezza polisemica. L’eccesso di semanticità espone, come spesso accade, ad una doppia e ambivalente prospettiva: una trasformazione radicale; una catastrofe senza fondo. Delle due propsettive la seconda sembra nettamente in vantaggio.
Entrando più nel vivo della «polisemia della catastrofe». L’università è contemporaneamente un luogo che deve accrescere il «capitale umano», qualificata dalla quantità del «prodotto finito» (un modo simpatico, adottato da Andrea Cammelli, direttore di AlmaLaurea, per definire gli studenti appena laureati); un luogo dove si forma la nuova «èlite colta e intelligente» del paese (il riferimento è a Pietro Citati, la Repubblica del 23 maggio ‘06); un sistema in grado di equilibrare virtuosamente ricerca e didattica (come auspicato, con grande lucidità, da Alberto Asor Rosa, la Repubblica del 26 aprile ‘06); istituzione indispensabile ma sempre in deficit di innovazione e di competitività (secondo le parole del governatore della Banca d’Italia Mario Draghi e dal presidente di Confindundia Montezemolo); una spesa necessaria, da razionalizzare, a patto che siano le famiglie degli studenti ad assumersene il carico (da angolature differenti, Francesco Giavazzi e Guido Martinotti).
La riforma a costo zero
In tutti questi casi si ha la sensazione che non esiste più un luogo comune attorno al quale si annodano sfumature interpretative differenti. Il senso unitario attribuito alla parola università si è completamente frantumato. Il primo processo di frantumazione è indubbiamente stato determinato dai movimenti degli anni ‘60 e ‘70: accesso di massa, liberalizzazione dei piani di studio, etc. Quello a cui ci troviamo di fronte oggi è piuttosto risultato di un profondo e drammatico progetto riformatore che ha attraversato gli anni ‘80 e ‘90, arrivando a conclusione con il «Processo di Bologna» del ‘99 (l’accordo tra i ministri europei dell’istruzione e dell’università per governare, incentivando la formazione, la transizione alla «società della conoscenza»). Progetto riformatore inscritto nella mutazione radicale del modo di produrre contemporaneo e nella nuova centralità produttiva della conoscenza e dell’innovazione. In Italia tutto questo è la riforma Berlinguer-Zecchino: un pieno normativo, privo di fondi (la famosa «riforma a costo zero»), non solo incapace di restituire senso unitario al modo di intendere l’università, ma terreno di insoddisfazione trasversale, tranne rare eccezioni.
Di questa riforma, della sua tormentata applicazione, dei primi risultati analizzabili, prova a dare conto l’VIII Profilo dei laureati italiani (edito per il Mulino, pp. 286, euro 22), a cura del Consorzio Interuniversitario AlmaLaurea. Si tratta di un’inchiesta, quantitativamente straordinaria, che ha coinvolto 175.906 laureati (nell’anno 2005), provenienti da 38 atenei, la maggioranza, con l’eccezione di Milano e di una parte degli atenei lombardi. Dei 175.906 neo-laureati, 78.820 (44,8 %) hanno conseguito una laurea triennale di I livello: il 72% di questi definibili come «puri», cioè appartenenti ad un corso post-riforma fin dall’immatricolazione; il 28% «ibridi», cioè immatricolati prima del 2000/2001 (anno di applicazione della riforma) e poi successivamente passati al nuovo ordinamento. Uno spettro ampio, dunque, con il quale cominciare ad agitare un primo bilancio sui risultati della riforma.
L’inchiesta passa al vaglio molti dei nodi rilevanti per offrire un quadro complessivo delle performance dei laureati, delle loro aspettative, delle condizioni di partenza. Dalle caratteristiche dei laureati al loro ingresso all’università, al rapporto tra contesto socioculturale di provenienza e scelte di studio (campi disciplinari); dall’intreccio tra percorso universitario e lavoro, alle esperienze di studio all’estero; dalla diffusione di tirocini e stage, alla qualità dei servizi per gli studenti (diritto allo studio); dal giudizio sull’esperienza di studio alla ricerca del lavoro. Una mappa completa, per quanto povera di «indici qualitativi» (qualità dei saperi, profondità del percorso culturale, innalzamento dei livelli generali di apprendimento), per descrivere le sfaccettature di quegli «strani animali» che sono gli studenti post-riforma e, più in particolare, il loro rapporto con una società profondamente mutata, la società del lavoro flessibile, la società che, almeno sulla carta, dovrebbe essere una società della conoscenza.
Specialisti in nulla
Vale la pensa focalizzare l’attenzione solo su alcuni elementi dell’inchiesta per poi tentare di mettere in relazione i dati con la polverizzazione interpretativa del fenomeno università e con i movimenti studenteschi degli ultimi mesi, quello italiano dell’autunno 2005, quello francese della scorsa primavera.
Il dato ritenuto unanimemente più minaccioso, dallo stesso staff di AlmaLaurea, è il desiderio maggioritario (79% degli intervistati), espresso da parte dei neolaureati del I livello, di proseguire gli studi. Il 60% manifesta l’intenzione di iscriversi alla laurea specialistica, mentre l’8 per cento pensa ad un master e il 5 per cento ad una scuola specialistica. In un paese normale che ama la conoscenza e la sua diffusione questo desiderio di studio e di approfondimento dovrebbe essere accolto con gioia e soddisfazione. Eppure, per dei convinti sostenitori della riforma come i curatori del volume, il dato li getta nello sconforto più profondo. In primo luogo perchè il triennio, al contrario delle promesse, dimostra di non essere in grado di sfornare un solido esercito di lavoratori flessibili, di «specialisti in nulla» all’altezza delle nuove sfide del mercato, soprattutto assorbibili in tempi brevi. In buona parte chi finisce il triennio non sà che fare, perchè nessuno lo attendeva e soprattutto perchè quello che sà non serve nè a lui, nè al mercato del lavoro. Già questo dato basterebbe per ammettere la disfatta della riforma. Il secondo nodo problematico che desta l’amarezza di AlmaLaurea è che gli studenti ritengono, evidentemente, anche qualitativamente insufficiente il triennio e quindi, in mancanza di lavoro, preferiscono, in larga maggioranza, continuare gli studi. Nella bella e utile tavola rotonda che si trova nella metà del volume, prima degli approfondimenti critici, Gilberto Capano dell’Università di Bologna (sede di Forlì) ci aiuta a chiarire ciò che già l’esperienza diretta degli studenti sta accogliendo con disagio, la vera e propria nuova posta in gioco: il blocco dell’accesso alle specialistiche. Con le parole di Capano: «Qui c’è la responsabilità delle università: non tutti quelli che hanno fatto il “3″ debbono pensare di “avere diritto” di fare la specialistica e questo è il nodo che non si vuole capire di questo sistema. La magistrale dovrebbe essere un percorso di laurea in cui le università sono tenute a valutare se lo studente che fa richiesta di entrare ha la capacità e il background per potere entrare». Dunque rendere esplicito, formalizzare ciò che prima era semplicemente tacito. Se prima la selezione passava per la qualità degli studi, oggi, demolita quest’ultima, il problema è reintrodurre la selezione come dipositivo di gerarchizzazione della forza lavoro cognitiva.
Altra iattura, la ricomparsa del mostro: il fuori corso. L’avversario che ha qualificato tutta la retorica riformistica, una sorta di public enemy equiparabile al «fannullone» di Ichino, ebbene colui che andava fatto fuori a tutti i costi riemerge. Chiaramente è stata ridotta l’età media dei neolaureati, ma non è stato cancellato il mostro. Il tratto strutturalmente dissipativo dell’esperienza di studio ritorna a dare guai, proprio laddove si immaginava messa a tacere una volta per tutte. Per chi, come chi scrive, il sapere è un terreno eccedente e non misurabile, questo tratto dissipativo dell’esperienza di studio è una ventata di aria fresca rispetto ai ritmi forsennati dei corsi ridotti in pillole che hanno caratterizzato le università negli ultimi anni. Altro dato poi su cui riflettere è invece la riduzione dell’esperienza Erasmus/Socrates nel percorso dei neolaureati cosìdetti «puri». D’altronde dove trovare il tempo, se il tempo di permanenza all’università va ridotto al minimo. Ma l’Europa si sà basta inseguirla con la moneta, a conoscerla ci penseranno i figli delle èlite che già da tempo hanno abbandonato le università italiche, diventate così pop e così tecnocratiche (mica stupidi i borghesi, preferiscono ancora Kant e Marx alle scemenze antologiche della triennale).
Lavorare a credito
In ultimo il lavoro, preso da due punti di vista. L’aumento dei tirocini e degli stage nel percorso di studi, quindi l’interiorizzazione dell’esperienza lavorativa nel processo formativo. Un’interiorizzazione che si manifesta nella sua più assoluta durezza: lavoro non pagato, sfruttamento risarcito con crediti formativi. Dall’altra il desiderio maggioritario dei neolaureati di trovare un lavoro stabile, un contratto a tempo indeterminato: per esser chiari una profonda paura che chiede sicurezza. Anche in questo caso sembra vacillare quella sana vocazione alla flessibilità cui, senza resti, avrebbe dovuto educare la spolverata post-liceale della laurea di I livello.
In chiusura un accenno, su cui tornare, alla «polisemia della trasformazione», quella che vede nella catastrofe una buona occasione per fare altro. Premessa, l’ideologia riformistica continua a non fare i conti con la debolezza del mercato dell’innovazione e delle competenze in Italia. Nel nostro paese, le imprese, per la maggior parte di piccole e medie dimensioni, non fanno ricerca e non si sognerebbero mai di dare soldi alle università pubbliche.
Alcune intuizioni e pratiche forti, però, vengono dai movimenti italiani e francesi che negli ultimi due anni hanno occupato le facoltà e, nel caso francese, messo in crisi la produzione metroplitana. L’università è morta, bisogna farne un’altra. I progetti di autoformazione e di uso «dal basso» dell’autonomia (seminari autogestiti, produzione autonoma di conoscenze) parlano esattamente di un modo non marginale di «dimorare tra le rovine». Nessuna nostalgia del vecchio, nessuna fiducia nel mercato. Semplicemente una nuova fondazione. A rettori e docenti, per salvare il collo e la passione conoscitiva, non toccherebbe fare altro che mettersi a dispozione degli studenti e di federare esperimenti di autogoverno, magari incentivando la disobbedienza fiscale.
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