25.11.05

La parabola peronista

di Alessandro Campi

Il ritorno al potere dei peronisti in Argentina, in circostanze tragiche ma con modalita' al limite del grottesco (cinque presidenti succedutesi nell'arco di poche settimane in un turbinio di voltafaccia, tradimenti e lotte di palazzo), ha riacceso l'attenzione degli osservatori e del pubblico su uno dei fenomeni politici piu' originali e bizzarri del secondo dopoguerra. Al tempo stesso, ha riportato alla memoria la figura di Juan Domingo Peron, il leader politico piu' amato e piu' odiato della storia politica argentina. La sua eredita', trascorsi quasi venticinque anni dalla morte, continua a pesare sulla vita di un paese che a dispetto delle tragedie e delle crisi vissute sembra ancora dividersi, nei momenti in cui sale la tensione politica, tra peronisti ed antiperonisti.

Ma cosa e' stato storicamente e politicamente il peronismo? Un autentico camaleonte, nel quale peraltro leggenda e realta' si sono continuamente sovrapposti, come sostiene lo storico e giornalista Hugo Gambini, autore recentemente di una minuziosa ed avvincente Historia del peronismo (sinora ne sono apparsi due volumi, che coprono l'arco cronologico dal 1943 al 1955). Da quando ha fatto la sua comparsa sulla scena politica, esso si e' presentato ed e' stato descritto nei modi piu' svariati. Per alcuni, ha rappresentato, soprattutto agli esordi, una variante argentina del fascismo europeo, dal quale ha ripreso in effetti molti caratteri: l'autoritarismo politico, il culto del leader, il sindacalismo, il nazionalismo, il rifiuto del liberalismo, una certa demagogia, un indubbio eclettismo ideologico, il dirigismo economico. Per altri, e' stato invece un genuino movimento popolare, democratico e radicale, teso al riscatto delle masse diseredate e all'instaurazione di una autentica giustizia sociale (da cui il termine “giustizialismo” con il quale si e' soliti indicarlo). Studiosi ed osservatori lo hanno spesso considerato un movimento d'estrema destra populista, autoritario ed ultranazionalista. Ma non e' mancato chi, enfatizzando il ruolo svolto dall'organizzazione sindacale nella politica peronista, ne ha sottolineato la natura obiettivamente emancipatrice e di sinistra, presentandolo come una sorta di laburismo o come una variante nazionalista del socialismo. Quanto ai peronisti, spesso e volentieri si sono considerati, a partire dal loro stesso leader storico, una realta' politica “ne' di destra ne' di sinistra”, una sorta di “terza via” tra comunismo e liberalismo, una realta' tipicamente argentina, senza alcun legame con le culture politiche classiche di matrice europea.

In effetti, situare il peronismo dal punto di vista ideologico e dottrinario rappresenta, ancora oggi, un autentico rompicapo, visto che nel corso delle sue molteplici metamorfosi e' stato tutto ed il suo contrario: cattolico ed anti-cattolico, protezionista e liberista, conservatore e rivoluzionario, nazionalista ed internazionalista, anti-americano e filo-americano, liberale e socialista, legalitario ed insurrezionale.

Parlare del peronismo significa, ovviamente, parlare di Peron, un personaggio ambiguo ma non privo di fascino, che difficilmente puo' essere liquidato alla stregua dei tanti caudillos militari che hanno segnato la storia latino-americana e la stessa storia argentina e che sono quasi tutti finiti nel dimenticatoio, senza lasciare dietro di se' altro che il ricordo delle violenze commesse. Diverso e' stato infatti il caso di Peron. Eletto per due volte alla presidenza della nazione, nel 1946 e nel 1952, in dieci anni di potere ininterrotto egli non solo ha modificato in modo profondo ed irreversibile gli equilibri sociali e la geografia elettorale della nazione, ma ha anche imposto una formula politica (una curiosa miscela di radicalismo democratico e populismo autoritario, di retorica “fraternalista” e intransigenza moralista, di nazionalismo economico ed egualitarismo socialisteggiante) dalla quale – come dimostrano le recenti vicende – la classe politica di quel paese non si e' ancora liberata del tutto.

Dopo Peron, l'Argentina non e' stata piu' la stessa. Come ha scritto lo statunitense Joseph A. Page, autore di un monumentale studio sul fondatore del “giustizialismo” (Peron. Una biografía, Grijalbo-Mondadori, Buenos Aires, 1999), ancora oggi “per gli argentini comprendere Peron e' un prerequisito per comprendere se stessi”. Osannato e demonizzato in vita, Peron ha continuato a ossessionare la memoria dei suoi connazionali anche dopo morto. Chi e' stato realmente? Un demagogo corrotto e senza idee, come negli anni sessanta lo presentava Guido Piovene nelle sue corrispondenze di recente raccolte in volume (In Argentina e in Peru', 1965-1966, il Mulino, Bologna, 2002) o il politico che piu' di altri ha contribuito a legittimare le ambizioni politiche delle classi popolari argentine? Un patriota genuino o il responsabile delle divisioni e degli odii che hanno segnato cosi' profondamente la storia dell'Argentina contemporanea? Un cinico senza scrupoli o solo un passionale idealista? Quale delle sue molte facce e' stata la piu' autentica? Quella del militare di carriera incline al compromesso con i poteri forti o quella del capopopolo carismatico nemico giurato delle oligarchie? Quella iniziale del conservatore suggestionato dal fascismo mussoliniano o quella terminale del rivoluzionario suggestionato da Castro e da Che Guevara”?

Il mistero di Peron non e' inferiore a quello del movimento che egli ha fondato e che gli e' sopravvissuto a dispetto d'ogni logica politica. Quello che piu' colpisce del peronismo, infatti, e' proprio la sua capacita' a risorgere dalle proprie ceneri, a eclissarsi per poi ricomparire, a ripresentarsi sulla scena politica argentina in forme apparentemente sempre nuove ma in realta' sempre fedele alla propria ispirazione originaria ed alle proprie radici. La prima eclisse del peronismo risale al 1955, quando un colpo di stato militare, ironicamente definito “rivoluzione liberatrice”, determino' l'allontanamento di Peron dalla vita politica argentina e l'inizio del suo lungo esilio madrileno. All'epoca, contro il peronismo e i suoi seguaci fu scatenata una dura repressione. Con un decreto legge emanato l'anno successivo dalla giunta del generale Aramburu, fu vietato qualunque riferimento pubblico alle insegne e ai simboli del movimento. Stampare e diffondere libri e giornali ad esso ispirati, detenere foto di Peron e della moglie Evita, cantare la marcia peronista, addirittura pronunciare in pubblico le parole “giustizialista” o “giustizialismo”, fu considerato un delitto d'opinione, perseguibile con il carcere. Per circa un decennio, il peronismo scomparve dalla scena pubblica, pur aleggiandovi come un fantasma, da alcuni evocato con nostalgia, da altri stigmatizzato con fastidio.

Alla vita civile e politica, dopo le proscrizioni e la clandestinita', i seguaci di Peron tornarono solo a partire dal 1963. Per tutti gli anni Sessanta, all'interno del movimento convissero, tra scontri furibondi, due anime: una moderata e conservatrice, l'altra radicale e marxisteggiante, accomunate da un unico obiettivo: il ritorno di Peron in patria, avvenuto effettivamente nel giugno 1973 in un clima surreale e patetico, tragico e grottesco al tempo stesso, descritto con implacabile maestria, qualche anno fa, dallo scrittore Tomas Eloy Martinez ne Il romanzo di Peron. Vecchio e malato, circondato da personaggi equivoci e senza scrupoli (su tutti il perfido e sinistro Jose' Lopez Rega, una sorta di Rasputin argentino), Peron mantenne il potere per meno di un anno, sino alla morte avvenuta il 30 giugno 1974, quando fu sostituito alla presidenza dalla terza moglie, la scialba ed inetta Isabelita.

La seconda fine del peronismo, ormai senza piu' guida e frammentato al suo interno in mille spezzoni, avvenne nel marzo 1976, con l'ennesimo colpo di stato militare, all'epoca giustificato dalla inaudita violenza di cui si stavano rendendo protagonisti da un lato i monteneros (guerriglieri che sostenevano di ispirarsi al peronismo originario) e dall'altro i famigerati squadroni della morte organizzati proprio da Lopez Rega in funzione anti-comunista ed anti-sovversiva. Per i peronisti fu l'inizio di una nuova epoca di proscrizione, per l'Argentina l'inizio di uno spaventoso incubo, conclusosi nel 1983 con il ritorno della democrazia e l'ascesa alla presidenza del radicale Alfonsín.

Ma per i peronisti, evidentemente, non era ancora giunta l'ora finale. A dare nuovo slancio al movimento intervenne Carlos Saul Menem, personaggio eccentrico e folcloristico, grande seduttore ed abile comunicatore. Dopo averne assunto il controllo, Menem trasformo' alla radice il partito giustizialista: ridusse il potere della componente sindacale, rinuncio' definitivamente alle suggestioni terzomondiste ed abbraccio' una fortunata miscela di liberismo modernizzatore e di pragmatismo anti-ideologico. Del peronismo storico mantenne unicamente l'inclinazione populista. Presidente per un decennio a partire dal 1989, Menem, acceso fautore del libero mercato e delle privatizzazioni, nemico giurato del potere militare, apparve a molti come il liquidatore dell'eredita' politica di Peron. E quando, nel 1999, anch'egli fu travolto dagli scandali e dalla crisi economica, l'epopea del peronismo - divenuto nel frattempo un rispettabile membro dell'Internazionale democristiana - sembro' essersi veramente conclusa.

Ma cosi' non e' stato. Dopo un'ennesima parentesi ed un relativo oblio, i peronisti sono oggi nuovamente al potere, divisi come sempre, amati ed odiati, ma tuttavia determinanti per le sorti della politica argentina. Nelle parole e nei primi atti dell'attuale presidente Duhalde, sembra annunciarsi, dopo la conversione al liberalismo imposta da Menem, un ritorno al passato del giustizialismo: meno mercato e piu' Stato, meno liberismo e piu' dirigismo, meno monetarismo e piu' dottrina sociale della Chiesa, con l'aggiunta del solito mix di demagogia e retorica, di fatalismo e intransigenza. Il tutto in un quadro di convulsioni sociali, di recessione economica, di depressione collettiva e di acute tensioni politiche che per l'Argentina, purtroppo, non sembra promettere nulla di buono.

da: Emporion, Quindicinale online di geoeconomia, 27 febbraio 2002)

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