Università, ma la meritocrazia serve?
di Alberto Burgio e Armando Petrini
Liberazione, 19/04/2007
Qualche giorno fa il Messaggero ha fornito alcuni dati di fonte ministeriale riguardanti il personale universitario dai quali viene fuori un quadro molto simile a quello dell’Università francese: la polveriera che lo scorso anno si incendiò nella lotta contro il contratto di primo impiego. Vediamoli rapidamente: l’Università italiana conta su poco più di 60 mila unità a tempo indeterminato (fra docenti e ricercatori), e su quasi 88 mila precari (sempre fra docenza e ricerca). Di questi 88 mila, quasi 50 mila sono docenti “a contratto”, e cioè docenti pagati pochissimo (qualche migliaio di euro all’anno, quando va bene) senza alcuna garanzia per il futuro perché assunti con contratti rinnovati o disdetti di anno in anno. Numeri che la dicono lunga circa la supposta “rigidità” del sistema universitario italiano.
E’ ben vero che all’interno della categoria dei docenti a contratto si possono annoverare almeno due figure molto diverse. Quella del libero professionista, che ha già un suo stipendio, a volte anche cospicuo, e che ha tutto l’interesse a ottenere un insegnamento “a contratto” per pochi soldi pur di potersi fregiare nel proprio ambito professionale del titolo aggiuntivo di “Professore Universitario”. Ma c’è poi soprattutto la selva dei veri e propri precari, e cioè di chi invece preme legittimamente per entrare di ruolo all’Università ed è costretto, in attesa che venga bandito un concorso abbordabile, a insegnare con un compenso da fame (quando non nullo), spesso senza poter godere di altri guadagni aggiuntivi.
In ogni caso, il dato numerico di 50 mila docenti a contratto (che sale a 88 mila se teniamo conto di varie altre figure, dagli assegnisti ai collaboratori, che consentono il normale funzionamento degli Atenei) non lascia dubbi circa il livello di precarizzazione del sistema universitario italiano. Il che peraltro conferma i dati allarmanti resi noti pochi giorni fa dall’Istat sulla generale precarizzazione del lavoro in Italia: gli occupati nel 2006 salgono dell’1,9% ma il 46% delle assunzioni è a tempo determinato. Stando così le cose, appare inevitabile osservare che l’azione del Governo sul versante delle politiche universitarie è stata finora alquanto carente.
E’ vero che la Finanziaria ha previsto un bando straordinario di posti di ricercatore, proprio allo scopo di regolarizzare una parte degli attuali precari. Ma si tratta di numeri decisamente al di sotto delle aspettative: circa duemila bandi a fronte dei 20 mila chiesti dalla Flc-Cgil. E comunque la questione è più complessa. Non sarebbe una soluzione adeguata nemmeno l’immissione in ruolo di 20 mila nuovi ricercatori. Al di là del fatto che si correrebbe il rischio di avviare una sorta di ope legis (a meno di introdurre procedure concorsuali molto serie e rigorose), il vero problema è che in realtà la precarizzazione della docenza e della ricerca universitaria non sono altro che lo specchio di un processo di “precarizzazione” del concetto e della funzione stessi dell’Università pubblica. Questo è l’aspetto su cui occorre appuntare l’attenzione.
Nel corso degli anni Novanta una politica universitaria dissennata (ma lucidamente indirizzata verso obiettivi ben precisi) ha progressivamente sfibrato l’Università, sottraendole il ruolo “forte” di veicolo di un sapere critico e complesso elaborato nella sintesi di didattica e ricerca.
L’abnorme proliferazione dei docenti a contratto non è che uno dei precipitati più evidenti di questo processo. La docenza a contratto è infatti il sedimento, e allo stesso tempo l’alimento, di un sistema prossimo al collasso. Un sistema che dà sempre meno spazio (e soldi) alla ricerca; che si mostra spesso incapace di una programmazione didattica e scientifica meditata e discussa sulla base di un progetto culturale; che tende infine a muoversi sempre più spesso al traino delle tendenze dell’industria culturale del momento o delle esigenze più o meno pressanti dell’impresa e del mercato del lavoro. Un sistema che perde sempre più autorevolezza, culturale e scientifica, non solo agli occhi di chi lavora all’interno degli Atenei ma anche agli occhi degli studenti. La precarizzazione della docenza universitaria è insomma una questione molto complessa, e sintomo di un generale stato di crisi. Per fortuna, a dispetto di questo panorama desolato, sembra di cogliere qualche timido segnale di una inversione di tendenza. A una Università “leggera”, destrutturata e privata di un centro solido, si torna finalmente da parte di alcuni a contrapporre un’Università “forte”, dalla proposta formativa e culturale organica e consapevole. E si parla molto in queste settimane della volontà del legislatore di premiare il “merito” all’interno delle Università.
Su questo punto bisogna essere molto chiari. Se attraverso la parola d’ordine del “merito” si vuole far valere le ragioni del mercato, o affermare un sistema di giudizio ancor più saldamente controllato dalle cordate accademiche; oppure ancora se il richiamo al merito dovesse celare la volontà di precarizzare ulteriormente la docenza universitaria e di limitare la libertà di insegnamento: ebbene, se la formula del “merito” dovesse coprire simili intenti, allora naturalmente la proposta andrebbe respinta con fermezza. Se, invece, si hanno a cuore la serietà e il rigore culturale e scientifico, allora il discorso sarebbe del tutto condivisibile.
Siamo infatti convinti che la valutazione dei docenti e dei ricercatori, per non fare che un esempio, debba essere condotta secondo criteri rigorosi. E cioè con una cadenza accettabile (la Proposta di Legge sulla docenza del Prc prescrive giustamente una cadenza quadriennale) ma prevedendo sanzioni e conseguenze di un qualche rilievo in caso di un reiterato esito negativo. La messa a punto di quest’ultimo nodo, certamente delicato, deve essere discussa a fondo, per evitare che le sanzioni possano trasformarsi in una sorta di minaccia alla libertà di ricerca e di insegnamento. Ma quel che va ribadito è che o l’Università torna a essere culturalmente e scientificamente rigorosa oppure è destinata ad avvitarsi in una crisi irreversibile. Tornare a un’Università forte, che rispetti cioè fino in fondo sia il lavoro di chi produce e trasmette conoscenza, sia il bisogno formativo degli studenti è, per questo, un’esigenza inderogabile.
Liberazione, 19/04/2007
Qualche giorno fa il Messaggero ha fornito alcuni dati di fonte ministeriale riguardanti il personale universitario dai quali viene fuori un quadro molto simile a quello dell’Università francese: la polveriera che lo scorso anno si incendiò nella lotta contro il contratto di primo impiego. Vediamoli rapidamente: l’Università italiana conta su poco più di 60 mila unità a tempo indeterminato (fra docenti e ricercatori), e su quasi 88 mila precari (sempre fra docenza e ricerca). Di questi 88 mila, quasi 50 mila sono docenti “a contratto”, e cioè docenti pagati pochissimo (qualche migliaio di euro all’anno, quando va bene) senza alcuna garanzia per il futuro perché assunti con contratti rinnovati o disdetti di anno in anno. Numeri che la dicono lunga circa la supposta “rigidità” del sistema universitario italiano.
E’ ben vero che all’interno della categoria dei docenti a contratto si possono annoverare almeno due figure molto diverse. Quella del libero professionista, che ha già un suo stipendio, a volte anche cospicuo, e che ha tutto l’interesse a ottenere un insegnamento “a contratto” per pochi soldi pur di potersi fregiare nel proprio ambito professionale del titolo aggiuntivo di “Professore Universitario”. Ma c’è poi soprattutto la selva dei veri e propri precari, e cioè di chi invece preme legittimamente per entrare di ruolo all’Università ed è costretto, in attesa che venga bandito un concorso abbordabile, a insegnare con un compenso da fame (quando non nullo), spesso senza poter godere di altri guadagni aggiuntivi.
In ogni caso, il dato numerico di 50 mila docenti a contratto (che sale a 88 mila se teniamo conto di varie altre figure, dagli assegnisti ai collaboratori, che consentono il normale funzionamento degli Atenei) non lascia dubbi circa il livello di precarizzazione del sistema universitario italiano. Il che peraltro conferma i dati allarmanti resi noti pochi giorni fa dall’Istat sulla generale precarizzazione del lavoro in Italia: gli occupati nel 2006 salgono dell’1,9% ma il 46% delle assunzioni è a tempo determinato. Stando così le cose, appare inevitabile osservare che l’azione del Governo sul versante delle politiche universitarie è stata finora alquanto carente.
E’ vero che la Finanziaria ha previsto un bando straordinario di posti di ricercatore, proprio allo scopo di regolarizzare una parte degli attuali precari. Ma si tratta di numeri decisamente al di sotto delle aspettative: circa duemila bandi a fronte dei 20 mila chiesti dalla Flc-Cgil. E comunque la questione è più complessa. Non sarebbe una soluzione adeguata nemmeno l’immissione in ruolo di 20 mila nuovi ricercatori. Al di là del fatto che si correrebbe il rischio di avviare una sorta di ope legis (a meno di introdurre procedure concorsuali molto serie e rigorose), il vero problema è che in realtà la precarizzazione della docenza e della ricerca universitaria non sono altro che lo specchio di un processo di “precarizzazione” del concetto e della funzione stessi dell’Università pubblica. Questo è l’aspetto su cui occorre appuntare l’attenzione.
Nel corso degli anni Novanta una politica universitaria dissennata (ma lucidamente indirizzata verso obiettivi ben precisi) ha progressivamente sfibrato l’Università, sottraendole il ruolo “forte” di veicolo di un sapere critico e complesso elaborato nella sintesi di didattica e ricerca.
L’abnorme proliferazione dei docenti a contratto non è che uno dei precipitati più evidenti di questo processo. La docenza a contratto è infatti il sedimento, e allo stesso tempo l’alimento, di un sistema prossimo al collasso. Un sistema che dà sempre meno spazio (e soldi) alla ricerca; che si mostra spesso incapace di una programmazione didattica e scientifica meditata e discussa sulla base di un progetto culturale; che tende infine a muoversi sempre più spesso al traino delle tendenze dell’industria culturale del momento o delle esigenze più o meno pressanti dell’impresa e del mercato del lavoro. Un sistema che perde sempre più autorevolezza, culturale e scientifica, non solo agli occhi di chi lavora all’interno degli Atenei ma anche agli occhi degli studenti. La precarizzazione della docenza universitaria è insomma una questione molto complessa, e sintomo di un generale stato di crisi. Per fortuna, a dispetto di questo panorama desolato, sembra di cogliere qualche timido segnale di una inversione di tendenza. A una Università “leggera”, destrutturata e privata di un centro solido, si torna finalmente da parte di alcuni a contrapporre un’Università “forte”, dalla proposta formativa e culturale organica e consapevole. E si parla molto in queste settimane della volontà del legislatore di premiare il “merito” all’interno delle Università.
Su questo punto bisogna essere molto chiari. Se attraverso la parola d’ordine del “merito” si vuole far valere le ragioni del mercato, o affermare un sistema di giudizio ancor più saldamente controllato dalle cordate accademiche; oppure ancora se il richiamo al merito dovesse celare la volontà di precarizzare ulteriormente la docenza universitaria e di limitare la libertà di insegnamento: ebbene, se la formula del “merito” dovesse coprire simili intenti, allora naturalmente la proposta andrebbe respinta con fermezza. Se, invece, si hanno a cuore la serietà e il rigore culturale e scientifico, allora il discorso sarebbe del tutto condivisibile.
Siamo infatti convinti che la valutazione dei docenti e dei ricercatori, per non fare che un esempio, debba essere condotta secondo criteri rigorosi. E cioè con una cadenza accettabile (la Proposta di Legge sulla docenza del Prc prescrive giustamente una cadenza quadriennale) ma prevedendo sanzioni e conseguenze di un qualche rilievo in caso di un reiterato esito negativo. La messa a punto di quest’ultimo nodo, certamente delicato, deve essere discussa a fondo, per evitare che le sanzioni possano trasformarsi in una sorta di minaccia alla libertà di ricerca e di insegnamento. Ma quel che va ribadito è che o l’Università torna a essere culturalmente e scientificamente rigorosa oppure è destinata ad avvitarsi in una crisi irreversibile. Tornare a un’Università forte, che rispetti cioè fino in fondo sia il lavoro di chi produce e trasmette conoscenza, sia il bisogno formativo degli studenti è, per questo, un’esigenza inderogabile.
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