17.2.06

Qualcosa sull'universita'

Questo e' un blog universitario, quindi non puo' disinteressarsi di quel che sta avvenendo nell'universita' italiana. L'argomento tocca direttamente sia me come docente che voi come studenti. E non e' estraneo alle stesse relazioni che stabiliamo nelle lezioni, negli esami, nelle tesi ecc., anche se difficilmente riusciamo a intavolare in queste occasioni una discussione vera e propria in merito. Quindi vi propongo qualche riflessione che a me sembra utile, sperando di poter avviare cosi' uno scambio di opinioni e, se possibile, anche di trarne qualche conseguenza nello svolgimento delle nostre attivita' didattiche.

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Zagrebelsky: Il crocevia dell'universita'

Gustavo Zagrebelsky

Per quanto le previsioni su argomenti come questi siano sempre un azzardo e si debba essere circospetti (i profeti, e nemmeno i profeti di sventura, non si addicono all'Universita', secondo il monito weberiano), non si puo' non constatare che le prospettive non inducono all'ottimismo.
Osservando dal punto di vista della condizione universitaria, si puo' fare una distinzione fondamentale tra i Paesi che si considerano alla testa dello sviluppo economico, politico, tecnologico e culturale e i Paesi che sembrano rassegnati ad accettare posizioni di retroguardia o di rincalzo, acconciandosi a vivere a rimorchio o d'importazioni.

In questo secondo caso, che purtroppo sembra quello che ci riguarda maggiormente, l'interesse per lo sviluppo dell'Universita' sembra destinato a scemare. In condizioni d'impotenza, quanto al progresso delle scienze, si e' costretti ad affidarsi parassitariamente ai risultati delle ricerche altrui. Quanto al governo della societa', quella che era un tempo la funzione ideologica dell'Universita' e' oggi molto piu' efficacemente e capillarmente svolta con mezzi di omologazione di massa. e' difficile definirla cultura e, infatti, non ha nulla a che vedere con questa, ne e' anzi l'antitesi.

Naturalmente, non ama gli studi, che avverte come nemici potenziali.
D'altra parte, quanto alla funzione professionalizzante, il destino dell'Universita' pare in molti Paesi essere quello di diventare il prolungamento dell'istruzione superiore, per ovviare al generale sprofondamento del livello qualitativo della scolarizzazione, ovvero quello di assumere piu' marcati caratteri di scuola di avviamento professionale.

E anche questa funzione potrebbe esaurirsi in tempi brevi, quando si trovera' piu' conveniente che imprese e pubblica amministrazione, invece che "esternalizzare" i costi della formazione, provvedano direttamente alla qualificazione professionale dei propri dipendenti, senza finanziare strutture terze che comportino costi superiori e risultati incerti. Finora, il valore legale del titolo ha frenato questa tendenza, per esempio nei settori delle pubbliche amministrazioni e delle libere professioni. Ma esso, per l'impiego privato, costituisce spesso piu' un ostacolo che un vantaggio e, in ogni caso, e' oggi contestato in nome della flessibilita' dell'organizzazione universitaria, cioe' della sua autonomia, una carta che la difesa dell'Universita' e della sua funzione non puo' permettersi di trascurare.

Il pericolo, sotto questi aspetti, non e' l'attrazione impropria dell'Universita' nell'ambito di altri poteri ovvero la funzionalizzazione della ricerca ai loro progetti: e' invece puramente e semplicemente l'abbandono, l'oblio. Non verra' abolita ma verra' privata della sua funzione propria. In una parola, perdera' la sua identita' istituzionale; verra' de-istituzionalizzata e trasformata in qualcosa d'altro. Coloro che avvertono il richiamo della vita accademica, cercheranno altrove, come in effetti cercano, la risposta alle loro ambizioni, salvo poi, eventualmente, accorgersi che neppure dall'altra parte dell'Oceano, sia pure per motivi diversi, esiste sempre il paradiso della liberta'.

e' evidente, a questo punto, che la questione universitaria deve considerarsi una questione nazionale.
Essa chiama in causa interessi, consapevolezze e responsabilita' generali, della societa' tutta intera. Si stratta, niente di meno, di guardare in faccia lo scivolamento in atto, verso un "secondo mondo" gregario, che fa perdere, con la propria cultura, anche il rispetto, la considerazione e, alla fine, l'autonomia politica rispetto alle altre nazioni. E questo, in un momento in cui diversi Paesi gia' del "terzo mondo", dopo aver, in un primo momento, inviato i propri ricercatori nelle grandi Universita' di altri Paesi, li richiamano per fondare proprie istituzioni universitarie in grado di accompagnare, con la definizione delle proprie identita' culturali nazionali, lo sviluppo autonomo della ricerca scientifica e tecnologica.

In ultima istanza abbiamo davanti a noi un bivio: da un lato la strada della rassegnazione, dall'altra quello della fiducia.

Questo testo e' la prolusione tenuta dal giurista Gustavo Zagrebelsky in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico all'Universita' di Torino

l'Unita' 10.01.2006

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Il liceo, un'ottima scelta

articolo tratto dal sito www.lavoce.info
17-02-2006

Enrico Santarelli

Dati nazionali ancora provvisori segnalano una preferenza delle nuove generazioni per i licei e una certa disaffezione per gli istituti tecnici. Tutto ciò viene accolto con preoccupazione. Eppure, in altri paesi tendenze analoghe rappresentano l’adeguamento del sistema educativo alle esigenze di modernizzazione delle imprese.

Come cambia l’organizzazione del lavoro

Alcuni commentatori hanno espresso preoccupazione sull’abbandono dell’istruzione tecnica da parte delle nuove generazioni, sostenendo che si tratta di un sintomo del loro crescente distacco dal mercato del lavoro. (1)
Poiché i timori sulla crisi dell’istruzione tecnica nascono da una visione datata dell’organizzazione del lavoro nelle imprese, è opportuno delineare con chiarezza le tendenze in atto, orientate al superamento del modello basato sull’impiego di figure professionali rigide e affermatosi in presenza di una sostanziale stabilità della tecnologia.
Molti studi hanno mostrato come fin dall’inizio degli anni Novanta le tecnologie dominanti - cioè quelle dell’informazione e della comunicazione - siano tipicamente ad ampio spettro e soggette a rapida obsolescenza. Gli studi hanno anche dimostrato che l’introduzione dell’Ict ha prodotto i risultati migliori quando accompagnata da un’accelerazione del cambiamento organizzativo che, partito dalla fabbrica fordista (con maestranze specializzate nell’esecuzione di mansioni immutabili nel corso della loro vita lavorativa), è approdato all’adozione di pratiche di lavoro flessibili e orizzontali (con maestranze in grado di acquisire competenze continuamente rinnovate e responsabilità decisionali).
Queste nuove pratiche, che nulla hanno a che fare con la precarizzazione del lavoro, indotta semmai dalla proliferazione di contratti a tempo determinato, includono la decentralizzazione e la deverticalizzazione gerarchica a favore di una maggiore responsabilizzazione e autonomia dei lavoratori. Possono essere sintetizzate da due prassi ormai consolidate nelle organizzazioni produttive più moderne ed efficienti: 1) la misurazione e l’incentivazione/premiazione del contributo collettivo, cresciuta di importanza con la diffusione del lavoro in team; 2) la flessibilità e multifunzionalità del singolo lavoratore, al quale viene richiesto di ruotare tra mansioni, sfruttando a questo scopo la capacità di apprendere e adattarsi a situazioni in continua evoluzione.
Studi recenti condotti per Francia e Stati Uniti mostrano che le nuove pratiche organizzative richiedono lavoratori che abbiano maggiore flessibilità e maggiore autonomia, acquisibili soltanto attraverso un’educazione generalista e incrementabili con l’impiego di idonee strategie di gestione delle risorse umane da parte delle imprese.
Pratiche di questo tipo sono meno alienanti di quelle precedenti, perché permettono al lavoratore di seguire una più ampia varietà di fasi del ciclo produttivo e comportano, attraverso il decentramento delle decisioni, una democratizzazione sostanziale dell’attività lavorativa. L’Ict, che favorisce tali pratiche e ne è a sua volta favorita, richiede però nuove competenze nelle forze di lavoro: senza un’opportuna riqualificazione delle risorse umane, nel migliore dei casi tarda a diffondersi oppure determina quell’impatto negativo sulla produttività e sulla competitività che va sotto il nome di "paradosso di Solow".

La formazione che serve

Se, dunque, gli incrementi di produttività resi possibili dall’Ict presuppongono riorganizzazione di funzioni e mansioni nonché innalzamento delle qualifiche, la politica per l’educazione non può più concentrarsi sulla preparazione specifica indispensabile all’utilizzo diretto della tecnologia, come avvenuto per decenni grazie alla funzione meritoria degli istituti tecnici e professionali. Deve indirizzarsi invece verso l’estensione e il rafforzamento della formazione generalista e delle capacità relazionali. In quest’ottica, i gloriosi istituti tecnici fanno parte di un modello di formazione che, cruciale in un mondo nel quale la tecnologia evolveva lentamente e senza strappi, risulta oggi meno rilevante che in passato. Alla formazione specialistica che tanto ha contribuito allo sviluppo industriale italiano fino agli anni Ottanta, va oggi preferita una che addestri operatori in grado di apprendere sul lavoro (on-the-job training) e fuori dal lavoro (off-the-job training), e agevoli la diffusione di pratiche flessibili e degerarchizzate, nelle quali il processo decisionale diviene prerogativa di chi esegue la mansione e prescinde dal controllo di livelli gerarchici intermedi che nelle moderne realtà organizzative non esistono più.
Da questo punto di vista, l’educazione generalista/relazionale gode di almeno tre vantaggi: a) non viene resa obsoleta dall’accelerazione del progresso tecnologico; b) predispone a una flessibilità di impiego che ben si coniuga con il carattere pervasivo delle nuove tecnologie; c) è orientata al conseguimento di quelle capacità di visione generale che sono requisiti essenziali di una forza lavoro in grado di adattarsi ai cambiamenti tecnologici e organizzativi in atto.
Tuttavia, un mutamento di indirizzo nelle strategie educative può essere realizzato soltanto attraverso politiche attive che riequilibrino i finanziamenti pubblici nazionali e locali tra educazione generalista (licei e lauree triennali non professionalizzanti) e educazione specialistica (istituti tecnici e lauree triennali professionalizzanti). Non a caso, il rapporto tra sussidi all’educazione generalista e sussidi all’educazione specialistica è di 2,55 negli Stati Uniti, dove negli ultimi due decenni la diffusione contestuale dell’Ict e delle pratiche di lavoro flessibili ha consentito significativi e simultanei incrementi di produttività e occupazione, mentre è di 1 in Germania e Italia, dove ristagnano sia l’occupazione che la produttività.
Che nuove generazioni di lavoratori formatesi in un sistema educativo che antepone il "capire" al "saper fare" possano essere viste come inadatte a soddisfare le esigenze di imprese moderne e capaci di competere sui mercati internazionali, o come vittime del neo-liberismo, sembra un apriorismo neo-conservatore, legato alla difesa di un "piccolo mondo antico" che per fortuna (dei lavoratori) è stato ridimensionato dall’interazione virtuosa tra innovazione tecnologica e organizzativa.

Per saperne di più

Krueger, D. e K. B. Kumar (2004), "Skill-specific rather than General Education: A Reason for US-Europe Growth Differences?", Journal of Economic Growth, 9(2), 167-207.
Piva, M., E. Santarelli e M. Vivarelli (2005), "The Skill Bias Effect of Technological and Organisational Change: Evidence and Policy Implications", Research Policy, 34(2), 141-157.

(1) Lo afferma ad esempio G. Barbiellini Amidei sul Corriere della Sera del 15 febbraio. Ma è istruttiva in proposito anche la polemica bolognese sui tagli dei fondi all’istituto tecnico Aldini decisi dall’amministrazione comunale della città. Vedi l’articolo di F. Berardi su Liberazione del 27 dicembre 2005.

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Dare credito allo studio

articolo tratto dal sito www.lavoce.info
23-01-2006

Andrea Moro
Alberto Bisin

Il diritto allo studio è garantito dalla Costituzione italiana: "i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso". (1)
L’intento appare quello di favorire una maggiore mobilità sociale. Ma in quale misura l’attuale modello di diritto allo studio consegue questo obiettivo?

Le politiche di diritto allo studio

Storicamente, in Italia il diritto allo studio è stato perseguito attraverso la drastica riduzione dei contributi per tutti gli studenti, e non con l’esenzione dalla contribuzione solo dei più poveri o più meritevoli. I pur consistenti aumenti delle tasse universitarie applicati dopo la riforma Ruberti sull'autonomia dell’università non hanno modificato in modo sostanziale le linee di questa politica. Da dati ricavati dal sito dell'ufficio statistiche del ministero dell’Istruzione, università e ricerca, abbiamo calcolato che nell'anno accademico 2002-03 il 10 per cento degli studenti (il 16 per cento dei non fuori corso) ha usufruito dell'esenzione totale dai contributi e un ulteriore 9 per cento dell'esenzione parziale. In media, esenzioni totali e parziali non ammontano a più di 600 euro.
Inoltre, nonostante sia prevista la devoluzione di assegni di studio, borse di studio e altre provvidenze, in base principalmente al reddito familiare, questi interventi riguardano una piccola frazione della popolazione universitaria. Sempre secondo i dati del ministero, meno dell’8 per cento degli studenti in corso ha beneficiato degli interventi di Stato e Regioni, per un importo medio di 1.320 euro l’anno
Includendo solo le borse di studio erogate (l’altra categoria principale di interventi è costituita dai contributi per la mobilità internazionale degli studenti), l’importo medio sale a 2.321 euro.
Sommando la borsa di studio all’esenzione delle tasse, un giovane meritevole e proveniente da una famiglia poco abbiente può quindi aspettarsi di ricevere un sussidio inferiore ai tremila euro l’anno: in totale in quattro anni sono 11.170 euro (annualizzati al tasso del 5per cento), a fronte di un costo totale degli studi, che include i salari mancati, di quasi 72mila euro.
I dati mostrano dunque che il modello italiano di diritto allo studio soddisfa in misura solo parziale e inadeguata gli auspici del dettato costituzionale. I trasferimenti sono modesti rispetto al costo della laurea, e difficilmente possono influire sulle decisioni dei giovani provenienti dalle famiglie meno abbienti.
Il fallimento della politica del diritto allo studio è reso evidente dal fatto che, come consegue dai dati della Conferenza dei rettori, nel 2002 la percentuale di laureati tra la popolazione adulta (di età compresa tra i 25 e i 64 anni) è in Italia pari al 10 per cento, inferiore a quella della media dei paesi Ocse (15 per cento), ma anche a quella della Repubblica Ceca (12 per cento), del Regno Unito (14 per cento), dell’Islanda (18 per cento), della Danimarca (24 per cento), e così via.

Dai poveri ai ricchi

Né l’importo ridotto delle tasse universitarie incentiva la mobilità sociale attraverso l’ingresso all’università dei giovani più capaci e meritevoli provenienti da famiglie meno agiate. Al contrario, sono i giovani provenienti dalle famiglie più agiate a essere favoriti. Questo perché gli interventi per il diritto allo studio, finanziati in larga parte dal bilancio fiscale dello Stato, rappresentano un trasferimento dalle famiglie che non hanno figli iscritti all’università a quelle che ne hanno. Ma sono queste ultime a essere relativamente più abbienti.
Usando i dati dell’indagine sui redditi delle famiglie italiane della Banca d'Italia, abbiamo confrontato i redditi e la ricchezza delle famiglie dei ragazzi fra 17 e 25 anni in possesso di diploma di maturità che vivono con i genitori. Le famiglie dei ragazzi che frequentano l’università guadagnano più di 31mila euro annui e possiedono una ricchezza netta di quasi 320mila euro, mentre le famiglie dei non iscritti guadagnano meno di 25mila euro annui (escludendo il reddito del figlio che lavora) e possiedono una ricchezza inferiore ai 200mila euro. (2)
Inoltre, le tasse e i contributi universitari introdotti negli atenei statali negli ultimi dieci anni, oltre che modesti, sono progressivi: crescono cioè in modo più che proporzionale al reddito, in pratica spesso al reddito dichiarato ai fini dell’imposizione fiscale. In un paese a elevata evasione come il nostro, questo può rappresentare un sussidio agli evasori fiscali.

Un modello da cambiare

È perciò necessario cambiare il modello di diritto allo studio. Gli studi universitari producono ottimi rendimenti. Se molti giovani non li intraprendono è perché (le loro famiglie) non si possono permettere di ritardare il loro ingresso nel mercato del lavoro. La componente principale del costo degli studi non sono le tasse universitarie, ma i mancati salari. L’università a prezzi di sconto è un falso rimedio a vantaggio dei ricchi (presenti o futuri).
Meglio sarebbe introdurre o facilitare forme di credito agli studi universitari. La legge di riforma prevede i "prestiti d'onore", ma nel 2001 e 2002 (gli unici anni per cui i dati siano disponibili) non ne è stato erogato nessuno. Come impostare allora una efficace politica di credito agli studi universitari? È necessario l’intervento pubblico? Perché i mercati finanziari non offrono allo stato attuale finanziamenti allo studio? Dopo tutto, il rendimento di questo investimento è pari quasi al 10 per cento al netto delle tasse, molto più di tanti altri investimenti pur finanziati dalle banche.
Per avere un effetto sostanziale, il credito dovrebbe coprire non solo i costi di istruzione, ma anche i mancati salari, permettendo a studenti senza il supporto di genitori abbienti condizioni di vita "normali". Il rimborso dovrebbe avvenire a lungo termine, dopo vari anni di esperienza lavorativa, quando un giovane laureato inizia a percepire in media un salario sostanzialmente superiore a quello di un diplomato. E dovrebbe essere garantito in modo efficace il diritto legale dei creditori a rivalersi sui redditi futuri dei debitori. Per facilitare lo sviluppo del credito di lungo termine allo studio, ad esempio, si dovrebbero permettere ai creditori forme di accesso al reddito imponibile ai fini fiscali o addirittura alle retribuzioni pensionistiche dei debitori.
Tali sistemi di credito potrebbero essere offerti dai mercati finanziari privati ed essere sostenuti da una garanzia statale, o direttamente dallo Stato. Che potrebbe - e dovrebbe - poi avvalersi del proprio potere di imposizione fiscale per ottenere il rimborso del prestito. Senza garanzie di questo tipo, il credito agli studi non è remunerativo per la finanza privata e non è sostenibile per quella pubblica.
Per incentivare maggiormente l’accesso all’università dei cittadini, specie i meno abbienti, il credito allo studio universitario potrebbe essere sussidiato. Almeno in parte, il sussidio potrebbe essere coperto dall'imposizione di tasse di iscrizione e contributi decisamente più elevati per le famiglie più abbienti. Tasse universitarie che coprano in maniera più consistente la spesa per l’università possono essere agevolmente sostenute in assenza di vincoli al credito, e in ogni caso dalle famiglie meno povere, pur garantendo notevoli rendimenti del titolo universitario. Per esempio, aumentare il contributo medio a 5mila euro annui per studente garantirebbe un rendimento percentuale dell’investimento pari a circa l'8 per cento annuo. (3)
La situazione del (e il dibattito intorno al) credito allo studio nell’Unione Europea non pare incoraggiante. (4) L’Australia e la Nuova Zelanda hanno introdotto negli anni Novanta forme di credito ancora di dimensioni limitate (nel caso dell’Australia volte a coprire solo i costi di iscrizione e frequenza), ma a lungo termine e da rimborsarsi mediante imposizione fiscale. Sarà interessante studiare gli effetti di questa innovativa politica del diritto allo studio nei prossimi anni. (5)
Nel nostro paese esiste certamente molto spazio per una più efficace politica del diritto allo studio. Ma una razionale riforma del sistema scolastico, e universitario in particolare, nonché una maggiore flessibilità del mercato del lavoro (che garantisca una minore compressione salariale a favore dei lavoratori più abili) avrebbero effetti potenzialmente molto maggiori nell’aumentare il rendimento degli studi universitari e quindi nell’incentivare i giovani a intraprenderli.
I paesi che hanno una elevata percentuale di laureati tra la popolazione adulta, come ad esempio gli Stati Uniti (28 per cento, secondo i dati della Conferenza dei rettori), hanno anche un elevato differenziale medio salariale a favore di coloro che posseggono un titolo universitario (negli Stati Uniti più del doppio rispetto all’Italia) e un invidiabile sistema universitario.

(1) Articolo 34, comma 3 e 4 della Costituzione.
(2) Si veda "La finta equità dell'università italiana" di Roberto Perotti su lavoce.info e l’articolo di Nicholas Barr sull'Education Forum - http://www.educationforum.org.nz/documents/articles/issue92.pdf)
(3) La cifra è ottenuta usando le stesse tecniche di calcolo del rendimento adottate nel nostro articolo precedente (LINK "La laurea, un ottimo investimento").
(4) Si veda a questo proposito M. Guille, 2002, "Student loans: a solution for Europe?", European Journal of Education, 37, 417-31.
(5) Si veda per il data set della Nuova Zelanda:
http://www.stats.govt.nz/datasets/education-training/Student+loan+borrowers.htm

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Universita': Il computo nevrotico del sapere

AUGUSTO ILLUMINATI

Strana bestia, la riforma universitaria. Un coacervo di pochissime leggi e di moltissimi decreti ministeriali, circolari applicative e talvolta perfino salutari ripensamenti, che nel complesso "implementano" il progetto moltiplicando e scompigliando in ogni momento dell'anno le procedure, i regolamenti d'ateneo, facolta' e corsi di laurea e i pezzi che arrivano fino allo studente: la modulistica dei piani di studio e i verbali d'esame. Il tutto in un esilarante anglo-italiano a base di panel, diploma supplement, range, ranking list e sotto la dittatura di griglie informatiche maneggiate in modo fallimentare dai funzionari ministeriali e violabili con trucchi al di sotto di qualsiasi manualita' hacker.

La macchina del 3+2

Vero che il Ddl Moratti ha suscitato un'opposizione molto estesa, ma ancor piu' vero che il corpo docente, particolarmente nelle componenti piu' strutturate (ordinari e associati), si divide fra chi coerentemente prende la distanze dalla riforma Zecchino-Berlinguer, madre dell'attuale, e chi si scaglia solo contro la stesura piu' recente, che certamente e' peggiorativa e non finanziata, ma si muove nel solco della precedente. La macchina (europea) del 3+2 e la recente introduzione del cosiddetto percorso a Y nel triennio sono nella sostanza largamente accettate, tranne che nelle facolta' umanistiche, e sarebbe arduo sostenere che la precarizzazione dei ricercatori e di altre figure non susciti consensi anche presso chi contesta le formulazioni morattiane. Il sangue dei baroni non e' acqua.

Inoltre, nell'applicazione del 3+2 e nella proliferazione dei corsi triennali e specialistici (ora denominati magistrali), nonche' dei piu' strani master di primo livello, si registra un accanimento terapeutico dovuto esclusivamente allo zelo dei docenti e all'illusione di conquistare qualche fetta di finanziamento e di potere in una fase di forsennata riduzione dei trasferimenti statali alle universita'.

Tralasciando il marasma burocratico e le patologie professionali dei docenti, il punto politicamente piu' interessante e' questo: la costruzione delle carriere studentesche mediante l'attribuzione di crediti formativi (cfu), che si aggiungono alla normale valutazione in voti, e' un tentativo goffo e illogico di computo quantitativo dei saperi, la cui gestione suggerisce improbabili analogie con standard di efficienza imprenditoriale. Il cfu dovrebbe infatti corrispondere a un certo numero di ore di studio e pagine di testo, partecipazione alle lezioni "frontali" (ce ne sono di "dorsali"?), ecc.

Secondo l'ideologia ufficiale l'acquisizione delle conoscenze e' come una fabbrica o un mercato e viene verificata con criteri di razionalizzazione, addizione (180 cfu per una laurea triennale, 120 per la magistrale, x per master e altre specializzazioni, ecc.), riconoscimento del pregresso e delocalizzazione: per esempio, 2 cfu per precedenti esperienze lavorative, x cfu per stages aziendali, tirocini e altri lavori non pagati, ecc. Dietro tali pomposi assunti e gli inni alla professionalita', in realta' vige l'arbitrio piu' totale dei criteri secondo docente, corso di laurea e facolta', il rappezzo di campi eterogenei e la segmentazione capricciosa di saperi gia' compromessi con il sistema dei moduli e ridotti in pillole con corsi da 1 o 2 cfu, funzionali soltanto a vanita' e clientelismi baronali, non certo a esigenze del mercato. Il tutto condito con centralizzazione ministeriale, canalizzazione rigida dei percorsi obbligati, futili lusinghe occupazionali e incombente depressione.

L'assemblaggio dei cfu da parte dello studente - complice l'istituzione-, funziona da variante della raccolta delle figurine. Meno divertente e con troppi doppioni. In alcuni casi si rendono effettivamente bassi servizi di fornitura di forza-lavoro precaria o piu' semplicemente si favorisce con vari meccanismi di riconoscimento la formazione privata, in particolare clericale, ma nella maggior parte delle situazioni prevale una logica produttivistica senza effettiva produttivita', molto simile a quella descritta per altri tipi di impresa da Corinne Maier in Buongiorno pigrizia. Squallida ideologia e allenamento alla sottomissione. Senza catastrofismi, constato che la macchina e' impazzita e va riorganizzata con ritocchi non marginali, abbandonando l'equivoco che basti retrocedere dalla cattive applicazioni morattiane alla buona ispirazione berlingueriana tradita.

Contenimento del danno

La natura arbitraria e caotica della riforma consente a breve una linea di contenimento del danno, per esempio intervenendo con buon senso sull'assetto del personale, la liberalizzazione dei percorsi, il riaccorpamento dei moduli e l'assegnazione ad essi di un numero superiore di cfu, al fine di ridurre drasticamente il numero degli esami che oggi affliggono studenti e docenti. Ma questi sono solo palliativi in vista di un riordino ben piu' incisivo. Per rimettere in moto l'apparato universitario e sincronizzarlo con lo sviluppo effettivo dei saperi non bastano soluzioni tecniche e neppure piu' adeguati finanziamenti.

Dobbiamo invece domandarci: come rendere desiderabile l'universita' per studenti e docenti, che oggi la vivono in modo passivo o nevrotico? Come uscire dalla disaffezione, causa non secondaria del presente sfacelo economico e politico? Si puo' comprimere la principale risorsa produttiva come avviene ora, quando si cerca di arrestare la diserzione dalle facolta' scientifiche cancellando le tasse di iscrizione mentre quelle umanistiche si svuotano a favore dei fantasmi mediatici di scienze della comunicazione? Siffatte fughe sono indizi di un'eccedenza che si sottrae a una logica aziendale, di un movimento cui non si risponde solo con incentivi materiali e deviazioni dispersive ma sparigliando e riaprendo la partita.

il manifesto - 28 Maggio 2005

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Cervelli in fuga dalla "fabbrica dei saperi"

Ricerca precaria "Intelligenze fuggitive", un'inchiesta sui ricercatori dell'universita'. La precarieta' come cartina di tornasole del "sistema formativo" italiano
BENEDETTO VECCHI

Recentemente, le agenzie di stampa hanno diffuso una notizia passata pressoche' inosservata. Con tono allarmato, alcuni presidi e docenti dell'Universita' La Sapienza di Roma si domandavano il perche' ci fosse stato una calo vorticoso di esami nell'anno accademico passato e quello in corso. Ma come, affermava un docente, gli studenti accettano di pagare tasse sicuramente alte rispetto a quando offre l'universita', compiono temerari slalom per compilare adeguati piani di studio che tengano il ritmo infernale dei corsi e poi non si presentano agli appelli: come mai? La risposta potrebbe portare a seguire il sentiero gia' tracciato dalle molteplici analisi sulla crisi dell'universita' italiana. Analisi divergenti certo, ma accomunate dalla stessa logica: le universita' possono evitare la deflagrazione solo se si sottomettono alle necessita' del mercato del lavoro. Per l'autore di una ricerca condotta tra i precari dell'universita', e ora raccolta nel volume Intelligenze fuggitive (manifestolibri, pp. 143, euro 14), la spiegazione di tale crollo degli esami va invece cercata in quella sottrazione dalla vita universitaria che gli studenti mettono in pratica in forme e modi assai eterogenei tra loro. Perche' oramai l'universita' e' un luogo di transito, dove sostare il meno possibile, magari intraprendendo strategie (opportunistiche o, all'opposto, solidaristiche) di sopravvivenza in una realta' che poco offre - un insieme di saperi parcellizzati -, ma molto chiede (in tempo e denaro).

Il libro di Gigi Roggiero, questo il nome del ricercatore che ha condotto l'inchiesta tra la "Rete dei ricercatori precari", non si occupa pero' di studenti, ma appunto di precariato universitario, cioe' di quell'insieme di ricercatori, docenti a contratto, assegnisti di ricerca che costituiscono la maggioranza della forza-lavoro intellettuale nell'universita'.

La necessita' di conoscere questo mondo sotterraneo e' nata durante le mobilitazioni dello scorso anno contro il progetto di riforma presentato da Letizia Moratti che prevedeva una istituzionalizzazione del lavoro a tempo determinato anche nella "fabbrica dei saperi". Per alcuni mesi, i ricercatori precari hanno rotto il velo che celava una situazione a dir poco inverosimile: le universita' italiane funzionano grazie soprattutto ai lavoratori precari che fanno ricerca con mezzi di fortuna (i laboratori, quando ci sono, sono dotati di tecnologie e strumenti a dir poco superati) e con un salario intermittente cosi' come il lavoro. Ma se questa e' la realta' della ricerca, non molto diversa e' la situazione dell'insegnamento, dove sono all'opera un piccolo esercito di docenti a contratto, ricercatori e dottorandi che vanno in cattedra al posto di docenti di prima e seconda fascia (gli associati e gli ordinari). E tuttavia la battaglia di questi ricercatori precari non ha chiesto solo la fine di una condizione lavorativa segnata dal ricatto, dall'asservimento servile ai "baroni", ma ha chiesto un radicale mutamento dell'universita' italiana a partire dalla propria condizione di precari.

Il puzzle che viene composto nel volume restituisce certo un panorama noto, ma osservato da una prospettiva tanto "parziale" quanto politicamente radicale. La battaglia contro la precarieta' e' conducibile allora solo se vengono sovvertire le gerarchie e la logica dominante la "fabbrica dei saperi". Che ci sia un filo rosso tra l'autonomia universitaria, la riforma Zecchino-Berlinguer e le proposte di Letizia Moratti non e' certo una novita'; che la deregolamentazione dell'accesso alla ricerca e alla docenza ha significato il dilagare a macchia d'olio della precarieta' neppure, cosi' come e' noto che il dispositivo del "3+2" ha legittimato un impoverimento dell'"offerta formativa". L'analisi di Gigi Roggiero consente dunque di mettere a fuoco alcune caratteristiche, e qui sta il valore conoscitivo e politico della ricerca, del lavoro intellettuale nelle universita' a partire dalla presa di parola dei ricercatori stessi.

Cosi', la tendenza alla "licealizzazione" dell'universita' si associa alla dequalificazione e, al tempo stesso, estrema frammentazione dei saperi funzionale alla costruzione di un sistema formativo organizzato su tre livelli: poli di eccellenza gestiti da imprese private, universita' statali di basso livello che devono "sfornare" forza-lavoro funzionale alla knowledge society e un terzo livello di "alto rango" prevalentemente pubblico, ma che conosce un'iniezione di capitale privato. Inoltre, l'accesso al sapere avviene ancora su "linee di classe", anche se questa realta' e' celata da una retorica meritocratica o, peggio, di efficienza aziendale. Questo non significa che l'universita' non sia piu' di massa, bensi' che e' solo il "censo" che apre le porte dei poli d'eccellenza pubblici, privati o a capitale misto. Condizione necessaria per questa modello di sistema formativo su tre livelli e' ovviamente il tempo determinato per la forza lavoro intellettuale.

La precarieta' e' dunque l'habitat naturale di chi vuol fare ricerca, nonostante l'ideologia sulla knowledge society che assegna alla formazione e all'innovazione un ruolo determinante nella competizione economica mondiale. Ma per molti degli intervistati, in Italia i "giochi sono fatti" e i ricercatori precari sono una "periferia accademica" rispetto a un "centro", costituito da "baroni". Allo stesso tempo, la proprieta' intellettuale - i brevetti, ma non solo - piu' che attestare il grado di eccellenza delle facolta' scientifiche e' uno strumento di governo della forza-lavoro: piu' brevetti, piu' puoi sperare nel rinnovo del contratto a tempo determinato.

Ma l'universita' e' in ogni caso considerata una "casa comune", anche se gli intervistati continuano a pensarsi come "singolarita'". Particolarita' del lavoro intellettuale, diranno i piu', ma dal volume emerge invece la perdita definitiva dell'aura che ha circondato il lavoro intellettuale. La ricerca, come la docenza, puo' appassionare e vedere una dilatazione inverosimile dell'orario di lavoro, ma e' del tutto assente una nostalgia del passato, quando le ideologie della "professione" o dell'intellettuale che illuminava la caverna del vivere sociale svolgevano un ruolo fondamentale nel definire lo status del ricercatore o del docente.

I ricercatori attuali percepiscono se stessi come lavoratori della conoscenza gelosi, pero', della loro "singolarita'", al punto che la tanto denunciata "fuga dei cervelli" e' giudicata come una scelta individuale di autovalorizzazione ("vado all'estero da precario, ma guadagno di piu' e ho piu' finanziamenti per la mia ricerca"). Allo stesso tempo, la richiesta di autonomia dell'universita' e' affermata come sottrazione dalla logica mercantile che frammenta il sapere in base alle necessita' della produzione. Questo pero' non significa che non sono disponibili ad azioni collettive. Soltanto che immaginano forme di mobilitazione dove le "singolarita'" non siano chiuse nella gabbia di una organizzazione basata sui princi'pi della rappresentanza. E disincantato e' infatti il rapporto con i sindacati (nessuna inimicizia: si possono usare come una struttura di servizio). In altri termini, anche i ricercatori precari dell'universita', proprio grazie alla "particolarita'" del lavoro svolto, sono intellegenze en general, cosi come lo e' tutta la forza-lavoro.

il manifesto - 19 Maggio 2005

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Sanguineti: Dall'universita' di massa all'universita' azienda

Nel corso dell'anno appena concluso il mondo della scuola ha dato prova, in occasione delle proteste contro la riforma Moratti, di uno dei movimenti piu' consistenti sul piano della visibilita' sociale. Ma a dispetto delle cronache e dei fermenti di critica sul terreno sindacale, stenta ancora a nascere - soprattutto nel panorama degli intellettuali italiani - un dibattito pubblico sulla natura e il ruolo della scuola, come se il tipo di sapere da trasmettere alle future generazioni fosse tutto sommato un problema di poco conto.

Nulla e' avvenuto di paragonabile alle grandi discussioni che ebbero l'effetto di suscitare le principali riforme scolastiche del passato, come la riforma Gentile - riforme non sempre condivisibili per il loro segno elitario, ma comunque in grado di fissare obiettivi di lunga durata: la formazione delle classi dirigenti; il problema di una lingua, una letteratura e una cultura nazionali; l'esigenza di una solida base unitaria da anteporre alle specializzazioni universitarie. Qual e', invece, il progetto di egemonia nelle "riforme" dei nostri tempi, quale modello di sapere verra' trasmesso nelle scuole del futuro? Si puo' definire un sistema scolastico in grado di neutralizzare il condizionamento delle disuguaglianze sociali nell'accesso agli studi? Per quel che e' dato intravedere nella situazione attuale, non sembrano emergere risposte adeguate. Anzi, a seguire il ragionamento di Edoardo Sanguineti, critico letterario e docente universitario fino a pochi anni fa, l'impressione e' che si vada verso un sapere sempre piu' frammentato, impoverito degli aspetti piu' concettuali, e verso una scuola decisamente elitaria, almeno nei livelli superiori.

Tutti i sistemi scolastici del '900 si sono divisi in due fasce: la prima obbligatoria e gratuita rivolta a tutta la popolazione; la seconda, rivolta perlopiu' alle classi dirigenti in vista del loro inserimento sociale. Cosa e' cambiato oggi in Italia?

L'accrescimento della fascia dell'obbligo, che e' avvenuto in tutti i paesi evoluti economicamente e socialmente, ha certamente aumentato l'accesso al campo degli studi e lo ha prolungato, anche se persistono casi d'evasione scolastica. Le cose sono invece piu' ambigue per quanto riguarda il proseguimento dell'acculturazione, cioe' per il passaggio all'universita'. In teoria gli studi universitari sono aperti a tutti i meritevoli, ma in concreto diventano sempre piu' esclusivi della formazione a classe dirigente di una e'lite sociale. La grande svolta che avrebbe dovuto verificarsi in occasione del '68 e del passaggio all'universita' di massa, mi pare che stia decisamente rientrando. Credo che occorrerebbe, a questo punto, riprendere daccapo i termini di un diritto all'istruzione costituzionalmente sancito e vedere cosa si puo' fare per renderlo effettivo. Bisogna fare in modo, innanzitutto, che la scuola dell'obbligo sia effettivamente formativa e non soltanto preoccupata di concedere un certo cursus piu' o meno rapido di studi, da cui uscire prima possibile per trovare lavoro. Ma del resto, gia' adesso la scuola e' sempre meno qualificante nell'inserimento professionale, del tutto o quasi abbandonato alla fortuna individuale. Secondo, si deve rendere effettivo il passaggio successivo in base al merito o alla vocazione - o come altro si voglia chiamarli - ricorrendo a programmi sistematici di studio che prescindano completamente dalla condizione economico-sociale di partenza. Dovrebbero cambiare radicalmente le strutture e le sovrastrutture dell'apparato scolastico sotto la responsabilita' specifica dello Stato, laddove oggi la tendenza e' invece verso forme varie di privatizzazione sia nel caso dell'universita' statale che si rende sempre piu' fenomeno d'azienda, sia nelle universita' private sempre piu' condizionate dall'intervento di sponsor e selezionatori molto orientati.

Come puo' tradursi in concreto?

L'immagine del campus - la chiamo cosi' per dare un vocabolo di comodo - cioe' di un luogo dove ci siano aule adeguate, alloggi per studenti e docenti, libri, biblioteche e mense a disposizione, la possibilita' di incontri molto aperti e convivenze - come avviene all'estero o in alcuni casi in Italia, per esempio la Normale di Pisa - questo dovrebbe diventare il modello dominante dell'universita'. Il guaio e' che non si investono soldi in questo, se non in maniera molto limitata. Da qui la famosa fuga di cervelli o l'avventura dei dottorati di ricerca senza esiti protetti o garantiti, ma sempre con una precarieta' fondamentale che mi pare tenda ad accentuarsi. L'aziendalizzazione va in direzione opposta a quello che dovrebbe essere l'apparato di una scuola democratica di cui lo Stato si assuma la responsabilita'. L'intervento dei privati, invece, corrode a tutti i livelli quel tanto che era rimasto di universita' pubblica, certo riformabile e discutibile ma oggi controriformata in senso opposto. L'universita' ormai conta in quanto conduce a una laurea precoce o completa, il famoso "tre piu' due". Chi entra deve sbrigarsi rapidamente. La perdita di "clienti" - cosi' sono concepiti gli studenti - diventa dannosa. Il numero, la quantita' di laureati diventa l'essenziale, con la presunzione che questo faciliti l'accesso al mondo della cultura: ma da quello che si sente da piu' parti, accade esattamente il contrario. Le cose sono rese ancor piu' difficili e complicate di quanto non fossero un tempo. Tutto il meccanismo dei "crediti" - parola che da sola merita l'infamia - e' rivelatore di una mentalita': io pago una certa preparazione che posso contrattare e se non ottengo un credito adeguato do piuttosto un altro esame che mi costa meno fatica, meno tempo e rende di piu'. Diventa tutto un problema di investimento del lavoro intellettuale e nelle forme sempre piu' degradate e sempre meno produttive.

Se la scuola non e' una semplice formazione professionale, qual e' il modello di sapere che deve trasmettere?

Una volta amavo molto la scuola elementare. Ho sempre pensato che il vizio fosse nella fascia delle scuole medie e superiori. Il bambino che andava alle elementari era chiamato a un vero e proprio "lavoro", un duro lavoro per se' e per il docente. Doveva imparare a fare delle cose, a leggere, a scrivere, a far di conto, a disegnare, teoricamente anche ad avere alcune nozioni musicali, ad esercitarsi in ginnastica. Una scuola poteva fare ogni trimestre - cosi' si diceva - un'esposizione dei lavori prodotti dai suoi scolari: temi, pensierini, disegni, recitare dei testi. Il disastro - naturalmente parlo in generale - comincia quando a partire dalle medie questa operosita', questo "fare" secondo un modello di produzione, viene meno. Si tratta da questo punto in poi di accumulare informazioni, di ascoltare e memorizzare per riversare le conoscenze nelle interrogazioni, mentre la produttivita' passa in secondo piano. Nelle scuole umanistiche, ad esempio, si procede piu' attraverso la mediazione di commenti, critiche e manuali che non per vero consumo di testi. Poi, di colpo, lo studente viene proiettato all'universita' dove la tesi, almeno un tempo, lo riportava di nuovo a un lavoro produttivo: questo accadeva soprattutto per le discipline umanistiche ma valeva anche per altre lauree. Riprendeva a scrivere, poteva scoprire, piu' o meno rapidamente, che non era piu' esercitato nella scrittura, perche' aveva fatto solo temi, composizioni e quelle cose terribili che sono le ricerche, realizzate in biblioteca o in Internet cucendo assieme dei pezzi spesso contraddittori. Quello che manca e' il lavoro produttivo.

Come si puo' recuperare il momento del fare nella fascia delle scuole superiori?

Tanto per fare un esempio, anziche' prendere un manuale di storia della letteratura e apprenderlo a memoria, un gruppo di studenti - sotto la direzione del docente - concorda di fare un'antologia, di leggere molti testi che vengono confrontati, distribuiti e selezionati. Se devo essere io a scegliere un pezzo di Machiavelli da mettere in un'antologia di prosa del '500, dovro' leggere molto questo autore e metterlo in compagnia di altri. Dovro' distribuirmi il lavoro con altri, decideremo quale passo scegliere, si prepara il commento. Cosi' si impara davvero a capire e leggere Machiavelli. Una volta lo si faceva tradurre addirittura in latino, adesso - da quel che vedo con gli studenti - non sanno piu' capirlo nemmeno in italiano. Si e' passati all'abitudine non solo dei commenti iper-compensativi, ma persino delle traduzioni dei classici. Cosi', una lingua come l'italiano di cui si parla tanto in difesa, viene abbandonata perche' rompe quella continuita' che ci permette ancora di leggere testi medievali - cosa che non avviene nelle altre letterature europee.

Da piu' parti si lancia l'allarme per un progressivo impoverimento della scuola. In particolare, c'e' la tendenza a frammentare il sapere, ad eliminarne gli aspetti piu' concettuali e astratti e a ridurlo a semplici procedure esecutivi. E' realistico, secondo lei, questo quadro?

E' quello che sta accadendo, ma io credo che questa tendenza si possa correggere con due accorgimenti. Naturalmente non e' facile, bisogna pensare a una formazione e a un aggiornamento degli insegnanti diversi da quanto preveda ora il sistema dei crediti. In primo luogo, devono diventare dei direttori di ricerca. Non bisogna aspettare l'universita' per fare un corso monografico: e' vero che si deve partire dalla base generale e elementare del manuale, ma da qui si puo' approfondire un problema specifico. Si puo' dedicare un anno a fare un'antologia della prosa italiana del '500, nessuno lo vieta. In secondo luogo, si dovrebbe accentuare l'elemento storico.
Questo e' importante non solo per le materie umanistiche - per continuare a utilizzare questa distinzione - ma anche per le discipline scientifiche. Anziche' studiare la fisica si dovrebbe analizzare come un certo problema e' nato all'interno della storia della fisica. Non e' che l'atomo, ad esempio, sia stato sempre pensato cosi' come lo pensiamo oggi. Dobbiamo piuttosto chiederci come e' nata la fisica quantistica e cosa possiamo pensare di Einstein. Se tutte queste cose le vedo storicamente come problemi da affrontare, allora non mi riduco ad essere un esecutore di cose apprese e piu' o meno cucite bene assieme. Imparo un fare. E' come il nuoto: posso insegnare ginnastica, spiegare i movimenti ma a un certo punto bisogna tuffarsi. Nuotando si impara.

Dobbiamo chiederci, pero', se questa tendenza a ridurre il sapere a procedure descrittive da usare acriticamente, non rifletta a propria volta processi sociali di fondo. E' vero che il nostro tempo e' segnato da un progresso scientifico e tecnologico senza precedenti, eppure il livello medio delle conoscenze intellettuali richieste a un individuo per lavorare, e' molto basso. Tutti usiamo il computer ma solo pochissime aziende controllano il momento della progettazione - le altre limitandosi all'assemblaggio. Possiamo ipotizzare che la scuola si stia adeguando a questo processo di impoverimento teorico?

Cosi' e' effettivamente. Si dice per abbreviare che il modello vincente e' quello americano: gente iperselezionata che sa pochissime cose, priva di una visione globale delle stesse discipline che affronta, perche' quello che le si richiede e' d'essere una ruota in un meccanismo nettamente piu' forte. Torno a dire che l'antidoto a questa frammentazione del sapere e' il connettivo concettuale della prospettiva storica. Questo rende molto concreto il problema. Io posso affrontare anche una questione molto particolare purche' di essa abbia chiara consapevolezza storica. La metodologia storica e' quella che permette poi di analizzare qualsiasi analogo problema, assumendo i materiali e i documenti corrispondenti. Ma se non ho questo, non ho niente. Il nodo non e' capire il funzionamento di tutti gli oggetti che utilizziamo, sarebbe un guaio se dovessimo costruirci da soli le scarpe, gli indumenti, l'automobile e il telefonino. Non e' questo il problema culturale, bensi' la capacita' di ricomporre la nostra esperienza in un sapere concettuale, problematico e quindi storico. L'uso delle macchine e dei computer e' anche un vantaggio, implica un risparmio di tempo e di energia, purche' non riduca l'universo-mondo a essere un'appendice della macchina medesima. La critica allo sviluppo tecnologico di tipo capitalistico ha messo in evidenza la tendenza a degradare la manodopera e la "testadopera" - cioe' il lavoro intellettuale - a una funzione di quel tipo. Un impiegato di banca puo' non avere la piu' pallida idea di cosa sia il mercato mondiale tanto quel che deve fare e' calcolare gli interessi, compilare i documenti correttamente e cosi' via.

E quindi, se vogliamo applicare fino in fondo una chiave storica, possiamo capire l'assetto della scuola a partire dalla tendenza a eliminare dalla formazione dei futuri impiegati di banca - tanto per restare al suo esempio - le conoscenze non richieste dalla professione. E' cosi'?

Una volta esisteva una elite molto riservata che formava di per se' la classe dirigente. Chi andava all'universita' apparteneva a una classe che poteva permettersi di sostenere le spese, salvo rarissime eccezioni. Oggi, se si riduce tutto alle famose tre "I", impresa, internet e inglese, ho bisogno di essere soltanto come il Chaplin dei "Tempi moderni" che sapeva girare il bullone e, fatto questo, esauriva la propria funzione. A questo punto la manodopera si puo' ridurre a un numero limitatissimo di persone perche' la macchina ha funzioni sempre piu' complesse, mentre la mente umana necessita invece di funzioni sempre piu' limitate.

Il modello dell'autonomia prevedeva un sistema di concorrenza tra le universita' nella convinzione che questo ne migliorasse la qualita'. Ma, ammesso che il calcolo fosse esatto, questo meccanismo non finisce per privilegiare gli atenei delle grandi citta'?

Ma qual e' - mi chiedo - il povero ragazzo che leggendo sul giornale le meraviglie dell'universita' di un'altra citta', abbia i mezzi per potersi trasferire? Se e' un figlio di papa' lo puo' fare, altrimenti dove prende i soldi. L'obiettivo e' privatizzare tutto, rendere tutto profittevole e utile.

Le varie riforme scolastiche del passato si ponevano problemi egemonici di lungo periodo, affrontavano il nodo della formazione delle classi dirigenti. Nei tentativi di riforma degli ultimi anni e soprattutto in quella del ministro Moratti e' riconoscibile un impianto egemonico o si limita a tagliare le spese?

E' chiaro che c'e' un modello preciso, quello che noi chiamiamo americano: massimo profitto, libera gara tra tutti, assoluto cinismo. L'umanita' e' spaccata in una e'lite che puo' concedersi tutto o pressapoco e una massa dove conta solo il numero.

Intervista di Tonino Bucci - LIBERAZIONE - 02/01/2005

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