Recensione. L’università del sapere pesato e venduto un tanto al chilo
di Riccardo Bellofiore e Giovanna Vertova (tratto da Liberazione del 14/02/2007)
Studiare con lentezza. L’università, la precarietà e il ritorno delle rivolte studentesche (Aa.Vv.Edizioni Alegre, Roma 2006, pp. 142, euro 10,00) è un libro prezioso per comprendere l’università-azienda, i suoi effetti sul soggetto sociale studentesco, le forme di lotta, le eventuali alternative.
Lo studente è oggi «precario in formazione dentro una catena di montaggio che nega qualsiasi richiesta di criticità» (p. 21). E’ dai processi di alienazione e di massificazione a cui è soggetto lo studente-massa dell’università riformata che si deve ripartire. L’alienazione svuota gli aspetti della condizione studentesca che ostacolano l’approdo all’unica destinazione consentita: divenire un precario in formazione. Svaniscono studio approfondito, criticità del sapere, auto-organizzazione di tempi e modi dello studio. La massificazione serve per subordinare l’università, luogo di “fabbricazione” di quella merce particolare che è la forza-lavoro, alle esigenze della produzione capitalistica. Entrambi i processi si traducono nell’espropriazione del tempo di vita dello studente, grazie alla nuova organizzazione della didattica che impone ritmi di studio pensati come ritmi di lavoro: moltiplicazione di corsi, verifiche, esami; scansione in trimestri e semestri; una media di 30/40 ore di lezione a settimana e di 15 esami all’anno. Strumento principale della taylorizzazione dello studio/lavoro universitario è il “credito formativo universitario”, che converte il tempo di lavoro da tempo di formazione critica in tempo di lavoro alienato. La segmentazione disciplinare è la tecnica produttiva a disposizione di questo neo-taylorismo, che permette di sciogliere, ricostruire o sostituire moduli di studio, nella nuova catena di montaggio della produzione flessibile.
L’origine del “3+2” sta nel tentativo di armonizzare l’istruzione superiore in Europa. I Rettori si trasformano in manager, Senati Accademici e Consigli di Facoltà in Consigli di Amministrazione. Ogni risultato è valutato in termini di “produttività” settoriale, secondo un linguaggio adatto alla produzione di un tempo o alla finanza dei nostri giorni.
In contrasto con la retorica sulla “società della conoscenza”, si produce un impoverimento e irrigidimento della conoscenza trasmessa, se non addirittura neo-analfabetismo.
Si afferma l’obsolescenza della teoria marxiana del valore, esattamente quando ciò che si dice non misurabile – lo studio e la conoscenza – viene misurato, pesato e venduto un tanto al chilo nella “nuova” università. Non stupisce che, pur in un tessuto produttivo che non eccelle, si faccia difficoltà ad assorbire laureati triennali di povera qualità. I dati nel libro chiariscono bene la tendenziale proletarizzazione e precarizzazione dei nuovi laureati, che si limitano a spiazzare sul mercato del lavoro i diplomati.
La gamma di posizioni lavorative dei laureati triennali è ampia, come lo è il ventaglio salariale, e all’estremo più basso si guadagna come un metalmeccanico.
Visto che non ci si può aspettare da questa università né mobilità sociale né alti livelli di qualificazione, i governi, neo-liberisti o social-liberisti, risolvono la difficoltà nel modo più semplice: abbassando speranze e cultura dei laureati. L’istruzione universitaria non può anticipare figure professionali o specialistiche di domani. Si dovrebbe semmai puntare su una formazione “generalista” e “critica”, a cui avrebbe diritto il cittadino in quanto tale, quali che siano le esigenze della produzione.
Nulla a che vedere con la professionalizzazione prematura o la specializzazione esasperata che dovrebbero fornire quella pletora di corsi di laurea esplosi nelle varie sedi, per compiacere le imprese-acquirenti, ingannare gli studenti-utenti, accontentare gli appetiti dei docenti. Il paradosso è che proprio una formazione culturale più ampia eviterebbe alle imprese la caduta della produttività tipica di un universo di lavoratori usa e getta, che sono stati prima studenti-clienti, perché darebbe loro maggiore versatilità e polivalenza. Certo, quel tipo di formazione creerebbe i presupposti di una maggiore autonomia dei lavoratori laureati, nella misura in cui non li riduce a costo di produzione o a capitale umano. Con il rischio però che i lavoratori, da meri portatori di forza-lavoro, si convertano in soggetti di un conflitto, se non un antagonismo, che torna a interrogarsi sul “cosa” e sul “come” produrre.
L’università-azienda restringe spazi e tempi dell’approfondimento. I percorsi di studio sono organizzati per fornire conoscenze e competenze “in tempo reale”: valide, forse, oggi; ma già obsolete domani. La formazione di base si riduce all’immagazzinamento di una formazione manualistica minimale. La compressione del tempo a disposizione per l’acquisizione e l’elaborazione dei saperi cancella la possibilità che vi sia un momento in cui ci si chiede le ragioni di ciò che si studia: non solo il come, ma anche il perché. “Studiare con lentezza” vuol dire «rovesciare il meccanismo cronologico taylorista di un sapere che va accreditato in ogni suo aspetto (lezione frontale, studio a casa, approfondimento, perfino creatività)» (p. 85). Su cosa far leva per trasformare l’università?
Si deve costruire un “sapere negativo” che si oppone a quello esistente, con al centro i bisogni dello studente-massa: un diritto allo studio, che sia diritto a studiare.
Questo non può che nascere da forme di auto-organizzazione studentesche: dalla capacità di mobilitare tutti i soggetti coinvolti, di esprimere i propri bisogni, di agire concretamente per soddisfarli; mettendo in piedi collettivi in ogni Facoltà, creando vertenze quotidiane sui bisogni reali e mobilitazioni di massa su problemi concreti. Una condizione necessaria ma non sufficiente per far ripartire il movimento. La “soggettività politica organizzata” non può sostituirsi ai soggetti sociali, ma deve mettersi a disposizione del movimento, favorendo l’emergere di nuove conflittualità, di forme originali di democrazia partecipativa, di un rinnovato incontro tra generazioni politiche. L’intervista a Daniel Bensaïd, posta a conclusione del libro, fa conoscere come si sono mossi gli studenti francesi negli ultimi anni, e come queste problematiche si sono manifestate nella viva realtà di un conflitto vincente.
Nel suo Progetto di una università per il governo di Russia Diderot la voleva aperta indistintamente a tutti. Indistintamente, perché sarebbe stato “crudele” condannare all’ignoranza le “condizioni subalterne della società”. Una scelta non “senza conseguenze”, sosteneva: perché genio, talento e virtù li si trova più tra il “popolo” che tra gli aristocratici, nel rapporto con cui diecimila abitazioni popolari stanno a un palazzo signorile.
Ingenuità di illuminista, si dirà. Certo è che le ricorrenti riforme che affliggono l’università sono parte di una tendenza che fa di nuovo della conoscenza un privilegio di classe. Una discriminazione non meno canagliesca perché dissimulata, dentro un processo che mira alla costruzione di quell’ossimoro che è un lavoratore “competente” ma sempre più povero di “conoscenza”.
Tranne felici eccezioni – come questo volume, o un recente fascicolo di Inchiesta (n. 150, 2005) – la sinistra, tutta, pare avere di ciò ben pallida coscienza, e mette regolarmente l’università al fondo della sua agenda. Crede di salvarsi l’anima chiedendo, senza ottenerli, più soldi. Di un progetto culturale, che dia nerbo ad un progetto riformatore, neanche l’ombra. Al più, l’elogio beota della meritocrazia, o del ringiovanimento della docenza. Lo studente è immancabilmente considerato un terminale passivo, o al più soggetto da difendere “sindacalmente”.
Eppure la riforma dell’università, come quella della scuola, sarebbe, per riprendere un bell’articolo di Lucio Magri (rivista del manifesto, n. 5, 2000), la “madre di tutte le riforme”. Senza riprendere questa sfida, lo stesso movimento degli studenti finirebbe, alla fine, con il ripiegare. La miopia della sinistra, non ci vuol molto a capirlo, è un errore che verrà pagato caro.
Studiare con lentezza. L’università, la precarietà e il ritorno delle rivolte studentesche (Aa.Vv.Edizioni Alegre, Roma 2006, pp. 142, euro 10,00) è un libro prezioso per comprendere l’università-azienda, i suoi effetti sul soggetto sociale studentesco, le forme di lotta, le eventuali alternative.
Lo studente è oggi «precario in formazione dentro una catena di montaggio che nega qualsiasi richiesta di criticità» (p. 21). E’ dai processi di alienazione e di massificazione a cui è soggetto lo studente-massa dell’università riformata che si deve ripartire. L’alienazione svuota gli aspetti della condizione studentesca che ostacolano l’approdo all’unica destinazione consentita: divenire un precario in formazione. Svaniscono studio approfondito, criticità del sapere, auto-organizzazione di tempi e modi dello studio. La massificazione serve per subordinare l’università, luogo di “fabbricazione” di quella merce particolare che è la forza-lavoro, alle esigenze della produzione capitalistica. Entrambi i processi si traducono nell’espropriazione del tempo di vita dello studente, grazie alla nuova organizzazione della didattica che impone ritmi di studio pensati come ritmi di lavoro: moltiplicazione di corsi, verifiche, esami; scansione in trimestri e semestri; una media di 30/40 ore di lezione a settimana e di 15 esami all’anno. Strumento principale della taylorizzazione dello studio/lavoro universitario è il “credito formativo universitario”, che converte il tempo di lavoro da tempo di formazione critica in tempo di lavoro alienato. La segmentazione disciplinare è la tecnica produttiva a disposizione di questo neo-taylorismo, che permette di sciogliere, ricostruire o sostituire moduli di studio, nella nuova catena di montaggio della produzione flessibile.
L’origine del “3+2” sta nel tentativo di armonizzare l’istruzione superiore in Europa. I Rettori si trasformano in manager, Senati Accademici e Consigli di Facoltà in Consigli di Amministrazione. Ogni risultato è valutato in termini di “produttività” settoriale, secondo un linguaggio adatto alla produzione di un tempo o alla finanza dei nostri giorni.
In contrasto con la retorica sulla “società della conoscenza”, si produce un impoverimento e irrigidimento della conoscenza trasmessa, se non addirittura neo-analfabetismo.
Si afferma l’obsolescenza della teoria marxiana del valore, esattamente quando ciò che si dice non misurabile – lo studio e la conoscenza – viene misurato, pesato e venduto un tanto al chilo nella “nuova” università. Non stupisce che, pur in un tessuto produttivo che non eccelle, si faccia difficoltà ad assorbire laureati triennali di povera qualità. I dati nel libro chiariscono bene la tendenziale proletarizzazione e precarizzazione dei nuovi laureati, che si limitano a spiazzare sul mercato del lavoro i diplomati.
La gamma di posizioni lavorative dei laureati triennali è ampia, come lo è il ventaglio salariale, e all’estremo più basso si guadagna come un metalmeccanico.
Visto che non ci si può aspettare da questa università né mobilità sociale né alti livelli di qualificazione, i governi, neo-liberisti o social-liberisti, risolvono la difficoltà nel modo più semplice: abbassando speranze e cultura dei laureati. L’istruzione universitaria non può anticipare figure professionali o specialistiche di domani. Si dovrebbe semmai puntare su una formazione “generalista” e “critica”, a cui avrebbe diritto il cittadino in quanto tale, quali che siano le esigenze della produzione.
Nulla a che vedere con la professionalizzazione prematura o la specializzazione esasperata che dovrebbero fornire quella pletora di corsi di laurea esplosi nelle varie sedi, per compiacere le imprese-acquirenti, ingannare gli studenti-utenti, accontentare gli appetiti dei docenti. Il paradosso è che proprio una formazione culturale più ampia eviterebbe alle imprese la caduta della produttività tipica di un universo di lavoratori usa e getta, che sono stati prima studenti-clienti, perché darebbe loro maggiore versatilità e polivalenza. Certo, quel tipo di formazione creerebbe i presupposti di una maggiore autonomia dei lavoratori laureati, nella misura in cui non li riduce a costo di produzione o a capitale umano. Con il rischio però che i lavoratori, da meri portatori di forza-lavoro, si convertano in soggetti di un conflitto, se non un antagonismo, che torna a interrogarsi sul “cosa” e sul “come” produrre.
L’università-azienda restringe spazi e tempi dell’approfondimento. I percorsi di studio sono organizzati per fornire conoscenze e competenze “in tempo reale”: valide, forse, oggi; ma già obsolete domani. La formazione di base si riduce all’immagazzinamento di una formazione manualistica minimale. La compressione del tempo a disposizione per l’acquisizione e l’elaborazione dei saperi cancella la possibilità che vi sia un momento in cui ci si chiede le ragioni di ciò che si studia: non solo il come, ma anche il perché. “Studiare con lentezza” vuol dire «rovesciare il meccanismo cronologico taylorista di un sapere che va accreditato in ogni suo aspetto (lezione frontale, studio a casa, approfondimento, perfino creatività)» (p. 85). Su cosa far leva per trasformare l’università?
Si deve costruire un “sapere negativo” che si oppone a quello esistente, con al centro i bisogni dello studente-massa: un diritto allo studio, che sia diritto a studiare.
Questo non può che nascere da forme di auto-organizzazione studentesche: dalla capacità di mobilitare tutti i soggetti coinvolti, di esprimere i propri bisogni, di agire concretamente per soddisfarli; mettendo in piedi collettivi in ogni Facoltà, creando vertenze quotidiane sui bisogni reali e mobilitazioni di massa su problemi concreti. Una condizione necessaria ma non sufficiente per far ripartire il movimento. La “soggettività politica organizzata” non può sostituirsi ai soggetti sociali, ma deve mettersi a disposizione del movimento, favorendo l’emergere di nuove conflittualità, di forme originali di democrazia partecipativa, di un rinnovato incontro tra generazioni politiche. L’intervista a Daniel Bensaïd, posta a conclusione del libro, fa conoscere come si sono mossi gli studenti francesi negli ultimi anni, e come queste problematiche si sono manifestate nella viva realtà di un conflitto vincente.
Nel suo Progetto di una università per il governo di Russia Diderot la voleva aperta indistintamente a tutti. Indistintamente, perché sarebbe stato “crudele” condannare all’ignoranza le “condizioni subalterne della società”. Una scelta non “senza conseguenze”, sosteneva: perché genio, talento e virtù li si trova più tra il “popolo” che tra gli aristocratici, nel rapporto con cui diecimila abitazioni popolari stanno a un palazzo signorile.
Ingenuità di illuminista, si dirà. Certo è che le ricorrenti riforme che affliggono l’università sono parte di una tendenza che fa di nuovo della conoscenza un privilegio di classe. Una discriminazione non meno canagliesca perché dissimulata, dentro un processo che mira alla costruzione di quell’ossimoro che è un lavoratore “competente” ma sempre più povero di “conoscenza”.
Tranne felici eccezioni – come questo volume, o un recente fascicolo di Inchiesta (n. 150, 2005) – la sinistra, tutta, pare avere di ciò ben pallida coscienza, e mette regolarmente l’università al fondo della sua agenda. Crede di salvarsi l’anima chiedendo, senza ottenerli, più soldi. Di un progetto culturale, che dia nerbo ad un progetto riformatore, neanche l’ombra. Al più, l’elogio beota della meritocrazia, o del ringiovanimento della docenza. Lo studente è immancabilmente considerato un terminale passivo, o al più soggetto da difendere “sindacalmente”.
Eppure la riforma dell’università, come quella della scuola, sarebbe, per riprendere un bell’articolo di Lucio Magri (rivista del manifesto, n. 5, 2000), la “madre di tutte le riforme”. Senza riprendere questa sfida, lo stesso movimento degli studenti finirebbe, alla fine, con il ripiegare. La miopia della sinistra, non ci vuol molto a capirlo, è un errore che verrà pagato caro.
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