9.4.06

Pasini: Il '3 + 2' per chetare Berlinguer?

Antonio Pasini
20 marzo 2006

C'e' una cosa che nessuno dice mai, ma che andrebbe saputa: il 3+2 non ha mai rappresentato un posizione baricentrica rispetto alle realta' dei sistemi di istruzione universitaria presenti nell'Unione Europea, ma semmai un punto di fuga, in avanti o laterale, tutto sommato piuttosto bislacco.

In Germania si e' cominciato a prendere sul serio gli accordi di Bologna solo sul finire del 2004 e, al momento, si sta procedendo con la costruzione del 3+2, tra le incertezze, le perplessita' e non di rado le ire dei docenti (ne conosco personalmente molti). Stessa situazione in Belgio, ma con un anno di ritardo rispetto alla Germania: la' si e' iniziato solo alla fine del 2005. Mi limito a citare Germania e Belgio perche' sono le due realta' che conosco meglio (comunque, la Germania non e' Andorra!).

Quello che non capisco e' come tutti quei ministri, in un disgraziato giorno di otto anni fa, a Bologna, abbiano potuto farsi coinvolgere in un'avventura come questa. Forse dormivano. Forse pensavano che con la loro firma sotto quei famosi accordi il Berlinguer si sarebbe chetato, e poi della cosa non sarebbe piu' parlato.

Comunque una cosa e' chiara: se l'Unione Europea ha da diventare una cosa seria, questo non e' il modo.

Antonio Pasini - Universita' di Siena

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Dal Lago: '3 + 2': imposto e subito

Alessandro Dal Lago
21 marzo 2006

Sul "Manifesto" del 15 marzo, il collega Roberto Moscati avanza alcune ipotesi relative all'evidente fallimento della riforma "3+2".

In sostanza, sarebbe stata la fretta di Berlinguer - nonostante gli avvisi dei suoi consulenti, tra cui Guido Martinotti e Roberto Moscati - ad avere compromesso il funzionamento della riforma. A cio' si aggiunga la volonta' dei ministri dei paesi forti d'Europa di mettere tutti davanti al fatto compiuto, ecc. Insomma, manipolazione politica e faciloneria spiegherebbero la confusione e il degrado in cui versa l'universita' italiana: moltiplicazione perversa dei corsi di studio, allungamento dei tempi per conseguire le lauree, abbassamento della qualita', mancato assorbimento nel mercato del lavoro e cosi' di seguito. Questo e' sicuramente vero, ma non basta.

All'epoca ero preside di facolta' e delegato del rettore per l'orientamento e la formazione e quindi in una posizione favorevole per valutare la riforma mentre ero incaricato, insieme a tanti altri, di applicarla. Ebbene, a mio avviso e' stata soprattutto l'impostazione culturale della "3+2", insieme a una serie di meccanismi perversi del tutto prevedibili ad averne causato il fallimento.

In primo luogo, l'idea burocratica che si potesse realizzarla dall'alto, in modo centralistico e con la mediazione dei gruppi di pressione nazionali come le conferenze dei presidi. Mentre le universita' erano obbligate a rendersi autonome sul piano finanziario (secondo il motto "cavatevela da soli!"), dovevano conformarsi a tabelle valide per tutti, che ignoravano le esigenze locali. Chiunque avrebbe capito che in questo modo sarebbero stati disegnati corsi utili soprattutto per "sviluppare le discipline" (cioe', per moltiplicare le cattedre), piu' che per le esigenze degli studenti. Gli obiettivi "formativi" e le tabelle che ne discendevano - frutto di accordi tra poteri accademici - erano generici, complicati e al tempo stesso vincolanti. Il calcolo dei crediti e' un rompicapo che, da una parte, non e' stato compreso per molto tempo da un gran numero di colleghi e, dall'altro, uno schema per piazzare dove possibile la propria disciplina, legittimando la richiesta di nuovi posti.

Errori tecnici clamorosi hanno fin dall'inizio compromesso il funzionamento della riforma; a nessuno e' venuto in mente che gli studenti non potevano ragionevolmente finire il triennio entro la sessione estiva del terzo anno: con la conseguenza che oggi molti si iscrivono alle specialistiche quando non si sono ancora laureati alle triennali. Il risultato e' che, per lo piu', il ciclo non dura cinque anni, ma almeno sette. Bel risultato per una riforma che voleva combattere la dispersione, gli abbandoni e l'allungamento perverso del tempo necessario per ultimare i corsi!

E non parliamo di insensatezze - frutto evidente di pedagogismi velleitari - come il calcolo del tempo di studio degli studenti o la quantificazione burocratica delle varie attivita'. L'impressione generale e' che l'importazione molto provinciale e superficiale di un linguaggio formativo all'americana ("debiti", "crediti" ecc.), debitrice di un'ideologia efficientista (a parole) molto diffusa nei governi di centro-sinistra e non solo in quelli di destra, si sia perfettamente sposata con il centralismo che affligge la nostra amministrazione. Peccato che dalla cultura accademica americana non si siano importate la flessibilita', l'efficienza e la semplicita' delle procedure.

Negli Usa, i crediti sono un mero sistema di quantificazione che permette la circolazione degli studenti nell'intero sistema accademico; da noi un specie di puzzle che ci obbliga a zigzagare tra discipline di "base", "caratterizzanti", "qualificanti", "altre", ecc. Mi piacerebbe sapere quale mente perversa ha inventato un meccanismo che farebbe disperare il piu' accanito compilatore di sistemi del totocalcio.

In breve, Moscati rivela solo una parte della verita'. L'impostazione Berlinguer e' stata velleitaria e manipolatoria, ma e' la subcultura che l'anima ad avere fallito. Inoltre, l'universita' italiana ha subito la riforma senza protestare troppo. Ovviamente, chiunque potesse ha cercato di volgerla a suo favore. Come sempre, baroni e burocrati hanno individuato subito il loro tornaconto.

La mobilitazione degli studenti e' stata nulla o velleitaria, anche perche' non avevano strumenti per orientarsi in un sistema che un gran numero di docenti ha compreso solo con difficolta'. Il risultato e' sotto gli occhi di tutti.

Alessandro Dal Lago Professore ordinario di Sociologia dei processi culturali, Universita' di Genova.

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8.4.06

Intervista a Roberto Moscati

il manifesto, 22 Marzo 2006

Frammenti dalla societa' della conoscenza
Intervista di Gigi Roggero a Roberto Moscati

Un'intervista con Roberto Moscati sugli atenei italiani dopo la riforma voluta da Luigi Berlinguer entrata in vigore nel 2001 e gli interventi legislativi della ministra Letizia Moratti
Diffuso precariato, parcellizzazione del sapere e divisione della formazione superiore tra pochi centri d'eccellenza e molte universita' di serie b incentrate su una offerta didattica di bassa qualita'
GIGI ROGGERO

Sull'universita' esiste una reale anomalia italiana. Ma non si tratta della sua «arretratezza», come potrebbero arguire i critici dell'attuale ministra - salvo poi plaudire a un probabile venturo morattismo senza Moratti. Dal punto di vista istituzionale, anzi, la riforma disegnata da Berlinguer, puntellata da Zecchino e ripresa dal centro-destra e' una punta «avanzata » (in quanto imposta dall'alto) del Bologna process, ossia della costruzione di uno spazio europeo dell'istruzione superiore incardinato sul cosiddetto «3+2» (laurea triennale, e due anni per la specialistica) e sui crediti formativi. La reale anomalia e' invece rappresentata dai movimenti degli studenti e dei ricercatori precari che hanno messo radicalmente in discussione non solo l'architettura formale dell'universita' riformata, ma anche i nodi dirimenti della didattica, della produzione dei saperi, della crescente precarieta' nel rapporto di lavoro e del mercato della formazione. Riluttanti, cioe', ad essere considerati stakeholder, cioe' protagonisti e al tempo stesso oggetti passivi della governance formativa. E tuttavia nulla si puo' capire delle trasformazioni dell'universita' italiana se non collocandole all'interno delle tendenze europee che riguardano il ruolo dei saperi nella cosiddetta knowledge society. Da qui inizia l'intervista con RobertoMoscati, docente di Sociologia all'Universita' Bicocca di Milano, a suo tempo membro della commissione Martinotti, che elaboro' le linee guida della riforma Berlinguer. «I maggiori punti di contatto tra i vari sistemi europei di formazione universitaria risiedono nel malumore dei docenti, dei ricercatori e degli studenti. per quanto riguarda i docenti e i ricercatori, lo scontento risiede nel disequilibrio tra responsabilita', incarichi didattici e non, retribuzioni e aspettative. A livello europeo, e' in atto una riduzione degli spazi della ricerca, mentre il carico didattico aumenta (in Italia siamo ancora a livelli bassi rispetto alle medie europee). Sta inoltre cambiando la figura del docente universitario. Per quanto riguarda l'Italia, la legge 382 del 1980 sul riordinamento della docenza universitaria stabiliva che i ricercatori non dovevano fare didattica, se non occasionalmente. Era poi introdotta la figura del professore a contratto, ma erano pochi, di prestigio, ben pagati. Adesso sono diventati molti, malpagati, e non sempre di prestigio. Ordinari e associati scaricano la didattica su altri, mettendo in difficolta' l'anello debole della catena, cioe' i ricercatori, che talvolta ritengono l'attivita' didattica un'occasione di prestigio. La cosa si sta allargando ai dottorandi e al post-dottorato. Tutto questo e' avvenuto e avviene senza una regolamentazione. Si riproduce cioe' la prevaricazione dei docenti piu' forti su quelli piu' giovani e deboli. Infine, molte delle figure «atipiche» nella ricerca e nell'insegnamento sono pagate pochissimo o nulla, mentre e' pesante il carico di lavoro. e' possibile ipotizzare che la frammentazione dei corsi e i saperi a rapida obsolescenza favoriti dalla riforma Berlinguer richiedano strutturalmente una forza-lavoro «usa e getta»? La diffusione dell'uso del precariato e' cominciata prima della riforma Berlinguer. e' un fenomeno generalizzato, indotto da molti aspetti combinati e riassumibile nello slogan della knowledge society. La «societa' della conoscenza» ha infatti bisogno di uomini e donne con un'istruzione superiore, anche se divisi in strati sequenziali: molti al primo livello, una parte minore al secondo, una parte ancora minore al terzo. Cosa che peraltro esiste da almeno cinquant'anni negli Stati Uniti. Tutto cio' ha pero' determinato un cambiamento sia qualitativo che quantitativo nell'« utenza». Anche se molti docenti faticano ad accettarlo, l'universita' di e'lite che esisteva fino al '68 non esiste piu'. D'altra parte, i rettori sostengono che obiettivo dell'universita' e' avere il maggior numero di studenti, alimentando cosi' la competizione tra atenei attraverso la diversificazione dell'offerta formativa o attivando corsi «alla moda», come Scienze della comunicazione. L'obiettivo dell'universita' non e' infatti la formazione di una e'lite, bensi' la formazione del cittadino. Da qui la necessita' di modificare il rapporto con gli studenti, che hanno provenienze sociali, bagagli culturali e capitali sociali tra loro molto differenziati. Di fronte a questa situazione c'e' stata una proliferazione dell'offerta didattica, ma di bassa qualita'. Bisognerebbe, invece, aumentare drasticamente il numero e la qualita' del personale docente, senza pero' alimentare la crescita di figure precarie. La legge voluta da LetiziaMoratti non fa altro che formalizzare il precariato gia' presente nell'universita'. Sono convinto che una delle priorita' dell'universita' sia la continuita' nell'attivita' di ricerca, attraverso una trasparenza dell'accesso alla carriera universita'. Potremmo dire che e' avvenuto un passaggio da criteri selettivi di esclusione a criteri di inclusione differenziale. Nel mercato della formazione, ogni singolo compone il proprio portfolio biografico accumulando crediti attraverso i differenti livelli dei sistemi di istruzione superiore. Nell'applicazione della riforma, quanto questo processo di inclusione differenziale si e' accompagnato ed ha prodotto una dequalificazione dei saperi? Il precariato universitario che fa didattica e' diviso in personale giovane che mira a fare la carriera e ricercatori appena entrati da un lato, e dall'altro «personale avventizi»o, i famosi esperti che ora vengono reclutati in quantita' rilevante. Il tipo di insegnamento che gli «esperti» forniscono e' di qualita' spesso discutibile. Chi e' un buon giornalista o un buon manager non e' detto che sappia insegnare. Diverso e' il discorso relativo ai giovani ricercatori. In molti casi la voglia e la disponibilita' di insegnare da parte loro si traduce in un'efficacia ed efficienza maggiori della media. La riforma ha pero' evidenziato un problema latente. Tra la necessita' di una formazione diffusa e la formazione di ricercatori di alta qualificazione, sta infatti emergendo una proposta: fare due tipi di universita', come gia' accade negli Stati Uniti, dove sono presenti research university e universita' che fanno solo didattica. Quest'ultime forniscono una formazione di serie B, mentre l'accesso ai cosiddetti «centri d'eccellenza» e' prerogativa della futura classe dirigente. Etuttavia credo vada pensata un'alternativa sia all'idea gentiliana dell'istruzione umanistica universale che all'attuale dequalificazione e frammentazione dei saperi. Le che ne pensa? La riforma universitaria e' stata interpretata da un punto di vista che potremmo definire ingegneristico. Tutti gli atenei si sono affannati a costruire i cosiddetti percorsi formativi, alimentando la frammentazione dei saperi. C'e' stato un ottimismo della volonta' assolutamente esagerato. Non sono state cioe' discusse le ragioni per cui si faceva una riforma che stabiliva che dopo tre anni di universita' lo studente era pronto per entrare nel mercato del lavoro, ma che poteva poi ritornare all'universita' per completare la sua specializzazione. Se l'obiettivo e' la formazione permanente, uno studente deve accettare che l'apprendimento di una disciplina posso avvenire in fasi diverse della sua vita. Inoltre, la riforma aveva bisogno di una sperimentazione e di una verifica della sua efficacia. La Germania, ad esempio, ha stabilito che valutera' in 10 anni l'efficacia della riforma basata sulla cosiddetta «Carta di Bologna». All'oggi si aggirano intorno al 30% le universita' riformate in Germania.... La commissione Martinotti aveva avvertito Berlinguer che non si poteva realizzare la riforma in qualche mese. La risposta e' stata: o facciamo questa riforma subito, o non passera' mai. Infatti, non e' stata nemmeno discussa in parlamento, e' passata di soppiatto nelle maglie della finanziaria del '98, con un lavoro sotterraneo di Guerzoni con i parlamentari affinche' accettassero qualcosa che la maggior parte non aveva nemmeno capito. Questo e' uno dei limiti politici del nostro paese: le riforme (di destra, di centro o di sinistra) non vengono mai pensate in prospettiva, ma sempre all'interno dello spazio della legislatura. Non c'e' stata dunque l'occasione per riflettere su come cambiare i contenuti dei processi formativi. Tra l'altro era una riforma a costo zero e le facolta', non potendo reclutare i docenti che le servivano, hanno ritagliato i percorsi in base alle risorse interne esistenti. Io non dico di ritornare alla situazione precedente, ma un ripensamento di fondo e' tuttavia necessario. Il nodo di fondo della riforma sembra articolarsi intorno alla cosiddetta «mission» dell'universita'. Nel momento in cui assistiamo alla moltiplicazione delle agenzie che compongono il mercato della formazione, il problema del sistema universitario e' come accreditarsi al suo interno in quanto attore competitivo. In questa chiave si possono leggere le diverse «visioni» di alcuni dei soggetti della governance dell'istruzione superiore (Crui, Cun, ministeri passati e presenti). Visioni differenti, certo, ma accumunate dal sostegno verso un processo di aziendalizzazione dell'universita'. Non crede? La Moratti non aveva un'idea alternativa per buttare amare la riforma; la tentazione l'ha avuta, ma c'e' stata una sollevazione del mondo accademico. La Crui (la conferenza dei rettori, n.d.r.) sta cercando di elaborare una proposta sulla mission dell'universita', che le consenta di giocare un ruolo di mediatore nei confronti del Ministero in sostituzione del Cun (il consiglio universitario nazionale, n.d.r.). L'universita' deve aprirsi al mondo esterno assumendo ruoli non tradizionali, come ad esempio nel rapporto con il territorio e con i committenti. Io sono del parere, maturato nella mia esperienza negli Stati Uniti, che un'universita' tanto piu' e' forte come istituzione tanto piu' potere contrattuale puo' esprimere. Chi sono i cosiddetti «stakeholders» della governance universitaria? Gli stakeholders possono essere tutti. Sono gli studenti, di cui comprendere le caratteristiche e le richieste. Sono gli gli enti pubblici locali, gli organismi spontanei, i comitati di quartiere, le aggregazioni territoriali. Credo che l'universita' possa mettersi sul mercato offrendo certi servizi. Ad esempio, se ben pagate, puo' offrire alla tal azienda farmaceutica alcune conoscenze di ricerca di base, a patto pero' che i risultati di una ricerca possano essere pubblicati anche quando i committenti privati vogliono mettere sotto copyright o brevettarli. Quanto i cambiamenti che lei ritiene necessari della riforma sono legati al processo di Bologna? In previsione di un possibile cambio di governo, qual e' l'universita' che sara' proposta e in cosa si differenziera' da quella attuale? Credo che non avremo grandi cambiamenti, bensi' un insieme di aggiustamenti. Uno riguarda lo stato giuridico della docenza, un nodo molto sentito dal corpo docente. Sara' inoltre affrontato il problema dell'aumento dei finanziamenti alla ricerca scientifica, ma e' una questione che riguardera' il Cnr. Se vincera' il centrosinistra, il futuro governo cerchera' infine di sviluppare una visione europea dell'universita'. Va anche detto che gli accordi della Sorbona, propedeutici alla conferenza di Bologna, sono stati utilizzati da Berlinguer come legittimazione della sua riforma. Secondo me sono stati - nonostante altri errori - una trovata furbissima. Visto che sono stati firmati da quattro paesi «forti» (Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna), gli altri hanno capito che conveniva aggregarsi. In Italia sono stati poi usati come giustificazione della riforma stessa. Non avremo mai un sistema unico di istruzione superiore in Europa, pero' esistono delle possibilita' di cooperazione maggiori, che passano ad esempio per la diffusione del diploma supplement per avere carte di identita' in un futuro mercato del lavoro intellettuale europeo. e' molto piu' facile tenersi fuori dalla Tav che dal processo di Bologna. D'altro canto lo spazio europeo, prima che dai disegni istituzionali, e' gia' stato aperto dalla circolazione degli studenti e dei ricercatori... Infatti. E tuttavia, non credo che cambiera' molto sul piano strutturale, anche perche' ormai il processo e' avviato. Il problema sara' di avere un vero sistema di valutazione, con una entita' autonoma non dipendente dal Ministero che collabori con le universita'. D'altra parte, se non c'e' piu' un sistema napoleonico e c'e' l'autonomia degli atenei, qualcosa bisogna fare, a meno che ci si voglia affidare al mercato totale e allo sbando.

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