Gli asini del tre più due
di Marina Montacutelli
AprileOnLine.info 24 ottobre 2006
Dibattito Un'indagine dell'Istat rivela un clamoroso - e non del tutto inatteso - fallimento della riforma universitaria che separa la carriera degli studenti in due tappe distinte. Primo motivo, la carenza degli iscritti che sono diminuiti di ben 16 mila unità
Qualcuno l'aveva detto, che tre più due genera asini. Che si voleva ridurre l'università a un discount. Che questo avrebbe cagionato, e non certo nel lungo periodo, perversi effetti collaterali: l'estendersi di logiche utilitaristiche, la subordinazione della qualità senza avere in cambio neanche la quantità, l'affannarsi necessario - stante il titolo aereo, breve ma anche magistrale - nella babele dei privatissimi e costosissimi master. Che la pretesa funzionalità al mondo produttivo scantonava verso un sapere minimo, imbalsamato, debole e contraddittorio, inutile e inutilizzabile anche per le imprese. Che la riforma escogitata dagli allora ministri L. Berlinguer e O. Zecchino - e mantenuta nel suo impianto di sostanziale giro d'affari dal governo successivo - esprimeva solo, in un falso miscuglio di liberalismo e "democraticismo", una profonda ignoranza e una crassa, scimmiottante subordinazione culturale: americani, senza esser l'America. Che invece del "tecnicizzante" e "professionalizzante" avviamento al lavoro - riservato a chi in America non può andare - bisognava pensare ad un percorso educativo indirizzato non al "come" ma al "perché" delle cose e dei processi.
Ora - dopo Alma Laurea, che nessuno ha voluto leggere - ce lo dice anche l'ISTAT. Conti alla mano, la riforma sta fallendo per mancanza di avventori: nell'anno accademico 2005-2006 si sono iscritti 16 mila studenti in meno. Probabilmente, il 20 per cento di loro abbandonerà prima del secondo anno; non sappiamo ancora quanti arriveranno alla laurea, essendo sovrastimati finora i dati dagli araldi del 3+2. Guardando figli e nipoti abbiamo qualche idea, invece, della qualità del pezzo di carta come attesta, infatti, l'Istat: i giovani dichiarano anche (62,4%, e sono davvero più saggi di noi) che il nuovo sistema ha peggiorato la qualità culturale complessiva.
Il parco-clienti, dunque, si assottiglia; le università, nella loro rispettabilissima autonomia, rischiano il fallimento; i docenti - unici colpevoli, ché il cerino in mano a qualcuno bisogna lasciarlo - non sono in pericolo solo perché diminuiscono anche loro: nella nuova finanziaria il turn over sarà assicurato, al solito, dal solito precariato. Che, per la verità, l'America non la vorrebbe: avrebbe bisogno di maggiori risorse, di libertà intellettuale, di diritti sociali e lavorativi; vorrebbe poter scegliere la propria vita senza la spada di damocle della - continua - temporalità. Vorrebbe una cosa chiamata "dignità", come persona e come lavoratore.
E allora, tra le tante, una domanda postami da un acuto e intelligente osservatore: invece di vaneggiare e vaniloquiare di diritto al successo formativo [sic] senza che nessuno mandi gli autori di queste evanescenze a pelar patate, c'è qualcuno che ha invece una sia pur vaga idea - e poi sia capace - di una politica della formazione (dalle elementari all'università) che non sia qualunquismo demagogico? C'è ancora qualcuno che ha voglia di combattere per la cultura, il sapere, la ricerca pensando - anche, peraltro - alla loro funzione civile? C'è qualche uditore, qualche interlocutore di questi valori universali, di questi fondamenti della civiltà? In questi anni ci siamo sentiti grilli parlanti o rane gracidanti nel fango che eravamo costretti a propinare, insieme a un sapere trasmesso in dosi omeopatiche; siamo stati e siamo offesi da questo trionfante, inarrestabile taylorismo.
Come ha notato qualcuno, e senza aver bisogno dei dati Istat: l'università è lo specchio della società; nel nostro caso, di un Paese diventato oligarchico e avviato al declino: dunque, se il destino di un giovane è quello di finire in un call center non occorrono tanti investimenti. Ma quel che è certo - dice un precario - è che nessuno potrà trarre vantaggio da corsi di laurea à la page concepiti, ogni tre anni, per tenere a bada tardoadolescenti familisti in mano a una casta che si vuol screditare e rendere cinica venditrice di crediti, non importa - tutto sommato - se di destra o di sinistra.
AprileOnLine.info 24 ottobre 2006
Dibattito Un'indagine dell'Istat rivela un clamoroso - e non del tutto inatteso - fallimento della riforma universitaria che separa la carriera degli studenti in due tappe distinte. Primo motivo, la carenza degli iscritti che sono diminuiti di ben 16 mila unità
Qualcuno l'aveva detto, che tre più due genera asini. Che si voleva ridurre l'università a un discount. Che questo avrebbe cagionato, e non certo nel lungo periodo, perversi effetti collaterali: l'estendersi di logiche utilitaristiche, la subordinazione della qualità senza avere in cambio neanche la quantità, l'affannarsi necessario - stante il titolo aereo, breve ma anche magistrale - nella babele dei privatissimi e costosissimi master. Che la pretesa funzionalità al mondo produttivo scantonava verso un sapere minimo, imbalsamato, debole e contraddittorio, inutile e inutilizzabile anche per le imprese. Che la riforma escogitata dagli allora ministri L. Berlinguer e O. Zecchino - e mantenuta nel suo impianto di sostanziale giro d'affari dal governo successivo - esprimeva solo, in un falso miscuglio di liberalismo e "democraticismo", una profonda ignoranza e una crassa, scimmiottante subordinazione culturale: americani, senza esser l'America. Che invece del "tecnicizzante" e "professionalizzante" avviamento al lavoro - riservato a chi in America non può andare - bisognava pensare ad un percorso educativo indirizzato non al "come" ma al "perché" delle cose e dei processi.
Ora - dopo Alma Laurea, che nessuno ha voluto leggere - ce lo dice anche l'ISTAT. Conti alla mano, la riforma sta fallendo per mancanza di avventori: nell'anno accademico 2005-2006 si sono iscritti 16 mila studenti in meno. Probabilmente, il 20 per cento di loro abbandonerà prima del secondo anno; non sappiamo ancora quanti arriveranno alla laurea, essendo sovrastimati finora i dati dagli araldi del 3+2. Guardando figli e nipoti abbiamo qualche idea, invece, della qualità del pezzo di carta come attesta, infatti, l'Istat: i giovani dichiarano anche (62,4%, e sono davvero più saggi di noi) che il nuovo sistema ha peggiorato la qualità culturale complessiva.
Il parco-clienti, dunque, si assottiglia; le università, nella loro rispettabilissima autonomia, rischiano il fallimento; i docenti - unici colpevoli, ché il cerino in mano a qualcuno bisogna lasciarlo - non sono in pericolo solo perché diminuiscono anche loro: nella nuova finanziaria il turn over sarà assicurato, al solito, dal solito precariato. Che, per la verità, l'America non la vorrebbe: avrebbe bisogno di maggiori risorse, di libertà intellettuale, di diritti sociali e lavorativi; vorrebbe poter scegliere la propria vita senza la spada di damocle della - continua - temporalità. Vorrebbe una cosa chiamata "dignità", come persona e come lavoratore.
E allora, tra le tante, una domanda postami da un acuto e intelligente osservatore: invece di vaneggiare e vaniloquiare di diritto al successo formativo [sic] senza che nessuno mandi gli autori di queste evanescenze a pelar patate, c'è qualcuno che ha invece una sia pur vaga idea - e poi sia capace - di una politica della formazione (dalle elementari all'università) che non sia qualunquismo demagogico? C'è ancora qualcuno che ha voglia di combattere per la cultura, il sapere, la ricerca pensando - anche, peraltro - alla loro funzione civile? C'è qualche uditore, qualche interlocutore di questi valori universali, di questi fondamenti della civiltà? In questi anni ci siamo sentiti grilli parlanti o rane gracidanti nel fango che eravamo costretti a propinare, insieme a un sapere trasmesso in dosi omeopatiche; siamo stati e siamo offesi da questo trionfante, inarrestabile taylorismo.
Come ha notato qualcuno, e senza aver bisogno dei dati Istat: l'università è lo specchio della società; nel nostro caso, di un Paese diventato oligarchico e avviato al declino: dunque, se il destino di un giovane è quello di finire in un call center non occorrono tanti investimenti. Ma quel che è certo - dice un precario - è che nessuno potrà trarre vantaggio da corsi di laurea à la page concepiti, ogni tre anni, per tenere a bada tardoadolescenti familisti in mano a una casta che si vuol screditare e rendere cinica venditrice di crediti, non importa - tutto sommato - se di destra o di sinistra.
Etichette: politica universitaria
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